di Bue Rübner Hansen

 

Ecologie della trasformazione, rubrica a cura di  
  
Emanuele Leonardi e Giulia Arrighetti

 

[Traduzione italiana a cura di Pietro Autorino, Davide Gallo Lassere, Andrea Ghelfi ed Emanuele Leonardi. L’edizione originale è apparsa qui]

 

Il corso della storia, visto nei termini del concetto di catastrofe, in realtà non può reclamare più attenzione da parte dei pensatori di quanto non faccia il caleidoscopio di un bambino, che a ogni giro di mano dissolve l’ordine stabilito in modo nuovo. C’è una profonda verità in questa immagine. I concetti della classe dirigente sono sempre stati gli specchi che hanno permesso di far prevalere una certa immagine di ordine. Il caleidoscopio deve essere distrutto.

– Walter Benjamin, Central Park

 

Recentemente ho annunciato la mia intenzione di scrivere un lungo saggio su Malm a una cerchia di persone interessate al rapporto tra comunismo e decrescita.[2] Uno di loro, ricercatore e attivista delle lotte contro gli oleodotti negli Stati Uniti, era esasperato sia dal giudizio favorevole – apparentemente contraddittorio – accordato da Malm alla strategia di spingere lo Stato capitalista a fare la cosa giusta (cfr. Corona, Clima, Emergenza Cronica [2020/2022]), sia dal suo rigoroso sostegno al sabotaggio (cfr. Come far saltare un oleodotto [2021/2022]). Un altro amico, leader veterano del movimento per la giustizia climatica, ha risposto che Andreas Malm ha “salvato da solo il marxismo dall’irrilevanza negli ultimi anni”. Un alto elogio per Malm, e un duro rimprovero al marxismo.

 

La frustrazione per la mancanza di chiarezza di Malm e l’elogio per la sua capacità di coniugare marxismo e ambientalismo vanno di pari passo: entrambi attestano le enormi aspettative generate dal suo lavoro e la sua volontà di porsi in una posizione di leadership intellettuale. Ma soprattutto testimoniano la difficoltà e l’importanza della sintesi a cui sta lavorando.

Tra gli ambientalisti è diffusa una profonda disillusione nei confronti del marxismo. Le critiche sono ormai familiari: l’impegno del marxismo per lo sviluppo libero delle forze produttive è legato all’idea del dominio dell’uomo sulla natura. Malm, come vedremo, proviene da una tradizione marxista molto diversa, che ha fatto molto per dimostrare che Marx – a differenza della maggior parte dei suoi lettori del XX secolo – era un pensatore ecologico. Malm estende il lavoro teorico e filologico di John Bellamy Foster e Paul Burkett, e più recentemente di Kohei Saito,[3] in un impegno più empirico legato ai problemi ecologici contemporanei, profuso con un profondo senso di urgenza politica.[4]

 

Malm è uno dei pochi marxisti a centrare la questione di ciò che deve essere fatto nelle crisi climatiche, e certamente il più importante. In breve, Malm si presenta come un uomo d’azione, sia in teoria che in pratica. I suoi libri raccontano gli sforzi organizzativi in vista del primo vertice sul clima (la COP1) nel 1995 a Berlino, lo sgonfiamento degli pneumatici dei SUV nel sud della Svezia nel 2007 e l’occupazione di una miniera di carbone tedesca con Ende Gelände nel 2019. Anche per Malm l’accademico la questione dell’azione è al centro:

 

“Qualsiasi teoria della ‘condizione in via di riscaldamento’ [the warming condition] dovrebbe avere come punto di riferimento pratico, se non ideale, la lotta per la stabilizzazione del clima, con la demolizione dell’economia fossile come primo passo necessario. Dovrebbe liberare spazio per l’azione e per la resistenza” (The Progress of this Storm, 2018, p. 18).

 

La pratica di Malm può essere descritta con una parafrasi della vecchia formula di Gramsci: ottimismo della volontà, catastrofismo della ragione.

“Le prospettive sono desolanti: da qui la necessità di passare all’azione” (Fossil Capital, 2016, p. 394).

È questo approccio che lo ha reso famoso non solo come studioso, ma come pensatore militante, ed è questa reputazione che frustra i lettori in cerca di chiarezza strategica. Malm è un leninista (e quindi autoritario), oppure è un movimentista pronto a tentare qualsiasi cosa, dalle pressioni sullo Stato capitalista fino alla manomissione degli oleodotti? L’opera di qualsiasi scrittore prolifico e di ampio respiro conterrà delle ambivalenze, e questo vale anche per un autore impegnato nella chiarezza e nella risolutezza come Andreas Malm. Non tutte queste ambivalenze sono solo di Malm. Nella nostra attuale situazione ecologica le domande senza risposta abbondano: come possiamo arrivare a desiderare l’abolizione del fondamento energetico della nostra vita quotidiana? Come ci sentiamo di fronte alla fine della crescita e del Progresso? Lo Stato è parte della soluzione o del problema? Queste domande comportano ambivalenza a causa del divario tra ciò che deve essere fatto e ciò che vogliamo fare, dato il nostro attaccamento allo stato attuale delle cose.

 

Malm sviluppa un metodo per abolire l’ambivalenza: qui sta la chiarezza del suo lavoro. Il suo approccio può essere descritto come caleidoscopico: ordina i frammenti eterogenei della storia attraverso gli specchi della sua teoria, mentre il monocolo fornisce la messa a fuoco e la base per una prospettiva politica unificata. Ma questo metodo evita l’ambivalenza solo in teoria. Quando si passa alla pratica, le ambivalenze ricompaiono – situate però nella zona cieca della teoria. Le recensioni delle singole opere di Malm possono non notare questi punti ciechi e queste ambivalenze, ma una volta che le leggiamo una accanto all’altra, possiamo iniziare a capire che esse sono strutturali al suo lavoro.[5]

 

1. Urgenza e distruzione

 

Quando ha bisogno di metafore toccanti, Malm torna al catastrofismo esperto e profetico degli intellettuali ebreo-tedeschi del periodo tra le due guerre. Il titolo di The Progress of this Storm (2018) è tratto dal frammento di Benjamin sull’Angelo della Storia, per il quale il Progresso è “un’unica catastrofe”, “una tempesta che soffia dal paradiso”, “che continua ad accumulare rottami su rottami e li scaglia ai suoi piedi”. La storia ha un carattere caleidoscopico in questa immagine, in cui l’unità della storia (la tempesta) e l’osservatore (l’angelo) forniscono una prospettiva da cui si può comprendere il caos delle rovine che si accumulano (ma che non fornisce alcun appiglio per la comprensione e l’organizzazione a coloro che si trovano nelle macerie). L’immagine della catastrofe serve a evocare l’urgenza disperata della nostra situazione, ad annullare ogni dubbio nella nostra mente e a mettere in moto i nostri corpi. Determinato a “strappare in extremis l’umanità alla catastrofe che è sempre minacciosa”, Malm, come il Blanqui di Benjamin, rifiuta di “elaborare piani per quello che verrà ‘dopo’”.[6]

 

L’immaginario catastrofico di Malm non si limita a sottolineare l’urgenza della nostra situazione, ma serve a giustificare l’attenzione del suo metodo alle decisioni e all’azione. Le sue opere polemiche mostrano la volontà di tagliare i problemi irrisolti trasformandoli in opposizioni, tra le quali è necessario operare una scelta. The Progress of this Storm è organizzato intorno a una serie di decisioni: realismo, non costruttivismo, dualismo natura-società, non ibridismo; materialismo storico, non nuovo materialismo, ecc. Come far saltare un oleodotto prende una decisione netta contro qualsiasi strategia di trasformazione delle abitudini, dello stile di vita e dei consumi. Si concentra invece sulla questione della chiusura delle infrastrutture fossili, in relazione alla quale esorta il movimento per il clima a fare un’altra scelta difficile: abbandonare l’impegno per la non violenza. E in Clima, Corona, Capitalismo ci chiede di scegliere tra soluzioni statali e non statali all’emergenza cronica del nostro tempo.

 

Malm è molto esplicito sul suo approccio. In The Progress of this Storm, un capitolo tratta dell'”Uso degli opposti: elogio della polarizzazione”. Il motivo è semplice. Malm è profondamente consapevole della scienza del clima e di come le previsioni dell’IPCC siano costantemente troppo ottimistiche.[7] L’urgenza della crisi climatica richiede azione e l’azione richiede decisioni. Le decisioni non sono per i deboli di cuore. Malm paragona consapevolmente il suo approccio alla figura del carattere distruttivo di Walter Benjamin, “la cui emozione più profonda è un’insuperabile sfiducia nel corso delle cose”. Il carattere distruttivo riduce l’esistente in macerie –

 

“non per amore delle macerie, bensì per amore della via che le attraversa… È la Natura a dettare il suo tempo, almeno indirettamente, perché egli deve impedirla. Altrimenti, sarà lei stessa ad occuparsi della distruzione” (The Progress of this Storm, p. 223).

 

La natura è proiettata nel femminile; la forza che può fermare la sua cieca distruzione come una volontà opposta, nel maschile. L’attivista è coinvolto in una tempesta dettata dalla temporalità della catastrofe capitalista e naturale, il cui movimento unilineare e accelerato è un semplice rovesciamento della logica esponenziale del Progresso. Nel saggio sul carattere distruttivo, troviamo un’altra caratteristica che può applicarsi a Malm: il lavoro del carattere distruttivo comporta uno “sradicamento [Radizierung] della propria condizione”. In altre parole, il carattere distruttivo non è semplicemente radicale – va alla radice del problema – ma pure sradica costantemente se stesso. Gli effetti della personalità distruttiva, i suoi punti ciechi e la sua chiarezza, sono presenti in tutta l’opera di Malm.

 

2. Il capitale fossile e la linea temporale della catastrofe

 

Le visioni catastrofiste giustificano retoricamente il decisionismo di Malm, ma il suo catastrofismo si fonda su una specifica teoria della storia capitalistica. In Fossil Capital, Malm disgiunge accuratamente la prima rivoluzione industriale dai combustibili fossili, dimostrando che per molto tempo, anzi per più di mezzo secolo dopo la macchina a vapore di Watt, l’energia idrica ha avuto un ruolo maggiore nell’industria britannica rispetto al carbone. In breve, per Malm, una civiltà industriale poteva essere costruita sulle fondamenta energetiche del “flusso” (acqua, sole, onde e vento), ma il capitale ha optato per i combustibili fossili perché richiedono meno coordinamento rispetto all’energia idrica (che richiede elaborati schemi di dighe, chiuse e distribuzione dell’energia) e hanno permesso al capitale di collocare le fabbriche vicino alle concentrazioni di manodopera nelle città, piuttosto che dipendere da unità di forza lavoro più piccole vicino alle fonti d’acqua.

 

Il volume è uno studio impressionante e importante su come i capitalisti abbiano adottato il carbone come modo per controllare la manodopera ed evitare la pianificazione e la collaborazione necessarie per costruire dighe per l’energia idrica. Tuttavia, studiando il capitale fossile come un fenomeno strettamente britannico, Malm non esplora come esso sia stato, fin dall’inizio, plasmato dalle relazioni globali del commercio e dal colonialismo. In questo senso, la metodologia e la concezione storica di Malm rispecchiano il resoconto delle origini del capitalismo portato avanti da marxisti politici come Ellen Meiksins Wood e Robert Brenner.[8] Proprio come loro, Malm fonda le relazioni di proprietà della Gran Bretagna nell’emergere del capitale (fossile), e allo stesso modo, presta pochissima attenzione alle condizioni liminari dello sviluppo capitalistico nel colonialismo e nell’espansione capitalistica mercantile delle frontiere della merce.[9] Con una notevole metafora, il geografo J.M. Blaut ha descritto questo come il “tunnel del tempo” di Brenner.[10] In Fossil Capital, la questione delle fonti energetiche dell’industrialismo britannico occupa centinaia di pagine, mentre la questione dei fattori di produzione necessari per questa industria – il cotone e lo zucchero prodotti dagli schiavi nelle monocolture delle piantagioni – non viene quasi menzionata. Per esempio: in che misura il passaggio ai combustibili fossili – una fonte di energia molto più scalabile dell’acqua – sarebbe avvenuto senza la necessità effettiva e prevista di trattare un afflusso di materiali sempre maggiore dalle colonie? Oppure: in che modo la colonia-fabbrica, che Malm analizza in dettaglio come tecnologia sociale chiave del primo industrialismo britannico, era collegata, come idea o istituzione, alle tecnologie di potere nelle colonie reali? Queste domande, che potrebbero collocare il capitale fossile all’interno di relazioni più ampie di violenza e commercio, non vengono poste.

 

La narrazione di Malm è che il capitalismo si sia diffuso a partire da un luogo geografico, avvolgendo il mondo in una logica sociale specifica di quel luogo. Un tale schema rispecchia la concezione illuministica della storia, in cui un soggetto/spirito si diffonde gradualmente in tutto il mondo – scollegato com’è dalle questioni materiali di come il capitalismo sia stato, non solo nella Gran Bretagna del XIX secolo, ma fin dall’inizio, intrecciato con i cambiamenti geoeconomici (l’argento coloniale spagnolo, l’incipiente colonialismo, l’apertura di una rotta marittima verso l’Asia orientale, ecc.) Tenendo da parte tali questioni, la concezione di Fossil Capital della storia come Catastrofe inverte semplicemente i termini della filosofia liberale della storia come Progresso. In entrambe le teleologie, la modernità capitalista è concepita come un processo unificato con un’origine europea e un capolinea globale.

 

L’effetto complessivo della centralità delle relazioni di proprietà è una focalizzazione sul capitale come relazione sociale all’interno dell’ordine politico e legale che costituisce la proprietà, e una relativa trascuratezza del capitale come regime di violenza diretta – ecologica ed extralegale.  L’attenzione ai combustibili fossili, che caratterizza tutti i suoi libri con la parziale eccezione di quello sulla pandemia, aggrava questa situazione: Malm mostra scarso interesse per altri fattori di estinzione e di rottura degli ecosistemi, come il colonialismo, l’agricoltura di piantagione, la schiavitù, l’estrattivismo, l’accaparramento delle terre, i pesticidi e i fertilizzanti a base fossile, ecc. Per la maggior parte, l’accusa al capitalismo non riguarda il modello dell’industrialismo in sé, in quanto basato su un regime globale di violenza economica ed ecologica, ma il regime energetico del capitalismo come sintomo storico delle relazioni di proprietà che separano proprietari e lavoratori nel centro del sistema-mondo. La lotta di classe viene quindi concepita attraverso la camera degli specchi del rapporto capitale-lavoro che si universalizza.

 

La camera degli specchi della storia europea dà unità alla storia, mentre il monocolo permette al teorico di vedere l’ordine nei frammenti del passato. Tutto ciò che si trova oltre, al di là o al di sotto di questa camera degli specchi è considerato arretrato, irrilevante o sepolto dal rumore del motore. In Fossil Capital, questo è lo status del non-moderno, del non-occidentale, del non-capitalista e di ciò che è connesso al capitalismo solo attraverso catene di accumulazione originaria e ciò che Anna Tsing, insistendo sulla importanza prolungata della sussunzione formale, chiama “accumulazione di salvataggio”.[11] In Malm, tali lotte appaiono nelle tensioni o ai margini dell’argomentazione.

 

Nell’ultima pagina del su opus magnum, Andreas Malm invoca l’eredità degli oppressi, che può ispirarci a “far deragliare il disastro finale del presente”. Come se volesse sottolineare il punto, si appella alle famose parole di Walter Benjamin, secondo il quale le rivoluzioni non possono essere –  come in Marx – la locomotiva della storia mondiale, ma “un tentativo da parte dei passeggeri di questo treno – cioè la razza umana – di tirare il freno d’emergenza”. Entrambe le ingiunzioni sembrano valide, ma tirare il freno e far deragliare un treno non sono la stessa cosa, così come non lo è la posizione da cui le due operazioni vengono portate all’atto. L’ambivalenza riappare nel mezzo dell’urgenza catastrofica. Nelle opere successive, Malm si consola con l’immagine di eserciti fanoniani che si sollevano dal loro vittimismo climatico. Nella concezione generale della storia di Malm, queste figure appaiono come messianici disgregatori, non come portatori di storie alternative, diversamente intrecciate con il capitale e il colonialismo, figure che possono insegnarci come persistere e resistere nonostante e contro la fine del nostro mondo. Questo, come vedremo più avanti, si traduce anche in una debolezza nel modo in cui viene posta la questione della solidarietà internazionale.

 

Nel frattempo, la critica alle tecnologie che compongono le forze di produzione – macchiniche, organizzative, educative – è in gran parte limitata alle loro funzioni di dominio di classe all’interno di una formazione sociale e in termini di sottoprodotti ambientali non intenzionali, primo fra tutti ovviamente le emissioni di gas serra. Ancora una volta, vediamo che la logica storica di Malm è più adatta a una critica ambientalista che ecologica della distruzione capitalista della natura: la distruzione capitalista è più facilmente immaginata come una distruzione di uno spazio esterno – l’ambiente – che come un aspetto intrinseco della produzione capitalista (la nocività del lavoro industriale, il degrado ecologico delle monocolture di piantagione, ecc.).

 

Ciò consente di creare un’ambivalenza tra le invocazioni di Malm al Progresso come Catastrofe e le sue speculazioni sul fatto che lo Stato possa risolvere i problemi del cambiamento climatico attraverso massicci investimenti nelle energie rinnovabili.[12] Qui abbiamo il Progresso come Progresso, come espresso dal trafiletto sulla quarta pagina di Fossil Capital, in cui si afferma che il libro “smaschera con forza l’assunto secondo cui la crescita economica ci ha inevitabilmente portato sull’orlo della ‘serra’ terrestre […] è stata la logica del capitale […], non la tecnologia o l’industrialismo di per sé, a guidare il riscaldamento globale”. Nonostante l’accusa retorica di Malm al Progresso, troviamo in lui un certo attaccamento al modernismo tecnologico. Nel podcast svedese Stormens Utveckling, che prende il nome dal suo libro, Malm liquida il movimento antinucleare come ingenuo.[13] Elogia invece le tecnologie di cattura e stoccaggio dell’anidride carbonica, la cui capacità di funzionare su larga scala rimane ipotetica,[14] mentre le tecnologie di riparazione ecologica e climatica (come l’agroecologia, l’agricoltura riparativa e la permacultura), apparentemente “non moderne” eppure esistenti e in fase avanzata di sviluppo, non vengono citate.[15]

 

Certamente questa ambivalenza ha a che fare con la difficoltà di sintetizzare un marxismo impegnato a riprendere la modernità industriale e un ambientalismo che sa che si sta avvicinando il momento di una rapida rottura dell’economia mondiale. Ma il rapporto ambivalente con il Progresso – è al contempo catastrofe e meraviglia tecnologica – non è ovviamente caratteristico solo di Malm, ma del marxismo in generale, soprattutto dopo i cataclismi del XX secolo. Si tratta di un marxismo inorridito dal disastro storico mondiale del capitalismo, eppure affezionato al suo mondo. Il pubblico per questa sensibilità non è mai stato così vasto come oggi. Questa ambivalenza può essere dannosa in molti altri generi, ma nella scrittura climatica è vantaggiosa per la semplice ragione che molti la condividono. Ben oltre il solo Malm, e qui includo le mie abitudini e i miei gusti, sono profondamente attaccati alla modernità industriale, per quanto sappiamo che una rapida interruzione sia necessaria. Questa risonanza affettiva può essere parte del motivo per cui Malm è diventato la prima star internazionale dell’eco-marxismo nell’era della crisi climatica.

 

La risonanza e il rilievo degli scritti di Malm rendono importante un approccio critico. Se le ambivalenze di Malm sono le nostre ambivalenze, i suoi punti ciechi possono diventare i nostri punti ciechi e i suoi limiti i nostri limiti. Quando ciò accade, l’opera di Malm può diventare tanto un ostacolo quanto un aiuto per affrontare i problemi che tutti noi non possiamo più ignorare.

 

3. Linee di demarcazione nella tempesta

 

Concependo la teoria come al servizio di qualsiasi pratica di lotta che possa stabilizzare il clima, Malm trascina la logica politica nella teoria. The Progress of This Storm si legge come una lunga serie di attacchi a suoi nemici e avversari teorici: il costruttivismo, l’ibridismo, e il nuovo materialismo, così come la world-ecology del marxista Jason Moore.[16] Il più grande nemico di Malm è Bruno Latour, di cui descrive La politica della natura come “un’orgia nella melma” e come “fango scaricato sul povero lettore” (p. 187). In questi passaggi lo stile di Malm riecheggia il Lenin di Materialismo ed empirio-criticismo, che Maxim Gorky – che aveva simpatia sia per Lenin che per le teorie di Ernst Mach – descrisse come un atto di “teppismo filosofico”, che tuttavia “faceva il suo dovere”. Lettori con sentimenti contrastanti su The Progress of This Storm potrebbero reagire in modo simile.[17]

 

Il leninismo di Malm è più che stilistico, è politico (come vediamo in Corona, Clima, Emergenza Cronica) e metodologico: tracciando linee di demarcazione tra posizioni teoriche corrette e scorrette, il suo obiettivo non è quello di sintetizzare le opinioni di teorici diversi (come nella totalizzazione Jamesoniana)[18] o di situarne storicamente possibilità e limiti (come in una storia intellettuale). Piuttosto, egli invoca l’urgenza di combattere il cambiamento climatico capitalistico per imporre una scelta teorica rispetto ad approcci alternativi. Secondo Malm, le teorie costruttiviste non riescono a fare i conti con la natura autonoma come forza “imprevedibile, indisciplinata e recalcitrante” (199). In questo senso, esse imitano i tentativi del capitale di sottomettere la natura alla legge del valore (217). All’opposto, il nuovo materialismo riflette l’idea nascente, ma falsa, che l’autonomia della natura sia così forte che gli esseri umani non possano fare nulla per evitare il disastro (218). L’ibridismo gioisce nello smantellare l’opposizione tra società e natura, fornendo “un’immagine teorica speculare al bulldozer omogeneizzante del capitale” (219). E Moore, apparentemente attratto dalle innovazioni teoriche dell’ibridismo di Latour, abbandona la distinzione politicamente cruciale tra società umane e natura.

 

Secondo Malm, la teoria è la premessa forte del discorso politico, ed essa contribuisce direttamente alla lotta per stabilizzare il clima. L’aspetto più rilevante di questa premessa consiste nella corretta attribuzione di agency e culpability. Latour è sotto tiro su entrambi i fronti. Appoggiando la nozione di antropocene e un certo scetticismo nei confronti della categoria di capitalismo, Latour dà credito all’idea che l’umanità in quanto tale – piuttosto che il capitale fossile – sia responsabile della disgregazione dell’ecosistema e del cambiamento climatico.[19] Inoltre, l’ibridismo ontologico di Latour, che vede agency ovunque, oscura il fatto che solo gli esseri umani sono dotati dell’intenzionalità necessaria per smantellare consapevolmente l’economia fossile. Malm riassume la linea da seguire in questa formula: “Monismo della sostanza, dualismo della proprietà”. Ciò significa che, ontologicamente parlando, la società e la natura sono della stessa sostanza, ma che le loro proprietà sono storicamente divergenti al punto che la società affronta la natura come una forza estranea e distruttiva. In altre parole, il binarismo tra natura e società non è organico, ma analitico e storico: una distinzione utile e persino necessaria per capire che il problema e la soluzione risiedono entrambi nell’essere umano.

 

Le scelte che strutturano The Progress of this Storm radicano l’attenzione di Malm su agency e azione nella filosofia della scienza. Malm ci guida preziosamente lontano dalle mistificazioni delle teorie del cambiamento climatico e del degrado ecologico che trascurano il capitale e verso la necessità di un’azione urgente e intenzionale. Tuttavia, la sua enfasi polemica sulla catastrofe, sul dualismo natura/società e sull’agency-come-volontà ci trascina in una successione e in una temporalità che rispecchiano l’accelerazione del capitalismo verso la distruzione ecologica. Si tratta di una gara tra due soggetti sradicati: il capitale fossile e l’umanità. Siamo in una corsa con un traguardo: “nessuna estrazione e nessuna emissione” (The Progress, 227).

 

A prima vista, l’accento posto da Malm sui combustibili fossili è salutare, in quanto allena il nostro sguardo alla più grande minaccia all’abitabilità del pianeta. Tuttavia, i combustibili fossili giocano oggi un ruolo così importante nella riproduzione sociale che è improbabile che possano essere sostituiti dalle energie rinnovabili abbastanza velocemente da evitare una simultanea e fondamentale riorganizzazione della riproduzione e del funzionamento delle società umane. Ovviamente, i combustibili fossili dovranno essere tagliati così rapidamente da rendere sempre più inevitabile una significativa carenza di energia. In altre parole, costruire il problema del cambiamento climatico come un problema di agency in relazione al capitale fossile non è sbagliato, ma unilaterale. Affrontare il problema dell’economia fossile come un problema di azione è molto diverso dal costruirlo come un problema di storia (naturale), ecologia o cura.

 

Nella prima prefazione al Capitale, Marx ci invita a concepire la storia della formazione economica della società come “un processo di storia naturale”. In questo processo, scrive Marx, gli individui sono portatori di relazioni e interessi di classe e sono creature piuttosto che creatori di processi economici.[20] Porre il problema in questo modo sposta l’attenzione dall’agency e dalla volontà a questioni più strutturali, su come la riproduzione delle società umane possa essere disgiunta dalla riproduzione del capitale. Una tale trasformazione non può essere semplicemente voluta, e la storia naturale non può essere semplicemente interrotta, ma solo riarticolata. Come è stata disgiunta la riproduzione sociale dalla vita non umana – e come può essere ricongiunta? O meglio, in che modo l’intreccio del sociale con le ecologie naturali è stato spinto così ai margini, in modo che questo nucleo sociale fosse protetto e, al contempo si permettesse la noncuranza delle ecologie naturali? Questi problemi non si risolveranno arrivando a quello che Malm chiama “un modo di produzione pianificato” (153), che ha più probabilità di mantenere un immaginario ambientale che di sostituirlo con un pensiero, un’attenzione e una pratica ecologici. Per fare ciò, dobbiamo prestare attenzione e ritessere reti di interdipendenza, al di là di ogni chiaro confine tra ecologia sociale e naturale. Ciò solleva questioni di coinvolgimento e ibridazione, e l’agency corrispondente è più una questione di cura che di volontà.

 

Malm si concentra invece su qualunque agency che sia responsabile del riscaldamento globale e su qualunque agency che possa interrompere la produzione di combustibili fossili. L’attenzione di Malm per l’agency in termini di colpevolezza e intenzionalità è filtrata dalla sua visione della storia. Poiché la storia del mondo è sussunta da una visione unificata della storia capitalista, diventa necessario e possibile immaginare un concetto unificato di umanità in due sensi: l’umanità come sostanza unificata della storia capitalista (intesa in termini di “capacità di astrazione”, esclusivamente umana, che Malm considera un tratto di vera intenzionalità e un “prerequisito per le relazioni di proprietà capitaliste”; The Progress of This Storm, 167), e l’umanità come soggetto unificato necessario per porre fine al capitale fossile. Ciò fornisce un modo per immaginare il cambiamento climatico come una battaglia epica tra il capitale fossile e l’umanità, considerata nel tempo futuro “un soggetto globale autocosciente” (174), che rispecchia il quasi-soggetto globale del capitale. Malm intuisce le difficoltà del farsi strada in questa sala degli specchi: ma “dov’è questo soggetto globale? Chi è? Porre semplicemente queste domande significa soppesare il vuoto in cui annaspiamo” (174).

 

Nonostante questa ammessa ignoranza, Malm tratta l’umanità come la risposta piuttosto che come la domanda. O, in altre parole, dà per scontata l’umanità e ignora il problema dell’antropogenesi. Tale problema riguarda come l’umanità sia emersa come specie infinitamente variabile (si pensi alla moltitudine di adattamenti e invenzioni sociali, climatiche ed ecologiche), e la questione più puntuale di come sia nata l’idea dell’umanità come separata dalla natura. Se Malm si fosse posto il problema dell’antropogenesi, sarebbe stato più titubante nell’affermare l’idea dell’umanità come separata dalla natura. Sarebbe, soprattutto, stato più sensibile ai punti ciechi dell’idea di umanità-come-separata: ciò che non viene considerato in questa nozione sono quei modi di cognizione e di attività, spesso presentati come “indigeni” o “femminili”, che rifiutano di concepirsi o di agire come separati da ciò che, in un gesto di grande astrazione, viene chiamato “natura”. In parole povere, la definizione di umanità come opposto di natura, pur essendo vagamente radicata nella cosmologia monoteista, si è affermata solo attraverso le separazioni materiali e ideologiche prodotte dal capitalismo e dal colonialismo. Inoltre, possiamo chiederci se la capacità umana di astrazione sia originaria o se sia un riflesso mentale delle pratiche socio-ecologiche di astrazione insite nello scambio di merci.[21] Certamente, Malm è sensibile all’universalizzazione geografica della storia capitalista, alla sua imposizione di uno spazio-tempo uniforme e al trattamento di tutte le attività umane come potenziale lavoro astratto, ecc. Tuttavia, la deriva teleologica della sua descrizione della storia capitalista e delle strategie di trasformazione trascura l’effettiva e necessaria incompletezza di questi processi e la dipendenza del capitalismo dai beni comuni che sono umani – e più che umani.[22]

 

Malm si disinteressa di questi intrecci, perché nel tunnel del suo caleidoscopio il problema e la soluzione risiedono nella storia umana. Il compito è quindi quello di difendere la distinzione tra uomo e natura, piuttosto che annullarla o ridurla. Dobbiamo lasciare la natura a se stessa, come natura selvaggia, almeno nel Sud globale (128), per mantenere delle barriere tra le riserve naturali e le società umane (129). In definitiva, sarebbe necessario un veganesimo globale, scrive Malm (130), e chiaramente “lo Stato dovrebbe metterlo in atto” imponendo “restrizioni draconiane” (131). Per sostenere la sua tesi, Malm sceglie un esempio valido anche se imperfetto – la legislazione del governo Lula contro la deforestazione in Brasile – e ignora questioni scomode, come quella di chiedere al governo svedese di imporre il veganesimo al popolo Sami, che vive di allevamento di renne e allo stesso tempo partecipa a lotte ecologiche con altri popoli indigeni, o ai 268 milioni di persone che, secondo le stime, vivono di pastorizia in Africa.[23]

 

Nelle osservazioni contenute in Corona, Clima, Emergenza Cronica sulla natura selvaggia, il lettore è lasciato senza argomenti contro la possibilità di considerare le popolazioni indigene selvagge, non pienamente umane o pronte per lo sfratto. È stato quindi con un certo sollievo che ho letto il lungo saggio di Malm “In Wilderness is the Liberation of the World”, in cui si rifiuta di parlare di wilderness assoluta e descrive come le comunità maroon sfuggite alla schiavitù e i partigiani ebrei che combattevano l’occupazione nazista della Polonia fossero sostenuti da “wilderness relative”. Tuttavia, anche in questo caso, egli è interessato alla natura selvaggia come santuario piuttosto che come spazio di abitabilità ecologica in atto. Più in generale, Malm tende a ridurre l’intenzionalità umana all’intenzionalità degli esseri umani come portatori o vittime della civiltà capitalista. Le attività di persone che si riproducono senza contribuire all’ecocidio, dalle popolazioni indigene agli agro-ecologisti, vengono menzionate solo quando questi dirigono le proteste contro gli oleodotti. Ma possono dare una leadership molto più ampia. Questa leadership può essere politica. Basti pensare alla più grande organizzazione internazionale di classe di che combina la lotta per l’ecologia e i mezzi di sussistenza: la confederazione contadina globale La Via Campesina, che Malm non cita.[24] E la loro leadership può essere tecnologica: gli indigeni e gli agro-ecologisti ottengono cibo, comprese le proteine animali, senza allevamenti intensivi, mantenendo i cicli nutritivi senza fertilizzanti di origine fossile. Dal punto di vista sociale, l’agroecologia contadina e i mezzi di sussistenza indigeni non sono solo modi di vita, ma anche basi di lotta contro la deforestazione, gli oleodotti e contro le forme di agricoltura che trasformano la terra da deposito di carbonio a fonte di carbonio.[25]

 

Questo ci indica i limiti dell’iterazione di Malm della teoria della frattura metabolica, quando si tratta di pensare alla transizione ecologica: se da un lato apre con forza all’analisi del problema, dall’altro la questione dell’annullamento di questa frattura apre altre questioni più ibride. Si tratta di problemi di ripristino e cura dell’ambiente, di proprietà e uso della terra, di forme di agricoltura che vanno oltre le monocolture dell’economia delle piantagioni e i pesticidi, i fertilizzanti a base di gas e i macchinari ad alta intensità di capitale e petrolio della cosiddetta Rivoluzione Verde. Più in generale, la distinzione di Malm tra società e natura, così come la sua attenzione ai combustibili fossili, ci lascia all’interno di un paradigma di pensiero e di azione ambientalista che si ferma prima di prendere in considerazione l’intreccio ecologico.

 

Certo, l’azione umana (anche attraverso lo Stato) e la tecnologia moderna sono necessarie. Ma lo sono anche la politica, l’etica e le tecnologie moderne della riparazione ecologica, della mutualità, della rigenerazione e dell’abitabilità. Entrambe le parti sono necessarie, nessuna è sufficiente. Ma quando il nostro pensiero viene limitato dalla temporalità urgente della catastrofe, la seconda scompare dalla vista. L’apprezzamento di Malm per il lavoro di Carolyn Merchant suggerisce che egli non è ostile a tali preoccupazioni, ma rimane irrilevante per la sua visione, sia politica che teorica. I lettori interessati a superare i punti ciechi di Malm possono considerare l’importanza del concetto di “cura della terra” di Merchant, o il lavoro di altre eco-femministe marxiste che hanno sviluppato concetti importanti come quelli di “lavoro ibrido” (Battistoni), “forze della riproduzione” e “lavoro di cura della terra” [earthcare work] (Barca), così come quelle che hanno molto da insegnarci sulla vita nelle rovine capitaliste (Tsing), e sull’importanza sistemica del “lavoro meta-industriale” per la civiltà capitalista, che è svolto da persone razzializzate, femminilizzate e diseredate che riproducono l’umanità prendendosi cura dell’ambiente biofisico che rende possibile la vita umana (Salleh).[26]

 

Basando la sua teoria dell’azione climatica sull’incrocio tra agency e colpevolezza umana, Malm cerca una volontà definita dalla separazione e quindi capace di tagliare l’ambivalenza: la scissione della decisione. L’epica semplificazione dell’agency agli esseri umani si traduce in una visione limitata dei tipi di agency umana necessari per porre fine alla civiltà fossile. Le questioni della cura e di altre forme di agency sociale non produttiva e non consumistica, come il gioco e l’ozio, sono lasciate da parte, così come le questioni del nostro radicamento nei suoli e in ecologie non confinate, e il nostro immaginario di ciò che è giusto al di là dell’economia altamente emissiva e di ciò che è sbagliato al suo interno. Eppure, le risposte a queste domande sono essenziali non solo per una società post-fossile (un punto su cui tornerò), ma per il risveglio dei desideri sociali. Perché solo con tali desideri le persone non catastroficamente colpite possono arrivare a vedere non solo la necessità scientifica di porre fine alla civiltà fossile – e la scienza è una motivazione debole, come sappiamo fin troppo bene – ma arrivare a provare un disgusto esistenziale nei confronti di questa civiltà, nonché una desiderabilità soggettiva rispetto alla sua fine. In breve, la riduzione epica dell’agency all’intenzionalità umana, che dovrebbe spronarci all’azione, distoglie la nostra attenzione dalle condizioni “non intenzionali” dell’agency.

 

4. Oleodotti: dalla decisione all’azione

 

Nel 2005, riflettendo sulle vulnerabilità dell’occupazione americana dell’Iraq, il Pipeline and Gas Journal ha confermato che “i gasdotti sono molto facilmente sabotabili. Un semplice ordigno esplosivo può mettere fuori uso un tratto critico di gasdotto per settimane”. Alcuni lettori potrebbero rimanere delusi nell’apprendere che il libro di Malm su questo argomento, più propriamente intitolato Come far saltare un oleodotto, non contiene ricette fai-da-te. Scritto alla fine del 2019 come intervento nel movimento per il clima in rapida crescita in quell’anno – Fridays for Future, Extinction Rebellion, Ende Gelände – il libro costituisce un forte appello all’azione. Malm presta attenzione alla storia, per lo più non ambientalista, del sabotaggio degli oleodotti nel Sud globale, dagli attacchi dell’African National Congress all’approvvigionamento energetico del Sudafrica durante l’apartheid, agli attacchi anticoloniali agli oleodotti nelle lotte di liberazione nazionale di Siria e Palestina, fino all’ambientalismo radicale del Movimento per l’emancipazione del Delta del Niger. Intervenire sulle temporalità del capitale fossile e sulla loro negazione significa mettere a fuoco le azioni che gli esseri umani, e solo gli esseri umani, possono intraprendere. Di conseguenza, Malm lavora attraverso una serie di opposizioni e prese di decisione. Una scelta singolare struttura Come far saltare un oleodotto: la scelta tra la non violenza strategica e l’uso strategico della violenza non contro le persone, ma contro le proprietà che distruggono la terra: dagli oleodotti alle migliaia di SUV che Malm e i suoi compagni hanno sgonfiato in Svezia nel 2007.

 

Malm scrive di e per le lotte ambientali nei Paesi maggiormente responsabili dell’emergenza climatica. In questo caso, la sua attenzione non si concentra sulle lezioni e sui limiti organizzativi delle diverse parti del movimento ambientalista, ma sul loro attaccamento “dogmatico” alla strategia della non violenza. Pur riconoscendo che il movimento per la giustizia climatica non sarebbe cresciuto così tanto se si fosse impegnato nel sabotaggio fin dall’inizio, Malm si chiede se i tempi per il sabotaggio non stiano maturando. Certamente la sfida è monumentale e crescente:

 

L’attuale sistema energetico globale è la più grande rete di infrastrutture mai costruita, che riflette decine di trilioni di dollari di attività e due secoli di evoluzione tecnologica, di cui l’80% di energia proviene ancora da combustibili fossili.[27]

 

Per decenni la non-violenza strategica non è riuscita a trasformare il calcolo economico che sostiene l’estrazione di combustibili fossili e a rendere il pianeta inabitabile per gli esseri umani e per una moltitudine di altre specie. In questo mondo soffocante di aspettative apocalittiche, agire può essere liberatorio e sollevante. La gioia di bloccare una miniera di carbone tedesca con Ende Gelände è descritta in termini viscerali, così come la frustrazione di non riuscire a sabotare le sue attrezzature una volta lì. Non sorprende che Extinction Rebellion sia oggetto di aspre critiche, in particolare per la sua totale incapacità di considerare le politiche razziali e di classe, come illustrato più chiaramente nell’incidente in cui gli attivisti di XR hanno interrotto la linea della metropolitana che trasporta i pendolari della working class di Londra.[28] La strategia di Roger Hallam di XR viene effettivamente demolita, così come la storiografia selettiva su cui le sue fonti accademiche, Chenoweth e Stephan, basano le loro argomentazioni a favore di una disobbedienza civile puramente non violenta. I FFF sono citati, ma non vengono né criticati né valorizzati. Malm pare auspicare un avvicinamento alla sua linea, ma non sembra veramente interessato a valutare gli effetti politicizzanti degli scioperi climatici, nonostante la loro palese contestazione di un’istituzione chiave della riproduzione sociale: la scuola.

 

Il titolo provocatorio del libro fa infatti pensare a una polemica virulenta, mentre il suo contenuto è più sfumato ed equivoco. La tesi non è quella di un’adozione diffusa e immediata dell’eco-sabotaggio avanguardista alla Earth First! o alla Earth Liberation Front (ELF). Piuttosto, Malm sostiene che il sabotaggio di massa (156) guidato dall'”autodisciplina collettiva”, sottoposto “alle linee guida della leadership operativa” e che “conduce un’azione secondo un piano” (24), non dovrebbe essere escluso a priori. Al contrario, dovrebbe essere preso in considerazione “in futuro”, quando e se l’attuale strategia del pacifismo fallirà. Tuttavia, nell’introduzione, scritta durante la pandemia, Malm mette da parte questa cautela: “il sabotaggio, dopo tutto, non è incompatibile con il distanziamento sociale” (3).

 

Il libro si presenta come una potente polemica contro la non violenza strategica, forse rivolta a un pubblico recentemente politicizzato. Ma la discussione sull’eco-sabotaggio non approfondisce i dibattiti esistenti e le questioni cruciali di organizzazione e strategia rimangono per lo più assenti. Così, il problema di come possa nascere un movimento di massa disciplinato non viene discusso da nessuna parte nel libro, come se le dimensioni e la disciplinata non violenza del movimento per il clima del 2019 rendessero superflue tali riflessioni. Ma come gli ambientalisti radicali hanno imparato in passato, la disciplina e la segretezza necessarie per intraprendere un’azione di sabotaggio di fronte alla legislazione antiterrorismo, alla sorveglianza di massa e alla polizia militarizzata – e al conseguente contraccolpo mediatico – possono essere molto difficili da combinare con l’appeal e l’organizzazione di massa. Questo problema potrebbe non essere insuperabile, ma non può essere risolto se non viene nemmeno posto.[29] Se avesse posto tale questione, allora la scelta di Malm sarebbe apparsa meno chiara. Invece di una scelta che richiede una decisione, avrebbe delineato un problema che richiede invenzione e sperimentazione.

 

La condotta di Malm, dalla decisione all’azione, si basa sulla connessione tra la dimostrazione di ciò che deve essere fatto e la motivazione a farlo. Ma la necessità oggettiva, sia essa stabilita in termini di scienza del clima o di razionalità strategica, può non riuscire a dissipare gli attaccamenti, le paure e i desideri che ci tengono nell’ambivalenza, incapaci di agire o di agire a sufficienza. Concentrandosi sull’agency e l’intenzionalità, si perde la questione della tensione tra ciò che deve essere fatto e ciò che vogliamo oppure osiamo fare.

 

Qui vediamo un’altra conseguenza dell’enfasi sull’intenzionalità unica dell’homo sapiens: si ignora l’ambivalenza costitutiva della specie. Con la coscienza – il terreno dell’intenzionalità – arrivano l’inconscio e le contraddizioni tra bisogno e desiderio. Questi problemi non possono essere eliminati tramite la forza della volontà e della ragione, ma solo attraverso il riallineamento delle motivazioni consce e inconsce. E l’inconscio dei gruppi, delle comunità e delle società, i sentimenti di sicurezza e di fiducia palesi e irragionevoli, hanno un effetto molto maggiore sulle nostre paure o sul nostro coraggio rispetto agli argomenti razionali. Si tratta di una vasta gamma di questioni le cui dimensioni teoriche e pratiche si perdono con il metodo della scelta: questioni che riguardano i nostri attaccamenti desiderosi o attenti al catastrofico e al non catastrofico nel presente, questioni che riguardano le nostre esperienze di ibridazione con altre specie o la nostra alienazione da esse, questioni che riguardano il modo in cui ci riproduciamo soggettivamente, socialmente e nella natura.[30] In Malm, la mancata attenzione alla questione della riproduzione sociale si traduce in una comprensione superficiale delle condizioni del coraggio.

 

Prendiamo ad esempio il disconoscimento da parte di Malm dei movimenti ecologisti degli anni Novanta: se è vero che non erano radicati in movimenti così ampi come Extinction Rebellion o Fridays for Future, non operavano “nel vuoto”, come l’autore sostiene (155), ma all’interno di reti di solidarietà affiatate e radicate nei cosiddetti campi forestali, nei quartieri di sinistra e nei centri sociali, soprattutto sulla costa occidentale americana. Qui i sabotatori e i tree-sitter hanno ottenuto il riconoscimento che ha acceso il loro desiderio e il loro orgoglio, e hanno trovato il rifugio e l’assistenza legali che hanno sostenuto il loro coraggio.[31] Oppure prendiamo le lotte guidate dalle popolazioni indigene contro l’oleodotto Keystone XL: Malm non presta molta attenzione a come questa lotta sia stata immediatamente sostenuta e coordinata dagli accampamenti delle popolazioni native – spazi di riproduzione sociale e culturale – e come essa fosse radicata nel loro rapporto con la terra e in secoli di resistenza al colonialismo dei colonizzatori.[32]

 

Prendendo spunto dal capitolo sulla violenza de I dannati della Terra di Fanon, Malm guarda alle lotte subalterne per trovare immagini di coraggio e sacrificio, ma trova le loro radici esclusivamente nell’assoluta inimicizia verso il colonizzatore. Notando come “la realizzazione e la sofferenza” nel Sud globale si rispecchi nel rifiuto e nella fuga che le producono ne Nord globale,  la concezione binaria di Malm dell’inimicizia contro il capitale fossile assume la sua forma più convincente, non a caso fanoniana. Malm, tuttavia, rimane anche scettico rispetto alla leadership del Sud. Questo non solo perché le lotte del Sud sono spesso lontane dai fattori che determinano la distruzione del clima, ma anche perché forse egli presta più attenzione alle rivoluzioni fallite (Egitto, Siria) che alle lotte in corso (Zapatisti, Naxaliti), o alle rivoluzioni riuscite anche se complicate (Bolivia, Cuba). Sebbene le invocazioni di Malm sul Sud globale forniscano chiarezza morale e politica, esse risultano di scarsa rilevanza strategica. Come sottolineato da Max Ajl, questo gioco di prestigio ignora i reali “leninisti ecologici” al potere dello Stato, come il MAS in Bolivia.[33] Nel frattempo, sul terreno del Nord globale, dove il testo di Malm cerca chiaramente il suo pubblico principale, il comunismo di guerra e il leninismo ecologico non trovano alcun referente effettivamente esistente. Qui l’inimicizia radicale elude la necessità di una critica dell’intreccio tra la riproduzione del ceto medio e della classe operaia e il capitale fossile, sia sotto forma di bisogni quotidiani che di aspirazioni. In breve, Malm evita il problema di quello che Brand e Wissen chiamano modo di vita imperiale, il quale è “basato su un’appropriazione principalmente illimitata di risorse, spazio, capacità di lavoro e discariche – assicurato politicamente in modo legale e/o attraverso la violenza”.[34] Ciò gli permette di aggirare la questione di come rendere desiderabile, su scala di massa, una rottura con questa modalità di vita – ovvero il problema della decrescita.[35]

 

Mettendo da parte le questioni della riproduzione sociale e del consumo, tranne che per il caso della carne selvatica, Malm non si chiede come le interruzioni effettive dell’infrastruttura fossile influenzeranno la gente comune attraverso l’aumento dei prezzi dei beni essenziali. È significativo che i libri recenti di Malm non menzionino alcune delle “lotte climatiche” più forti tra il 2018 e il 2020, come le proteste contro i tagli ai sussidi per il combustibili fossili in Iran e in Ecuador[36]. Forse non è una coincidenza: in un post del 2018 sul sito di Verso dedicato ai Gilet Jaunes, Malm cavalca la speranza di un Green New Deal per dipingere un’immagine rosea dell’abolizione della principale fonte energetica globale. Questo, ci viene detto, non richiederebbe né il sacrificio di posti di lavoro né del tenore di vita dei lavoratori, “ma potrebbe migliorare entrambi, mentre sicuramente taglierebbe le ali agli ultra-ricchi”. Ma queste politiche socialdemocratiche non si scontrerebbero con il limite che hanno sempre incontrato, ovvero la necessità di mantenere la redditività capitalistica per salvaguardare una base imponibile? E come evitare che un New Deal verde dia il via a un nuovo ciclo di crescita distruttiva e di estrazione delle risorse? Come vedremo, non è la prima volta che Malm prende la scorciatoia della volontà sovrana dello Stato per oscurare alcune contraddizioni e ambivalenze essenziali derivanti dall’intreccio tra lavoro e capitale fossile. Anche in questo caso, tali problemi non sono insuperabili, ma non possono essere risolti senza essere posti.

 

Queste sono alcune delle difficoltà generali della politica climatica nel Nord globale, non solo di Malm. Esse riguardano lo scrivere o il pensare da un luogo in cui il disastro e l’urgenza sono evidenti, ma la catastrofe è immaginata come un evento (un uragano specifico, il cataclisma imminente, un’estate insolitamente calda), piuttosto che vissuta come la realtà della vita quotidiana. Nel Nord globale, la speranza contro la speranza, o quello che Lauren Berlant chiama ottimismo crudele, è una tentazione costante.[37] È l’ottimismo di coloro che non sono bloccati nel fango della lotta quotidiana, ma possono scegliere il loro modo di lottare. È la speranza che la scienza convinca (ignorando che si tratta di una motivazione debole) o che le tecnologie di stoccaggio del carbonio funzionino e siano scalabili (purtroppo, però, non sappiamo se lo saranno). È la convinzione che lo Stato abbia la forza di bloccare il capitale fossile (ignorando che può essere preso in mano e rivoltato contro il capitale solo dopo un suo profondo indebolimento) e che le masse agiranno a breve termine nel proprio interesse (ignorando quanto esso sia intrecciato con una trasformazione del modo di vivere imperiale). Tale ottimismo attraversa il profondo catastrofismo dei libri di Malm sulla pandemia e sul cambiamento climatico.

 

5. Il caleidoscopio di Lenin

 

Il secondo (anche se pubblicato per la prima volta) dei recenti pamphlet di Malm, Corona, Clima, Emergenza Cronica, è stato scritto in fretta e furia durante le prime fasi della pandemia. Nei primi capitoli, Malm si spinge oltre i limiti del suo metodo, fornendo una sintesi magistrale della letteratura di ricerca sulla fisiologia dei pipistrelli, l’eziologia virale, il declino dell’ecosistema e la zoonosi. In questo capitolo ci sono, perdonatemi, grandi descrizioni ibride dei modi in cui gli esseri umani invadono gli habitat dei pipistrelli, inducendo alcuni pipistrelli – ma hanno un potere d’azione? – a cercare una vita vicino agli esseri umani, dove spargono materia virale sugli esseri umani e sul loro bestiame. Attingendo al suo profondo impegno nella scienza del clima e alla sua panoramica degli eventi meteorologici estremi in tutto il mondo, e in particolare nel Sud globale, Malm fornisce anche un elenco lucido delle differenze tra la crisi climatica e la pandemia. Nella pandemia, il nemico è un virus che disturba l’economia capitalista globale. Nella crisi climatica, il nemico è il capitale fossile e la sua funzione economica attualmente essenziale. Affrontare entrambi richiede uno stop deciso al business as usual. Ma mentre i lockdown per pandemia sono interruzioni temporanee per salvaguardare l’economia, la chiusura dell’economia fossile deve essere permanente.

 

Secondo Malm, ciò che è necessario non è l’abolizione del capitale e dello Stato che lo sostiene e si basa su di esso per le entrate fiscali, ma l’abolizione del capitale fossile da parte dello Stato. Qui Malm guarda al comunismo di guerra del primo Stato sovietico. In questo modo, la scelta chiave di Corona, Clima, Emergenza Cronica si colloca nei termini del vecchio dibattito tra l’anarchismo e una politica volta alla conquista del potere statale. Ancora una volta, come vedremo, la scelta difficile che intendeva fornire un orientamento netto introduce un punto cieco strategico.

 

Per argomentare il suo punto di vista, Malm indica due esempi di rivoluzioni i cui esiti sono stati decisi dalla questione del potere statale: recentemente, le rivoluzioni della primavera araba sono fallite perché non hanno preso il controllo dello Stato (124-139), e un secolo fa, la Rivoluzione russa è stata assicurata dall’insurrezione bolscevica dell’Ottobre 1917. Malm, tuttavia, non è interessato agli eventi che vanno dalla rivoluzione di Febbraio a quella di Ottobre, ma a ciò che i Bolscevichi fecero con il potere statale negli anni catastrofici del 1918-21, durante i quali dovettero affrontare la guerra civile, l’invasione delle potenze straniere, il collasso economico, la fame e una pandemia – il tutto in condizioni segnate da mezzo decennio di guerra devastante. In quegli anni, Lenin condusse una lotta disperata contro il collasso sociale totale, tentando al contempo una transizione verso “un modo di produzione superiore” (125). I Bolscevichi dovettero affrontare il blocco delle forniture di petrolio e carbone. In risposta, spostarono l’approvvigionamento energetico su torba e legna, sul lavoro umano e animale. In effetti, la Russia divenne “uno Stato operaio alimentato a bio-combustibile” (160). Malm descrive con distacco come questo abbia sparso i semi per la militarizzazione del lavoro (161), ma assicura il lettore che tale coercizione non sarà necessaria in una transizione basata sulle energie rinnovabili (162). Il comunismo ecologico di guerra significa: “imparare a vivere senza combustibili fossili in poco tempo, spezzare la resistenza delle classi dominanti, trasformare l’economia per tutta la durata, rifiutarsi di arrendersi anche se tutti gli scenari peggiori si avverano, risorgere dalle rovine con la forza e i compromessi necessari, organizzare il periodo transitorio di ripristino, rimanere con il dilemma” (167).

 

Tuttavia, il dilemma – mantenere la democrazia nello stato d’eccezione – non è immediato. Perché nella situazione strategica concreta Malm è realista, al limite della rassegnazione: “È probabile che nessuno Stato capitalista faccia qualcosa di simile di sua iniziativa”. Quindi, mentre lo Stato capitalista “è costituzionalmente incapace” di compiere i passi necessari, “non c’è nessun’altra forma di Stato disponibile. Aspettarla sarebbe illusorio e criminale, e quindi non ci resta che lo squallido Stato borghese, legato come sempre ai circuiti del capitale” (151).

 

La tragedia del presente, per Malm, può essere espressa con la parafrasi di un vecchio adagio: è più facile immaginare la fine della civiltà umana che la fine dello Stato capitalista. In breve, il comunismo di guerra di Malm non è tanto una proposta strategica quanto un esercizio di immaginazione: pensate solo a cosa potremmo fare con lo Stato se lo controllassimo in qualche modo. Questo immaginario è, sostiene Malm, necessario: è difficile – e su questo sono d’accordo –  immaginare “una transizione effettiva” senza “qualche autorità coercitiva” (151) che ponga fine con la forza all’estrazione e alla combustione dei combustibili fossili.

 

Se Fossil Capital e The Progress of This Storm hanno fornito una teoria del rapporto tra il mondo e i fini del capitalismo, Corona, Clima, Emergenza Cronica e Come far saltare un oleodotto cercano di risolverlo praticamente. Per Malm, la pratica di solito significa volontà. Ma il suo ritratto di questa volontà è contraddittorio. Malm passa dalla visione di una strategia leninista unificata all’elogio di una diversità di tattiche più movimentiste: è quindi necessario “l’intero spettro della leva popolare, dalle campagne elettorali al sabotaggio di massa” (146). In Come far saltare un oleodotto, Malm propone di essere proprio noi a chiudere le infrastrutture fossili, senza curarsi delle questioni di repressione e legittimità dello Stato all’interno di una popolazione i cui mezzi di sostentamento rimangono tragicamente impregnati di petrolio. In Corona, Clima, Emergenza Cronica, suggerisce che tali interruzioni siano compatibili con la strategia elettorale, senza notare le difficoltà. Scrive che la crisi climatica può essere risolta solo con una pianificazione socialista, ma che non c’è altra scelta se non quella di lavorare con il tetro Stato capitalista. Queste apparenti contraddizioni portano a reazioni contraddittorie tra i lettori. In privato, ho sentito alcuni descrivere Malm come un tipo autoritario, mentre altre si lamentavano perché non è in grado di scegliere una linea, suggerendo che, in un certo senso, non sia abbastanza autoritario. In pubblico, alcuni scrittori perspicaci hanno cercato di fare i conti con questo ritorno dell’ambivalenza.

 

Alberto Toscano ha descritto l’abbraccio di Malm allo Stato capitalista come una sorta di strumentalismo tragico. Nella catastrofe climatica in atto, ogni pensare deve essere tragico, suggerisce Toscano, riguardo la chiusura di orizzonti utopici da parte della catastrofe (Malm: “non ci può mai essere una rottura netta”) e per l’ineluttabilità della coercizione negli affari politici (17).[38] Spingendosi nella direzione opposta, Davide Gallo Lassere ha suggerito che Malm si impegna in una “pluralizzazione delle pratiche”, ispirandosi alla sua richiesta di un “pluralismo di pratiche” in Come far saltare un oleodotto (116).[39] Malm può quindi essere letto da due direzioni. Davide Gallo Lassere legge Malm come se suggerisse che, di fronte al problema irrisolto della crisi climatica, tutte le vie pratiche debbano essere esplorate, mentre Toscano si concentra sulla tesi di Malm secondo cui solo il potere dello Stato è sufficiente. Ma queste letture, pur essendo convincenti e compatibili, non sono né simmetriche né complementari. L’idea che solo il potere statale sia sufficiente si scontra con la logica della pluralizzazione, rendendola accettabile solo nella misura in cui è strumentale alla presa di potere.

 

In Corona, Clima, Emergenza Cronica, Malm suggerisce che le opzioni sono ordinate nel tempo: oggi, tutto ciò che è possibile è una combinazione di attività parlamentare ed extraparlamentare, il cui compito è quello di spingere lo Stato capitalista a fare la cosa giusta. Nel tempo, con l’aggravarsi della crisi climatica, è probabile che si aprano possibilità rivoluzionarie. Sappiamo già che le condizioni meteorologiche estreme aumentano la probabilità e la gravità delle rivolte e della disobbedienza civile, come Malm ha analizzato anche nel suo saggio del 2017 ‘Revolutionary Strategy in a Warming World’. Lì e in Corona, Clima, Emergenza Cronica, Malm suggerisce che “… la missione del leninismo ecologista è quella di aumentare la consapevolezza in questi movimenti spontanei e dirigerli verso i motori della catastrofe” (152). Il tunnel della storia è un buon caleidoscopio leninista: il bel caos della lotta popolare ordinato dagli specchi della lotta di classe, più il singolare fuoco dell’oculare, attraverso il quale l’osservatore intenzionale guarda.[40]

 

Ma se questo ordinamento temporale elimina l’ambivalenza, introduce un nuovo problema. La scelta leninista sostenuta da Malm non può essere compiuta fino a quando non si verifichino alcune condizioni al di fuori del suo controllo. La domanda è quindi la seguente: come si rapporta la teorizzazione di Malm alla creazione di un agente che possa fare una scelta leninista e di una situazione in cui questa possa essere fatta in pratica?

 

6. Ottobre senza Febbraio

 

Il ritratto di Malm del comunismo di guerra ecologico è prezioso per spingere in avanti i confini dell’immaginabile. Ma la sua descrizione del comunismo di guerra è staccata da qualsiasi discussione sulle sue condizioni storiche e su come quelle contemporanee vi si differenzino. Arriviamo al 1918 senza la Rivoluzione di Febbraio e il fallimento del governo provvisorio. È senz’altro significativo che il processo rivoluzionario sia stato aperto da donne che protestavano piuttosto che da Bolscevichi, e che l’insurrezione bolscevica di Ottobre sia avvenuta di fronte al collasso della capacità di governo, o no? E quando Malm discute della rilevanza attuale del comunismo di guerra, dubita della possibilità di consigli proletari e di un doppio potere (151) – e disconosce le strategie di autonomia di classe. Le sue invocazioni contemporanee della politica di classe riguardano tutte il nemico di classe – il capitale fossile – mentre parla di una “politica di massa” quando si concentra sulla parte amica.  In breve, il coronavirus ha molte volontà leniniste, ma poco da dire sui processi di composizione di classe che hanno permesso l’ascesa di Lenin o che permetterebbero l’eco-leninismo oggi.

 

Sul piano più elementare, Malm pone il problema della politica di massa in un mondo che si va surriscaldando come il problema della democrazia nello stato d’eccezione: il “dilemma” menzionato poc’anzi. Malm è consapevole di come “il percorso dal comunismo di guerra alla tirannia sia stato breve, finanche inesistente” (165), ma la sua ricetta per affrontare questo rischio è vaga: rimanere nel dilemma e sostenere il principio di “non violare mai e poi mai la libertà di espressione e di assemblarsi” (166). Ma questo richiamo, che ricorda lo slogan di Google – “don’t be evil” [non essere cattivo] – sarebbe forse meno necessario se egli fosse in grado di immaginare il popolo come un vero e proprio contropotere dello Stato.

 

Prendendo come prova i lockdown da Covid-19, Malm sostiene che lo Stato – e solo lo Stato – abbia la capacità di spegnere l’economia fossile abbastanza rapidamente da evitare un cambiamento climatico in corsa. È stato lo Stato ad agire in un momento di relativa autonomia (112). Tuttavia, l’argomentazione di Malm mal si concilia con il fatto che in molti Paesi, e soprattutto in quelli in cui i governi hanno agito lentamente, le statistiche mostrano un netto calo delle visite ai ristoranti e delle vendite di biglietti per i trasporti pubblici, i cinema e i teatri, giorni o addirittura settimane prima delle chiusure ufficiali. In questi casi, potremmo parlare di una relativa autonomia della gente comune e di un’insufficiente autonomia dello Stato rispetto agli interessi delle imprese che cercava di tenere aperte. Ammettere tali variazioni ci allontanerebbe dalla discussione reificata su “lo Stato” (che Malm condivide con l’anarchismo) e ci porterebbe a discussioni più sfumate sui diversi Stati e sui rapporti di forza di classe.

 

Un approccio di questo tipo renderebbe più difficile respingere completamente le iniziative di mutualismo che sono sorte in molti luoghi durante la pandemia. Fare ciò che “lo Stato avrebbe dovuto fare” è un “segno meno, non un più”, scrive Malm (123), ma se questa può essere un’affermazione significativa in Svezia, dove la capacità dello Stato in altri campi lascia poco spazio all’organizzazione autonoma, la situazione è estremamente diversa negli Stati di abbandono. Paul Richards ha documentato attentamente l’importanza dei saperi di comunità e del mutuo aiuto durante l’epidemia di ebola in Sierra Leone nel 2013-2014. Inoltre, il mutualismo è un elemento cruciale della formazione di classe.[41] Si pensi all’importanza dei “programmi di sopravvivenza in attesa della rivoluzione” del Black Panther Party come strategia di composizione di classe, o alle tattiche chiave del movimento più potente durante la crisi abitativa iniziata nel 2007, il movimento spagnolo delle persone colpite da ipoteca (PAH): sostegno psicologico e legale reciproco, e mutuo supporto reciproco nella resistenza agli sfratti.[42]

 

La difficoltà di pensare il contropotere popolare (sia esso un movimento o un non movimento)[43] non è un fatto accidentale né per l’analogia storica né per la situazione contemporanea. Nella sua epica biografia di Trotsky, Isaac Deutscher ha sottolineato come i bolscevichi siano andati alla deriva verso la dittatura perché la loro base sociale, il proletariato, era radicalmente diminuita a causa di guerre, guerre civili, carestie ed epidemie, la più grave delle quali fu l’influenza spagnola.[44] In breve, il potere statale, consolidato nel partito, sostituì il potere dei soviet. Leggendo Malm, non è chiaro se la necessità di sostituire il potere statale a quello di classe sia dovuta alla mancanza di una teoria della formazione della classe o alle caratteristiche contemporanee della classe stessa. Certamente, la teoria mancante avrebbe potuto rispondere a questa domanda e fornire strumenti per cogliere le difficoltà e le ambivalenze della costruzione di interessi materiali nell’abolizione del capitale fossile, che continua a plasmare le esperienze e le aspettative, le vite e i mezzi di sussistenza di milioni di persone.

 

Mancando questi elementi, Malm non riesce ad affrontare la questione delle condizioni di possibilità, oggi, del leninismo ecologico e del comunismo di guerra. Peggio ancora, difende il leninismo respingendo le pratiche di autonomia popolare che trasformano i desideri sociali e che possono trasformare una crisi organica in una crisi rivoluzionaria – unica situazione in cui la scommessa leninista diventerebbe possibile. Malm ha ragione a respingere la feticizzazione, da parte di alcuni gruppi politici, dell’anarchismo e del mutualismo come strategie che costruirebbero un altro mondo senza confrontarsi con il mondo ancora egemone – ma non andiamo molto più lontani se li si respinge semplicemente sostituendoli con un altro feticcio speculare: quello del leninismo che si appropria dello Stato. Le pratiche di autonomia popolare sono, infine, essenziali per infondere nelle crisi organiche, e nelle loro rivolte e sommosse, idee e pratiche solidaristiche e democratiche, anziché escludenti e autoritarie.

 

Con Malm arriviamo nel 1918 con lo Stato in mano. Ma non c’è Ottobre senza Febbraio, e non c’è Unione Sovietica senza i soviet, i comitati operai e i soldati disertori. La pratica leninista si basa sempre su un’ecologia delle lotte, ma richiede una decisione strategica che la sopprime radicalmente. La sua linea – prendere il potere dello Stato – è ferocemente critica, ma si basa su un potere popolare che non può far nascere e che non rispetta, anche se lo mitizza. Ancora una volta, la priorità della agency come volontà unificata – che si tratti di un Lenin verde o di un Leviatano climatico – oscura altre forme dell’agire che sono altrettanto essenziali per l’abolizione del capitale fossile.

 

Conclusione: il caleidoscopio smontato

 

I contributi più importanti di Andreas Malm riguardano il suo lavoro per combinare marxismo e ambientalismo e i suoi instancabili sforzi per mettere le questioni tattiche e strategiche in primo piano nella discussione sul clima (non però che siano state assenti, come Malm sembra talvolta insinuare). Ma il suo ambizioso contributo è anche segnato da punti ciechi strutturali, il più delle volte legati al modo in cui l’invocazione dell’urgenza catastrofica eleva le decisioni teoriche e la volontà politica a virtù e necessità assolute. Mettendo da parte, ignorando o rifiutando forme di agency e di temporalità che sono essenziali anche per affrontare la crisi ecologica globale, il suo lavoro rischia di limitare la nostra capacità di risolvere i problemi che si propone di risolvere.

 

Il lavoro di Malm è abbastanza ampio e aperto da costituire un’entità in rapida evoluzione. La sua attenzione potrebbe spostarsi e il suo metodo svilupparsi: forse il suo libro sull’imperialismo fossile, annunciato da tempo, potrebbe superare alcuni dei punti ciechi sopra menzionati?

 

Per ora, ci sono modi per imparare da Malm senza essere limitati dalle aporie: leggerlo non come un maestro del pensiero, ma come un importante contributo a un vasto campo (come presumo vorrebbe essere letto). E smontare il caleidoscopio che struttura il suo lavoro e i suoi punti ciechi.

Se tracciamo un diagramma del caleidoscopio, vediamo che ha tre parti: un oculare, una camera a specchio e i frammenti visti attraverso di essa:

 

La camera del caleidoscopio è il tunnel della storia: il quadro teorico di Malm. È la concezione della storia capitalista che diventa storia mondiale attraverso un processo di lotta di classe che guida il cambiamento tecnologico, la quale trova il suo inizio in un punto locale, britannico. All’interno di questa camera, vediamo poco di come il resto del mondo abbia permesso la nascita e la sopravvivenza del capitalismo attraverso la violenza e il commercio. Le complesse reti di violenza e interdipendenza che costituiscono le frontiere mobili e frattali del capitalismo coloniale non sono considerate come la sua ecologia, ma come il suo ambiente. In breve, ciò viene visto come suo altro, anziché che come le condizioni da cui esso dipende. L’unità di questa storia permette a Malm di immaginare l’unità della società umana nella sua opposizione alla natura. Ciò, a sua volta, gli permette di organizzare i frammenti di storia in una dialettica di lotta di classe: due soggetti che si specchiano l’uno nell’altro.

 

Le lotte del capitale e del lavoro del passato sono globalizzate e proiettate in una battaglia finale tra il capitale fossile e l’umanità stessa costituita come “soggetto globale autocosciente”.

Nel suo Sputiamo su Hegel del 1970, la femminista italiana Carla Lonzi sottolineava come la camera degli specchi della dialettica padrone-schiavo riducesse la lotta a uno scontro binario e frontale: l’oppresso eroico contro l’oppressore. Ma, si chiedeva, che dire delle azioni non eroiche, ma coraggiose, degli schiavi in fuga, dei soldati disertori e delle donne che abbandonano le loro famiglie patriarcali? Come la Lonzi e le sue compagne femministe, anche le popolazioni indigene e le eco-femministe ci forniscono una nozione di agency, di resistenza e di storia che non si limita a rispecchiare il nemico.

 

Il punto che collega il passato e il futuro è il punto focale, che proietta la luce del caleidoscopio sulla retina dello studioso-attivista che guarda attraverso l’oculare: l’epistemologia di Malm. Studiando le macerie della storia che si accumulano, egli proietta una strategia e una speranza per il futuro. Non si trova tra le macerie, bensì le osserva – come l’Angelo della Storia[45]. Come Blanqui e il personaggio distruttivo, egli cerca di agire, sempre in movimento, sempre sradicato. Incapace di mettere radici tra le macerie della Terra, delle ecologie e di altri modi di vivere, gli rimane solo la volontà.

 

L’eco-femminismo aiuta a scardinare questo immaginario e la sua opposizione tra uomo e natura. In questi immaginari non ci sono lezioni di ricostruzione o rigenerazione. Lo stesso vale per l’ecologia: finché il problema e la soluzione sono presentati come pienamente umani e sociali, tutto ciò che guida lo studioso-attivista è l’analogia storica (il comunismo di guerra) e la necessità contemporanea (lavorare con lo Stato capitalista): la poesia del passato e la politica del presente. Al di là di queste restrizioni, si apre un mondo di soluzioni auspicabili, nell’azione umana e non umana degli ecosistemi che si (ri)affermano.

 

Malm invoca spesso l’esperienza del disastro climatico nelle baraccopoli e nelle aree selvagge del Sud globale. Questi sono i frammenti del caleidoscopio, che si muovono caoticamente, ma in modo ordinato: gli elementi empirici di Malm. Sono storie ammonitrici, tagli eco-cesarei della ricaduta della violenza coloniale e del clima estremo sul nucleo centrale: de te fabula narratur. Gli specchi manichei organizzano le macerie in uno schema ordinato di amici e nemici, vittime e carnefici, umanità contro capitale fossile. Questi forniscono chiarezza morale e politica sulla catastrofe tra coloro che – per ora – per lo più la osservano, e un modo per evitare le domande difficili su come i bisogni e i desideri siano intrecciati con la combustione dei combustibili fossili.

 

Tuttavia, ne I dannati della Terra, Fanon ha fatto di più che tracciare opposizioni tra colonizzatori e colonizzati. Andando oltre il netto antagonismo del primo capitolo – quello invocato da Malm – ha analizzato le tensioni e i conflitti tra i colonizzati: le élite cooptate, i ceti medi desiderosi di uno stile di vita europeo e i lumpenproletari pagati dal colonizzatore per combattere il proprio popolo. L’opposizione manichea non dissipa tali tensioni, anzi le tensioni gettano luce sui blocchi della lotta anti-coloniale. Invece degli specchi dell’inimicizia e dell’unità nazionale, i cocci dovrebbero essere composti, i bisogni e i desideri trasformati e organizzati dalla lotta anti-coloniale. Ciò richiedeva e richiede una rottura radicale con la linea del tempo europea:

 

Suvvia, compagni, il gioco europeo è finalmente finito; dobbiamo fare qualcosa di diverso. Noi oggi possiamo fare tutto, purché non imitiamo l’Europa, purché non siamo ossessionati dal desiderio di raggiungere l’Europa.[46]

 

Per lo psicoanalista Fanon, si trattava di disancorare bisogni e desideri dalla modernità capitalista, ma senza ricorrere alle idee di una cultura etnico-nazionale originaria. Il compito era invece quello di costruire un nuovo mondo attingendo a qualsiasi conoscenza e tecnologia a disposizione, giudicandole in base al loro uso e ai loro effetti, senza tener conto delle loro origini geografiche o del loro status di ‘tradizionali’ o ‘moderni’. Il concetto di ‘comunismo di soccorso’ di Malm nel libro sulla pandemia, tratto da Salvage Collective, lascia intendere la sua simpatia per un approccio di questo tipo, anche se immette poco contenuto in esso. Per questo, potremmo fare di peggio che limitarci alle pratiche di mutualismo e condivisione tra coloro che persistono e resistono dopo la fine del loro mondo. Troveremmo infatti un mondo fatto di tecnologie necessarie per una condizione post-carbonio, ma anche forme di solidarietà e mutuo sostegno che possono aiutare a costruire la lotta.

 

Poscritto: se abbiamo bisogno di un eroe rivoluzionario

 

Se abbiamo bisogno di un eroe rivoluzionario, la figura di Amílcar Cabral può rappresentare un maestro migliore di Lenin. Negli anni Cinquanta, l’agronomo guineano formatosi a Lisbona accettò un incarico dalle autorità portoghesi. Doveva condurre un’indagine sulla terra della Guinea-Bissau, attraverso la quale il governo coloniale sperava di identificare le aree adatte alle colture da reddito. Cabral, invece, fece qualcosa di diverso. Utilizzò il progetto per documentare il modo in cui le colture da reddito esistenti, come le noci, stavano devastando l’ecologia del suolo e rendendo i produttori dipendenti dal mercato mondiale. Fu così che entrò in contatto con gli abitanti dei villaggi di tutto il Paese, discusse le innovazioni nelle pratiche indigene di utilizzo della terra e tessé una rete di alleati in cui la lotta di liberazione avrebbe potuto mettere radici. In una conferenza tenuta a Londra nel 1971, Cabral descrisse la lotta armata che era venuto a condurre:

 

Ci troviamo in una zona pianeggiante dell’Africa. […] I manuali di guerriglia generalmente affermano che un Paese deve avere una certa dimensione per poter creare quella che viene chiamata una base e, inoltre, che le montagne sono il luogo migliore per sviluppare la guerriglia […] Per quanto riguarda le montagne, abbiamo deciso che il nostro popolo doveva prendere il loro posto, perché altrimenti sarebbe stato impossibile sviluppare la nostra lotta. Quindi il nostro popolo è la nostra montagna.[47]

 

Cabral procedeva studiando la terra, creando connessioni tra le tecnologie dell’agronomia contemporanea e le tecnologie contadine locali, moltiplicando la sua conoscenza delle ecologie sociali e naturali della Guinea e dei punti in cui i colonizzatori erano vulnerabili agli attacchi o ai sabotaggi. Come parte essenziale di questa ricerca, stabilì collegamenti con e tra diversi villaggi e gruppi etnici (anche nelle isole di Capo Verde) e fece circolare idee e tattiche rivoluzionarie attraverso i suoi incontri. Quando il partito di Cabral, il PAIGC, prese le armi, la lotta trovò sicurezza, cibo e informazioni attraverso le reti contadine e urbane di mutualismo.

Cabral ci fornisce un’immagine del rivoluzionario ecologico: si impegna in un’indagine militante, si colloca in relazione sia alla terra che alle persone e collega le tecnologie senza presumere la superiorità di quelle più “moderne”. E nel far ciò ha perseguito una strategia al contempo militante e sensibile per suturare le fratture metaboliche causate dallo sfruttamento e dall’estrattivismo. Si tratta di una politica appropriata alle macerie della catastrofe in corso. Quest’ultima va considerata non solo come spazio di rovina e vittimismo, ma come un territorio di sopravvivenza e resistenza.

 

Lo smontaggio del caleidoscopio permette di articolare la cura e le decisioni radicali, il movimento urgente e il lento lavoro di radicamento. In che modo le reti di mutualismo possono consentire il sabotaggio, e in che modo l’autonomia popolare può consentire un assalto allo Stato capitalista, o spingere un cuneo tra le diverse funzioni dello Stato, quella della riproduzione sociale e quella della riproduzione capitalista? Quando il caleidoscopio si rompe, il tunnel della storia si frantuma e diventa un orizzonte. È qui che affrontiamo la catastrofe non solo con l’urgenza della paura e della compassione per le vittime, ma con il disgusto esistenziale per il capitale fossile (cui tuttavia siamo intrecciati) e con il desiderio di altre forme di vita.

 

Note

 

Grazie a Rut Elliot Blomquist, Emanuele Leonardi, Oliver Bugge Hunt, Søren Mau, ed Eskil Halberg per la lettura di varie bozze di questo testo, e per i preziosi suggerimenti.

 

[2] Riuniti nella mailing list degrowth communism [NdT].

[3] Cfr. John Bellamy Foster, Marx’s Ecology: Materialism and Nature (Monthly Review, 2000); Paul Burkett, Marxism and Ecological Economics: Toward a Red and Green Political Economy (Brill, 2006); Kohei Saito, Karl Marx’s Ecosocialism: Capital, Nature, and the Unfinished Critique of Political Economy (Montly Review, 2017).

[4] Va perciò ricompreso nella terza fase del dibattito tra marxismo ed ecologia; cfr. Emanuele Leonardi e Salvo Torre, ‘Marxism and Ecology: an ongoing debate’, in The Handbook of Critical Environmental Politics (eds. Viviana Asara, Emanuele Leonardi and Luigi Pellizzoni), Elgar, 2022.

[5] Non si tratta di criticare Malm per ciò che non scrive (ogni scrittura è selettiva), ma di mostrare che in tutta la tensione della sua opera c’è una coerenza metodologica e teorica, e che questa coerenza comporta alcuni punti oscuri sistematici, silenzi, lacune, assenze, ecc. A questi si aggiungono fatti, connessioni e condizioni che non vengono menzionati, fatti che vengono menzionati ma non sono collegati all’insieme e connessioni e condizioni essenziali che vengono trattate come accessorie. La critica non è rivolta alla mancanza di coerenza, quanto piuttosto a una forma di coerenza che, oscurando forme di agibilità politica essenziali per affrontare la crisi climatica, diventa un ostacolo alla soluzione dei problemi che dovrebbe risolvere.

[6] Walter Benjamin, “Central Park,” New German Critique, no. 34 (1985): 53.

[7] Glenn, Scherer (2012), “Climate Science Predictions Prove Too Conservative”, Scientific American.

Le critiche più comuni rivolte ai rapporti dell’IPCC sono quelle di sottovalutare i rischi legati ai tipping points e ai circuiti di retroazione positivi, nonché di sopravvalutare la plausibilità di soluzioni tecnologiche, dalla produzione di energia rinnovabile alla cattura & sequestro dell’anidride carbonica.

[8] Robert Brenner, “The Origins of Capitalist Development: A Critique of Neo-Smithian Marxism,” in Introduction to the Sociology of “Developing Societies,” ed. Hamza Alavi and Teodor Shanin, Sociology of “Developing Societies” (Macmillan Education UK, 1982), 54–71.

[9] Anievas, Alexander, and Kerem Nişancıoğlu. How the West Came to Rule: The Geopolitical Origins of Capitalism (Pluto Press, 2015). Banaji, Jairus. A Brief History of Commercial Capitalism (Haymarket, 2020). Banaji. Theory as History: Essays on Modes of Production and Exploitation (Brill 2010). Marx, Karl. Capital: Volume I. Translated by Ben Fowkes. (Penguin, 1976).

[10] Pur fornendo un’acuta critica dei punti ciechi dell’approccio di Brenner, l’articolo di Blaut è troppo ansioso di confutarlo e liquidarlo per menzionare e mettere a frutto i suoi significativi contributi. James M. Blaut, “Robert Brenner’s Tunnel of Time”, Antipode 26, no. 4 (1994): 351-74.

Vale anche la pena di notare che l’opera successiva di Brenner, Merchants and Revolution (Verso, 1993), compensa alcune delle carenze menzionate da Blaut. Per una recente difesa di Brenner si veda Pal, Maïa “My capitalismi s Bigger Than Yours!”: Against Combining ‘How the West Came to Rule’ with ‘The Origins of Capitalism'”. Historical Materialism 26, no. 3 (2018): 99-124.

Si noti, tuttavia, che l’incisiva difesa di Pal del lavoro di Brenner contro Anievas e Nişancıoğlu è molto meno applicabile alla questione dell’emergere di un’economia fossile in Gran Bretagna nel XIX secolo, rispetto all’emergere del capitalismo nella Gran Bretagna del XVI e XVII secolo. Malm, a differenza di Brenner, scrive di un capitalismo coloniale ben consolidato.

[11] Anna Tsing, The Mushroom at the End of the World: On the Possibility of Life in Capitalist Ruins (Princeton University Press, 2015).

[12] Cfr. Fossil Capital, capitolo 15. Altrove, Malm sostiene che sarebbe rischioso non considerare la possibilità che una tale transizione possa avvenire anche in contesto capitalistico. Cfr. Malm, Andreas. “Long Waves of Fossil Development: Periodizing Energy and Capital.” Mediations 21, no. 2 (2018), p. 34.

[13] Stormens Utveckling: “Mobilisera”, podcast 11 Aprile 2019.

[14] Malm concorda con gli ecomodernisti mainstream che le soluzioni tecnologiche possano funzionare, ma solo dopo la rivoluzione. Cfr. Clima, Corona, Capitalismo; e Andreas Malm and Wim Carton, “Seize the Means of Carbon Removal: The Political Economy of Direct Air Capture,” Historical Materialism 29, no. 1 (March 16, 2021): 3–48.

[15] Il suolo è uno dei principali serbatoi di anidride carbonica della Terra e un suolo sano non si limita a questa funzione di immagazzinaggio: consente un aumento della vegetazione, che a sua volta è un carbon sink, e previene l’erosione e il deflusso dei nutrienti.

Inoltre, un suolo sano rende superfluo l’uso agricolo di fertilizzanti di origine fossile. Si veda, ad esempio, Bronson W. Griscom et al., “Natural Climate Solutions”, Proceedings of the National Academy of Sciences 114, no. 44 (31 ottobre 2017): 11645-50. Hannah Ritchie e Max Roser, “CO2 and Greenhouse Gas Emissions”, Our World in Data, 11 maggio 2017, URL: https://ourworldindata.org/co2- and-other-greenhouse-gas-emissions. Keith Paustian et al., “Soil C Sequestration as a Biological Negative Emission Strategy”, Frontiers in Climate 1 (2019).

[16] Come illustrato, quasi comicamente, dal dibattito ostile tra Alf Hornborg, professore e collaboratore di Malm, e Christopher Cox, che ha scritto una scintillante recensione di Capitalism in the Web of Life di Moore sulle pagine di Historical Materialism, il dibattito tra i supporter di Malm e di Moore è diventato così tossico che è meglio approcciarsi obliquamente.

In italiano, si veda Jason W. Moore, Ecologia-mondo e crisi del capitalismo, Ombre corte, Verona, 2023 (nuova edizione arricchita) [NdT].

[17] Per un approccio contemporaneo al pensiero di Mach, a partire da Alexander Bogdanov, si veda McKenzie Walk’s Molecular Red (Verso, 2015).

[18] Stathis Kouvelakis, Fredric Jameson: An Unslaked Thirst for Totalisation”, Critical Companion to Contemporary Marxism (Brill, 2008).

[19] Si veda anche Andreas Malm and Alf Hornborg, “The Geology of Mankind? A Critique of the Anthropocene Narrative,” The Anthropocene Review 1, no. 1 (April 1, 2014): 62–69.

[20] Karl Marx, Capital: Volume I, trans. Ben Fowkes (Penguin Books, 1976), 92.

[21] Qui si può prendere spunto dallo studio della relazione tra astrazione mentale e pratica, introdotto da Alfred Sohn-Rethel e perfezionato da Richard Seaford. Richard Seaford, Money and the Early Greek Mind: Homer, Philosophy, Tragedy (Cambridge, UK: Cambridge University Press, 2004); Alfred Sohn-Rethel, “Intellectual and Manual Labour: A Critique of Epistemology” (Macmillan, 1976). Va notato che questi studi ci portano in un dilemma simile a quello che circonda le origini del capitalismo: vediamo l’emergere del denaro e del pensiero astratto come un fenomeno che si diffonde a partire dall’antica Grecia, o lo vediamo in modo relazionale, come una funzione sempre translocale di una catena di commercio, produzione e approvvigionamento per un mercato?

[22] Ariel Saleh, “Sustainability and Meta-Industrial Labour: Building a Synergistic Politics,” The Commoner 9 (2004): 1–13; Tsing, The Mushroom at the End of the World, chapter 19.

[23] Food and Agriculture Organization of the United Nations, Pastoralism in Africa’s Drylands (2018).

[24] Per una buona introduzione a La Via Campesina, si consiglia la visione del documentario Globalize Hope. Si veda anche Sophie Redecker and Christian Herzig, “The Peasant Way of a More than Radical Democracy: The Case of La Via Campesina,” Journal of Business Ethics 164 (July 1, 2020): 1–14 and Hannah Wittman, “Reworking the Metabolic Rift: La Vía Campesina, Agrarian Citizenship, and Food Sovereignty,” The Journal of Peasant Studies 36, no. 4 (October 1, 2009): 805–26.

[25] Nick Estes, Our History Is the Future: Standing Rock Versus the Dakota Access Pipeline, and the Long Tradition of Indigenous Resistance.

[26] Carolyn Merchant, “Earthcare: Women and the Environment,” Environment: Science and Policy for Sustainable Development 23, no. 5 (1981): 6–40; Alyssa Battistoni, “Bringing in the Work of Nature: From Natural Capital to Hybrid Labor,” Political Theory 45, no. 1 (2017): 5–31; Stefania Barca, Forces of Reproduction: Notes for a Counter-Hegemonic Anthropocene (Cambridge University Press, 2020); Salleh, “Sustainability and Meta-Industrial Labour”.

[27]              Qui e più avanti, si fa riferimento alla paginazione dell’edizione inglese: p. 69.

[28]              Per una critica analoga, cfr. https://www.redpepper.org.uk/an-open-letter-to-extinction-rebellion/.

[29]              Inoltre, il problema può scomparire se spostiamo l’attenzione dal sabotaggio come azione diretta episodica al sabotaggio come possibilità intrinseca del processo lavorativo. Gavin Mueller ha recentemente scritto del luddismo come “contrattazione collettiva attraverso le rivolte”, mentre Evan Calder Williams si rifà all’eredità del sabotaggio come senso di disfunzione strisciante, risalendo ai primi sabot – le goffe scarpe di legno che indicavano i contadini appena proletarizzati che, non essendo pienamente integrati nel processo lavorativo, lavoravano male. “L’idea del sabotaggio, molto prima che si parlasse di antropocene, è stata quella di insistere sul fatto che questo è il terreno su cui stiamo operando, che lo preferiamo o meno, e che questa intimità con le sue condizioni di produzione apre diverse possibilità di disturbare le strutture sociali e fisiche che lo sostengono, lo perpetuano e lo controllano”. Rifacendoci a Williams e Mueller, possiamo chiederci quale potere risieda nella tragica complicità dei lavoratori che svolgono “lavori di merda“, che richiedono di partecipare al disfacimento delle condizioni di vita per guadagnarsi da vivere.

[30]              Anche se la sua formulazione è un po’ imprecisa e datata, la questione delle tre ecologie (mentale, sociale, naturale) posta da Félix Guattari rimane di estrema importanza.

[31]              Il documentario If a Tree Falls: A Story of the Earth Liberation Front fornisce una buona introduzione all’ELF.

[32]              Per una critica del libro di Malm da questa prospettiva, si veda “How To Write About Pipelines” di Sakshi Aravind, Progress of Political Economy.

[33]              Max Ajl, “Andreas Malm’s Corona, Climate, Chronic Emergency”, The Brooklyn Rail, 10 novembre 2020.

[34]              Ulrich Brand e Markus Wissen, The Limits to Capitalist Nature: Theorizing and Overcoming the Imperial Mode of Living (Rowman & Littlefield Publishers, 2018), 31. Cfr. anche Ulrich Brand e Markus Wissen, The Imperial Mode of Living: Everyday Life and the Ecological Crisis of Capitalism (Verso, 2021).

[35]              Stefania Barca, “The Labor(s) of Degrowth,” Capitalism Nature Socialism 30, no. 2 (April 3, 2019): 207–16; Giorgos Kallis et al., The Case for Degrowth, 1st edition (Cambridge, UK; Medford, MA: Polity, 2020). Bengi Akbulut, “Degrowth,” Rethinking Marxism 33, no. 1 (2021): 98–110

[36]              In questo caso, la prospettiva sviluppata da Timothy Mitchell in Carbon Democracy fornisce un punto d’attacco cruciale nella discussione. In un altro registro, lo studio di Matthew Huber su come il petrolio sia diventato inseparabile dall'”American way of life” fornisce anche un importante invito a prestare attenzione all’attaccamento riproduttivo e ideologico all’economia fossile. Matthew T. Huber, Lifeblood: Oil, Freedom, and the Forces of Capital (University of Minnesota Press, 2013). La risposta di Huber al problema, tuttavia, è una versione più palese dell’eco-modernismo di Malm: dare la colpa del cambiamento climatico al capitale (corretto), immaginando che possa essere risolto dal deus ex machina delle tecnologie verdi e della crescita verde finanziate dal Green New Deal. Ciò gli permette di ignorare come la fine del capitale fossile comporterà una trasformazione sostanziale delle abitudini, delle preferenze e dei consumi della classe operaia nel Nord globale. Sull’estrema improbabilità della crescita verde e sull’incompatibilità delle strategie di crescita verde con il principio di precauzione, si veda Jason Hickel e Giorgos Kallis, “Is Green Growth Possible?”, New Political Economy 25, no. 4 (2020): 469-86. Per le lotte della classe operaia contro la nocività del lavoro e della produzione capitalistica, si veda Feltrin e Sachetto: “The work-technology nexus and working-class environmentalism: Workerism versus capitalist noxiousness in Italy’s Long 1968”, in Theory and Society, 2021. Si veda anche la dichiarazione originale contro la nocività degli operai di Porto Marghera, “Against Noxiousness “, Viewpoint Magazine 2021. Si veda anche Stefania Barca ed Emanuele Leonardi, “Working-class Ecology and Union Politics: A Conceptual Topology,” Globalizations 15, no. 4 (2018): 487-503., e il mio testo sui ‘lavori (ambientali) di merda’ [batshit jobs] su Open Democracy.

[37]              Lauren Berlant, Cruel Optimism (Duke University Press, 2011).

[38] Alberto Toscano, “The State of the Pandemic,” Historical Materialism 28, no. 4 (November 20, 2020): 3–23.

[39] Davide Gallo Lassere, “Ritorno al presente”, Le parole e le cose, 2021.

[40] Quello di Malm non è l’unico modo di intendere il leninismo ecologico. Per una utile rassegna, si veda Gus Woody, “Moving towards an ecological Leninism”, in RS21. Inoltre, ci sono esempi di recupero del leninismo che evitano le aprie che individuo in Malm, per esempio Rodrigo Nunes’ “It Takes Organizers to Make a Revolution”, e Salar Mohandesi’s “Party as Articulator.

[41] Bue Rübner Hansen, “Surplus Population, Social Reproduction, and the Problem of Class Formation,” Viewpoint Magazine, n. 5 (Ottobre 2015).

[42] Ada Colau e Adrià Alemany, Mortgaged Lives (JOAAP, 2014); Melissa García-Lamarca, “Creating Political Subjects: Collective Knowledge and Action to Enact Housing Rights in Spain,” Community Development Journal 52, no. 3 (July 1, 2017): 421–35. Si veda inoltre il documentario, SÍ SE PUEDE – Seven Days with PAH Barcelona.

[43] Il sociologo Asef Bayat descrive i non movementi come “le azioni collettive di attori non collettivi; incarnano le pratiche condivise di un gran numero di persone comuni le cui attività frammentate ma simili innescano molti cambiamenti sociali, anche se queste pratiche sono raramente guidate da un’ideologia o da leadership e organizzazioni riconoscibili”; Asef Bayat, Life as Politics: How Ordinary People Change the Middle East, (Stanford UP, 2013), p.14.

[44] Isaac Deutscher, The Prophet: The Life of Leon Trotsky (Verso, 2015), 551–59.

[45]              In una provocatoria reinterpretazione del frammento sull’Angelo della Storia, lo studioso di Benjamin Jacob Bard Rosenberg ha suggerito di leggerlo come una satira degli intellettuali borghesi. L’angelo vede tutta la storia come un disastro che si accumula, proprio come gli ideologi borghesi del Manifesto comunista, che “si sono elevati al livello di comprendere teoricamente il movimento storico nel suo complesso” [corsivo mio]. Comprendendo l’approssimarsi del cataclisma della società borghese, questi intellettuali sono passati dalla parte del proletariato che “tiene il futuro nelle sue mani”. Sia l’angelo che questi intellettuali vedono la storia come un processo uniforme, ed entrambi vogliono “rendere intero ciò che è stato distrutto”. Spinti dalla tempesta chiamata progresso, diventano una sorta di avanguardia involontaria e retrograda: spettatori dell’accumulo indifferenziato di macerie. L’immagine di Benjamin suggerisce che il concetto di catastrofe è un’immagine speculare del progresso stesso. Jacob-Bard Rosenberg, “Angelic Satire: Benjamin and Marx on Standstill“, Prolapsarian, consultato il 4 aprile 2021.

[46]              Frantz Fanon, The Wretched of the Earth (Grove Press 1968), 312.

[47]              Amílcar Cabral, “Our People Are Our Mountains: Amílcar Cabral on the Guinean Revolution”, Committee for Freedom in Mozambique, Angola and Guinea, London, 1971, p 11. Per un approfondimento dell’agronomia rivoluzionaria di Cabral, si veda Filipa César, “Meteorisations: Reading Amílcar Cabral’s Agronomy of Liberation,” Third Text 32, n. 2–3 (2018): 254–72.

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