cropped-IMG20140408153437290_900_700.jpegdi Walter Nardon

[Walter Nardon ha da poco pubblicato un saggio di teoria del romanzo intitolato L’illusione e l’evidenza. Saggi sull’avventura romanzesca (Mimesis). Questo è uno dei capitoli].

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Come raccontare una storia di Mark Twain (1899) è uno dei saggi più originali che conosca per descrivere la costruzione di un racconto e soprattutto per comprendere ciò che trasforma una semplice narrazione in una storia umoristica, ossia in qualcosa di più complesso e di più profondo. Secondo Twain, a differenza della storia comica o di quella arguta (che possono essere raccontate da chiunque) la storia umoristica è «essenzialmente un’opera d’arte», fondata su una serie di sottili e imprescindibili espedienti formali[1]. Mentre il narratore di una storia comica, infatti, rassicura subito il lettore che quella che sta per ascoltare è una delle cose più divertenti che abbia mai sentito, il narratore umoristico deve ignorare o «fingere di non sospettare» le implicazioni di ciò che sta raccontando, lasciandole all’attenzione e all’intelligenza del lettore. Per questo – continua Twain – mentre bastano due minuti per raccontare la versione comica di una storia, quella umoristica ne richiede molti di più. In quest’ultima, infatti, ciò che conta è la parte che la versione comica esclude: digressioni, impacci, errori, correzioni, interruzioni della vicenda, dettagli apparentemente fuori luogo, innocenza, sincerità, ingenuità del narratore. La storia umoristica fa risaltare ciò che la semplice esposizione della fabula, per quanto comica, lascia in ombra. Per entrare ancor più in dettaglio nell’arte «sublime ed elegante» di questo tipo di racconto, Twain elenca quattro accorgimenti tecnici usati dai grandi narratori orali e poi impiegati nel suo mestiere:

Raccontare una sfilza di scemenze senza alcun nesso, in maniera farneticante e spesso gratuita, mantenendo un’aria innocente e inconsapevole e fingendosi ignari dell’assurdità di ciò che si sta dicendo è il vero fondamento dell’arte americana. Un altro trucco per la buona riuscita del racconto è farfugliare il nocciolo della questione. Un altro ancora, il terzo, consiste nel lasciar cadere casualmente un’osservazione in verità studiata, fingendo di non rendersene nemmeno conto, come se si stesse pensando ad alta voce. Il quarto nonché ultimo accorgimento tecnico è un uso magistrale della pausa[2].

È superfluo notare quanto tutte queste indicazioni possano valere per molti grandi romanzi, dove gli accorgimenti tecnici vengono impiegati in una composizione complessa che ne permette un uso molteplice e altrettanto efficace.

Se c’è qualcosa, nel romanzo, che va al di là del genere forse è proprio questa modalità espressiva, questo atteggiamento del narratore che per Twain deriva dal racconto umoristico.

Dal discorso dello scrittore americano emerge che in una storia umoristica il lettore deve fidarsi non tanto della semplicità o ingenuità del narratore – spesso simulate con un artificio del quale il lettore è consapevole – quanto della competenza del narratore, che non si può mettere in discussione, pena l’abbandono della lettura. Nel racconto umoristico orale l’autore si mette in scena come voce narrante: è proprio la competenza che l’ascoltatore riconosce nelle sue finte ingenuità, impacci, pause, digressioni, riprese, ciò che sposta in avanti il racconto.

Nel romanzo, sia che il narratore compaia manifestamente, sia che non si dichiari, la narrazione è spesso «messa in scena» dall’autore per favorire la comprensione di elementi che vengono taciuti. Si pensi alla reticenza di Marlow nel finale di Cuore di tenebra, o al racconto Il giro di vite di Henry James, oppure ancora ad alcune celebri ellissi presenti in vari romanzi, dalla Certosa di Parma di Stendhal a quella, famosa, del matrimonio di Swann nella Recherche di Proust.

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La prima parte del romanzo di Roberto Bolaño I detective selvaggi, uscito in Spagna nel 1998, è raccontata in forma di diario da Juan García Madero, diciassettenne studente di giurisprudenza e aspirante poeta, la cui vita cambia improvvisamente dopo l’incontro con Alberto Belano e Ulises Lima, i maggiori esponenti del movimento letterario del «realismo viscerale»[3]. Le pagine di diario seguono le vicende del narratore, esperto di metrica, ma meno della vita. Il racconto procede con i tentativi poetici, le discussioni letterarie e le prime esperienze erotiche del narratore, i cui percorsi per le strade di Città del Messico si incrociano a volte con quelli di Belano e di Lima, i veri protagonisti del romanzo, che parlano soprattutto attraverso le voci degli altri. Nulla si dice chiaramente, né di loro, né del realismo viscerale fondato molti anni prima dalla poetessa Cesárea Tinajero, misteriosamente scomparsa, il cui ritrovamento diverrà il crocevia dell’esperienza poetica di Belano e Lima e della prima parte della loro vita.

In queste pagine, tutti quelli che Juan García Madero incontra sono poeti o aspiranti poeti, per lo più inediti: amici, compagni di bevute, ragazze di cui si innamora o di cui sente parlare. Sono realvisceralisti, ex-stridentisti, poeti contadini, seguaci di Octavio Paz (il nemico dei realvisceralisti). Con l’accorgimento di non sottolinearlo mai direttamente, Bolaño fa emergere un fenomeno che il lettore può cogliere in tutta la sua portata: solo in un mondo dove tutti sono poeti la poesia può ancora avere valore. Si tratta di un mondo caotico, apparentemente ricco di possibilità, ma che si fonda su due forze tutt’altro che stabili e sicure: la giovinezza e l’antagonismo nei confronti del presente. L’entusiasmo che accompagna la nascita di un movimento letterario di avanguardia e la contestazione di un presente privo di novità e di prospettive orientano una dedizione per la poesia di grande intensità, che raramente si trova descritta in un romanzo.

Quest’ultima invenzione ha un retroterra che va chiarito. Verso la metà degli anni Settanta, a Città del Messico, un movimento letterario denominato «infrarrealismo» conobbe effetivamente una stagione di notorietà[4]. Gli artefici di questa corrente, cui il romanzo allude nella prima parte, furono proprio Roberto Bolaño e Mario Santiago, poeti entrambi, il primo più concentrato, il secondo vulcanico e dispersivo. Il gruppo, privo di un’organizzazione e perfino di uno stile comune, si fondava sulla volontà di mandare all’aria tutta la cultura ufficiale (incarnata emblematicamente nella figura di Octavio Paz), non solo con la propria espressione, ma anche con incursioni e performance durante le letture altrui, azioni queste ultime che produssero un effetto dirompente. Il gruppo, che doveva molto al Surrealismo e al Dadaismo (e il cui manifesto venne scritto da Bolaño nel 1976) procedeva in più direzioni, con molte voci, che ricorrono nel romanzo, con allusioni e travestimenti.

Se questo elemento è indubbiamente rilevante e chiaro ai lettori dell’America Latina (che sanno riconoscere gli echi degli infrarealisti nei vari personaggi), il libro, anche quando se ne ignorino le allusioni storico-biografiche, non perde la sua efficacia. Ciò che si tace, per così dire, ma che si manifesta con forza, non ha molto a che fare con il referente storico.

Di tutto questo sforzo collettivo, fatto di conversazioni, serate al bar, abbozzi di riviste, espressioni estemporanee, discussioni, scontri, rimane poco: forse solo le testimonianze di alcuni progetti che sembrano tipici di ogni avanguardia. Quel che resta invece taciuto, o che cade come un’osservazione qualunque – secondo, appunto, l’accorgimento di Twain di introdurre obliquamente le questioni decisive fino a produrre il massimo risultato in termini di attenzione – è la fine della giovinezza, la conclusione di alcune vicende personali che speravano di trovare in quegli anni il proprio punto di partenza, mentre sarebbero invece rimaste legate a quegli avvenimenti in modo definitivo.

La partenza di Alberto Belano, Ulises Lima, Juan García Madero e della giovane prostituta Lupe verso il deserto di Sonora segna la fine di un periodo le cui conseguenze si coglieranno solo più avanti.

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Le vicende del gruppo di personaggi incontrati nella prima parte dei Detective selvaggi vengono presentate nella seconda – che dà il titolo al romanzo – attraverso i racconti di cinquantatre voci che si alternano, prendendo la parola vent’anni dopo i fatti narrati. Ogni intervento riporta una didascalia che rammenta il luogo preciso, il mese e l’anno della narrazione, quasi fossero trascrizioni di interviste registrate. Ci troviamo di fronte a un numero di narratori davvero straordinario per un romanzo, ciascuno dei quali caratterizzato da un codice ben distinto. Solo in un caso si ha a che fare esplicitamente con un’intervista: quella in cui Amadeo Salvatierra risponde a Belano e a Lima diffondendosi sulle vicende e sulla scomparsa della poetessa Cesárea Tinajero. Si tratta di una risposta lunga, piena di inciampi e digressioni, talmente evasiva che il lettore dubita possa condurre da qualche parte, mentre invece, alla fine, si rivelerà decisiva.

Le altre storie, per lo più intrecciate al destino di Belano e di Lima, portano con sé la difficoltà di sopravvivere nel Messico degli anni Settanta, una terra dove ogni progetto sembra destinato alla rovina. Le più importanti, oltre a quella di Cesárea, sono quella di Joquin Font, architetto e designer, padre delle due poetesse María e Angélica, a lungo internato in una clinica psichiatrica; quella di Luis Sebastian Rosado e del suo amore per il poeta Pelle Divina, che sarà ucciso in uno scontro con la polizia. E infine quella di Xóchitl García, che da cassiera di un negozio diverrà poetessa, giornalista, e quindi scrittrice nell’unica storia di riscatto che nel romanzo andrà a buon fine.

Sebbene ciascuna di queste storie porti il segno di una vitalità ferita e delusa, è solo nelle sorti di Lima e di Belano che la poesia sembra esprimersi come una necessità radicale, che talvolta può perfino arrivare a tradire se stessa, ma che non può fermarsi di fronte ad alcun ostacolo.

La rappresentazione dei due esponenti maggiori del realvisceralismo nella seconda parte del romanzo cambia registro. Lima sembra sempre più uno sbandato, un piccolo delinquente, uno spacciatore senza pretese, lontano dalla poesia scritta, sprofondato per ragioni oscure in un tale degrado esistenziale da risultare ormai solo per questo ancora degno dell’attenzione del lettore. Diversamente, Belano, anch’egli emarginato ma più composto dell’amico, attraversa varie vicende: fa il guardiano notturno in un camping, lascia il realvisceralismo e comincia a scrivere romanzi (cosa che – com’è noto – accadde anche a Roberto Bolaño)[5]. Le storie di entrambi sono caratterizzate da una delusione amorosa che ha sconvolto la loro vita, ma in tutti e due i casi il momento determinante viene taciuto. Lo si può ricavare unicamente dagli accenni che ne vengono dati dai vari narratori. Nessuno saprà mai cosa sia accaduto veramente la prima volta in cui Ulises Lima e Claudia si sono incontrati. Così il fatto che Belano si sia sposato, abbia avuto un figlio, si sia separato dalla moglie per poi tornare al suo primo grande e disperato amore, lo veniamo a sapere solo in modo obliquo.

In questo lungo romanzo se i fatti determinanti sono oggetto di clamorose ellissi, altri sono rivelati grazie a una divagazione. Auxilio Lacouture, ad esempio, la «madre della poesia messicana» – voce narrante in Amuleto, altro romanzo di Bolaño – prende la parola solo una volta e racconta la sua resistenza durata giorni e giorni nei bagni dell’Università dopo l’irruzione dell’esercito nell’Ateneo. Narra anche distrattamente della prima giovinezza di Belano, del suo ritorno in Cile, del colpo di stato, del suo incontro con Ulises Lima e soprattutto della poesia, da T. S. Eliot ai giovani messicani.

Nel romanzo non si assiste mai a una narrazione corale – forse solo l’esempio di Auxilio, una voce emblematica, fa eccezione. Quelle che intervengono sono voci singolari, marcatamente caratterizzate, la cui esperienza e la cui caduta irripetibili mostrano l’espressione della loro dignità.

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Secondo molte celebri testimonianze critiche, uno degli elementi che contraddistingue il romanzo moderno fin dalle sue origini (e, se si vuole, anche nei suoi antecedenti, nella novellistica italiana del Duecento e del Trecento) è questo: trasponendo la narrazione nel presente, il romanzo tende a salvare la singolarità di ogni esperienza considerandola in se stessa, al di là di qualunque valore esemplificativo, edificante o ammonitorio. La narrazione romanzesca di una vicenda assume valore per sé e non in riferimento a un quadro normativo definito e stabile. La stessa identità dell’uomo, infatti, viene messa in discussione dal romanzo. Non è qualcosa di cui diventare consapevoli, ma qualcosa che custodisce in sé una parte inesplorata, ancora da scoprire. Ogni storia può assumere una certa memorabilità ed esemplarità, anche quando racconta di un fallimento. Se c’è qualcosa che il romanzo è in grado di trasmettere al di là del genere è di rivelare l’esperienza poco codificata del personaggio. Nel romanzo, potremmo dire, con un termine mutuato da Galilei, ciò che conta è il «cimento», non l’esperienza dei sensi e neppure il ragionamento ipotetico-deduttivo, non la sola conoscenza empirica, né l’analisi, ma la prova sperimentale, il tempo e la coscienza del personaggio che vive questo esperimento.

In stagioni come quella che stiamo attraversando pare che l’esperienza sia stata interessata da una progressiva destituzione di valore. Nella sua riduzione a tirocinio o a stage sembra di scorgere il tentativo di spogliarla dell’elemento immateriale che la costituisce per ricondurla a una mera sequenza di operazioni, a una procedura, la cui corretta osservanza dovrebbe stabilire il grado di efficienza professionale del soggetto esecutore. Anche volendo seguire per un istante questa prospettiva, che l’efficienza sia ben lontana dalla competenza lo si può comprendere in occasione di un mutamento, anche minimo, del contesto in cui l’applicazione della procedura non risulta più economicamente vantaggiosa. Tuttavia, sembra si preferisca l’apparenza confortante di una procedura, o di una serie di procedure, alla più sfuggente definizione di esperienza: la si preferisce, naturalmente, anche in termini di imputazione di responsabilità, laddove l’esperienza rimanderebbe invece a una responsabilità di ordine complessivo, chiamando in causa l’uomo, più che il semplice soggetto esecutore.

In uno splendido capitolo della seconda parte dei Detective selvaggi, Clara Cabeza, la segretaria di Octavio Paz, racconta di quando accompagnava il poeta al Parque Hundido. Un giorno, mentre passeggia, Octavio Paz incontra un uomo che ha tutti i tratti del vagabondo. Dopo un po’ lo incontra di nuovo e il giorno seguente lo incrocia ancora. Finalmente si parlano. Lo sconosciuto è Ulises Lima, che quando era un giovane realvisceralista aveva pensato di sequestrare il poeta. I due conversano un po’. La segretaria assiste solo al primo scambio di battute poi, distante, non può sentire che cosa si dicano, ma riferisce che ciò è avvenuto, e questo, in un certo senso – e a questo punto della narrazione – al lettore può bastare[6].

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A partire dalla metà dell’Ottocento, negli anni in cui il romanzo di formazione comincia a entrare in crisi, Stendhal e soprattutto Flaubert raccontano magnificamente alcune vicende che si concludono con un fallimento: uno scacco esistenziale che viene a coincidere con una conoscenza che supera il contesto storico-sociale in cui i protagonisti si sono trovati ad agire. Le celebri pagine finali dell’Educazione sentimentale, in cui Frédéric Moreau rammenta a Charles Deslauriers la mancata avventura giovanile al bordello come la miglior cosa che sia toccata loro, parlano già di una consapevolezza che si lascia alle spalle ogni volontà di affermazione. È qui, forse, che nasce il «romanzo dell’esilio» – come lo ha chiamato François Ricard, parlando dell’opera di Kundera – e che ha termine il «romanzo della lotta»[7]. Destinata alla crisi, se non proprio al fallimento, è anche quella particolare tipologia di romanzo di formazione che segue la crescita di un artista e che comprende una vasta serie di personaggi dall’aria familiare: dal Werther al Wilhelm Meister di Goethe; da quelli che popolano i romanzi scapigliati italiani all’Enrico di Gottfried Keller, dal Törless di Musil a Hanno Buddenbrook di Thomas Mann, fino ai protagonisti dei primi due romanzi sveviani, che sognano la scrittura (Alfonso Nitti) o che hanno già scritto un romanzo (Emilio Brentani).

Di cosa parla una storia che si conclude con un fallimento? Della forma concreta di un’illusione. O, meglio, di ciò che l’illusione è diventata nello spazio e nel tempo in cui si è svolta la vicenda dei personaggi: della sostanza di cui è fatta la loro vita. In altre parole, del loro «cimento». Tale forma può risultare talora indecifrabile, come quella di Karl Rossman in America (per non dire degli altri personaggi kafkiani) o quella che lascia sgomento Gabriel Conroy nel finale dei Morti di Joyce e che ritroveremo molti anni dopo in Ludvík, nello Scherzo di Kundera.

I Detective selvaggi, libro composto da più romanzi, con diversi richiami interni agli altri libri dell’autore, è il romanzo di un comune fallimento e insieme il romanzo degli artisti Juan García Madero, di Ulises Lima, e soprattutto di Arturo Belano. Nella seconda parte dell’opera, i narratori che raccontano la vita dei due protagonisti parlano naturalmente anche di se stessi, dei loro sforzi per trovare una via d’uscita, sempre precaria e nella maggior parte dei casi trascurabile. L’illusione della poesia è svanita in loro con la giovinezza, oppure è rimasta una presenza marginale, un rimpianto, un’eventualità privata e inconfessabile. È proprio questa dissipazione di sé che ha travolto un’intera generazione, l’elemento del romanzo che, seppur taciuto, emerge con maggior rilievo. È questa la forma definitiva dell’illusione di Arturo Belano e di Ulises Lima.

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Il personaggio di Auxilio Lacouture che racconta l’irruzione compiuta dall’esercito nell’Università di Città del Messico lascia intendere quanto la violenza della Storia abbia infierito su quella generazione, ma questa non è, di fatto, la forza determinante. Se si volesse cogliere con un’immagine il grande fallimento narrato nel romanzo, più che a un naufragio si dovrebbe pensare a una scomparsa, o a un lento procedere verso l’indifferenziato di quei «messicani perduti in Messico». Più che i celebri quadri romantici sul naufragio – da Friedrich a Turner – valgono paradossalmente, a dispetto di pagine tanto fitte di azioni e di personaggi, le esperienze di percezione astratta del paesaggio. Quelle, ad esempio, che si possono intravedere nelle grandi tele di Mark Rothko: una sorta di avventura sconosciuta in uno spazio sconosciuto[8].

Il viaggio nel deserto di Sonora segna la dispersione dei protagonisti del romanzo oltre la frontiera metropolitana di Città del Messico in uno spazio vuoto. Lupe fugge dal suo protettore, consapevole di essere inseguita senza tregua; Belano e Lima cercano Cesárea, ma più ancora una vita senza più punti di riferimento; il narratore, il giovane Juan García Madero, abbandona molte ambizioni, fa l’amore con Lupe e assiste a tutte le vicende progressivamente preda di un amaro disincanto che consegna sempre di più alla pagina (e nel quale Bolaño è maestro). Tutto, nelle mille strade che solcano il deserto, è immerso in una trepida attesa. E tutto accade mentre noi lettori conosciamo già il destino dei due personaggi maggiori: Ulises Lima, tornato in patria – come l’eroe da cui prende il nome – dopo la scomparsa in Nicaragua, vive senza grandi slanci; Belano è in Africa come corrispondente di guerra. Da una parte, la fuga dal protettore Alberto dalle grinfie di un agente corrotto e insieme la ricerca di Cesárea, azioni che sembrano vane, mentre l’incontro dei due protagonisti con questi personaggi si rivela d’un tratto definitivo e i delitti che ne nascono sembrano segnare la fine della narrazione; dall’altra, la conclusione più vera: l’errare incessante di Belano in Africa, disilluso, eppure mai come in questo frangente personaggio memorabile, pronto a vivere l’avventura come destino, in un incanto da cavaliere ariostesco che ha compreso la sconfinata amarezza del presente e l’immanenza della fine.

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Cosa conduce il romanzo al di là di se stesso, conservandone il carattere fantastico e tanto poco irreggimentabile? Tre fattori.

In primo luogo, la libertà narrativa che si conquista affrancandosi da ogni vincolo nei confronti del presente, concependo quest’ultimo come territorio proprio di ogni avventura. In secondo luogo, l’atteggiamento del narratore, che mette in scena se stesso e quel che vive fingendo di ignorare, o ignorando del tutto, le implicazioni di ciò che andrà a raccontare. E infine, l’attenzione per il «cimento» umano.


[1] La versione originale del saggio di Mark Twain How to Tell a Story and other Essays può essere facilmente reperita in rete presso il sito del progetto Gutenberg (www.gutenberg.org); la traduzione italiana cui si fa riferimento di seguito è M. Twain, Come raccontare una storia e l’arte di mentire, Fidenza Edizioni Mattioli 1885, 2007.

[2] Ivi, p. 14.

[3] Del romanzo di Bolaño Los detectives salvajes, pubblicato in Spagna nel 1998, la prima edizione italiana è I detective selvaggi, Sellerio, Palermo, 2003; la seconda, cui si fa riferimento, è uscita presso lo stesso editore nel 2009.

[4] Documenti e saggi sul movimento letterario dell’infrarealismo possono essere reperiti on line al sito di lingua spagnola: www.infrarrealismo.com. Sul contesto e l’autore sono indispensabili l’avvertenza dell’autore ad Anversa dal titolo: Anarchia totale: ventidue anni dopo (in R. Bolaño, Anversa, Palermo, Sellerio, 2007) e le Postfazioni di Angelo Morino al già citato Anversa ed all’edizione italiana di Notturno cileno, sempre edito da Sellerio. Importante anche il numero monografico della rivista «Nuova Prosa», 46 (2007), intitolato America Latina. Dalle derive del realismo magico alla realtà del romanzo. Inediti, testimonianze e saggi a cura di M. Rizzante. In particolare, nel volume, oltre al saggio di Rizzante Come salvare la pelle senza rinunciare alla poesia. Introduzione all’opera di Roberto Bolaño (pp. 77-93), anche l’intervento di M. Gallego Roca, Le frontiere del romanzo del XXI secolo (pp. 11-21). Su Bolaño, da vedere anche l’intervento di J. Lethem, The Departed, in «Sunday Books Review – New York Times», November 12th, 2008. Sull’edificazione post-mortem del mito di Bolaño in America come emblema della nuova narrativa latinoamericana, si veda H. Castellanos Moya, Bolaño Inc. in «Guernica», November, 2009.

[5] Che Belano abbia lasciato il realvisceralismo lo riferisce il personaggio di Felipe Müller (I detective selvaggi, cit., p. 321).

[6] Per l’incontro tra Ulises Lima e Octavio Paz, narrato da Clara Cabeza si veda I detective selvaggi, cit., pp. 679-680.

[7] F. Ricard, L’ultimo pomeriggio di Agnes. Saggio sull’opera di Milan Kundera, Milano, Mimesis, 2011. Si veda anche W. Nardon, La parte e l’intero. L’eredità del romanzo in Gianni Celati e Milan Kundera, Trento, Editrice Università degli Studi di Trento, 2007, pp. 179-183.

[8] La citazione sull’opera di Mark Rothko come: «Unknown adventure in an unknown space», si può trovare al sito della National Gallery of Art di Washington in questa pagina:

www.nga.gov/feature/rothko/abstraction4.shtm.

[Immagine: Francesco Jodice, What We Want. Sao Paulo (gm)]

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