di Barbara Carnevali
Innanzitutto, un appello ad andare a votare per i referendum dell’8 e 9 giugno. Perché il voto è un dovere civico, prescritto dalla Costituzione, ma anche e soprattutto un diritto, che ci permette di esercitare una forma di controllo (ciò che ne resta…) sulle grandi decisioni che orientano la vita collettiva: in questo caso, le politiche migratorie e quelle sul lavoro.
Il senso del quesito sulla cittadinanza è chiarissimo – e personalmente voterò SÌ, senza esitazione. Voterò SÌ anche per tutti i quesiti sul lavoro, ma capisco che possano suonare troppo tecnici, più adatti a degli esperti che a una consultazione referendaria; molte persone infatti se ne lamentano. Come sappiamo, la formulazione tecnica è dovuta alla loro destinazione abrogativa. Ma il senso complessivo che emergerà dal voto mi sembra evidente, e materia perfetta per un referendum, in quanto questione di immediato interesse pubblico: QUALE DESTINO PER IL LAVORO? Vogliamo orientare le politiche in senso social-democratico, mettendo lavoratrici e lavoratori al centro, tutelando i loro diritti e fondando sulla dignità del lavoro un progetto di società (SÌ)? O invece vogliamo orientarle in senso liberale, permettendo che il mondo del lavoro sia regolato prioritariamente da esigenze di produttività e sviluppo, considerando protezioni e tutele come un ostacolo alle dinamiche del mercato (NO)? Come si vede, la questione è tecnica solo in apparenza. La scelta referendaria è squisitamente politica perché mette in gioco due diverse concezioni del valore del lavoro, del progresso, del rapporto tra politica, etica ed economia – dei fini collettivi, in altre parole.
Qualunque sia l’esito del referendum, il lavoro sarà al centro dell’agenda politica del futuro. Non lo chiedono solo i sindacati. Ce lo chiede il nostro elementare senso critico, se ci guardiamo intorno, se riflettiamo sui fondamenti della società, della nostra esistenza personale, e sulla velocità vertiginosa con cui un mix di imperativi economici e trasformazioni tecnologiche li sta scardinando. La percezione dell’urgenza trova riscontro in alcune voci esemplari della scena contemporanea. Voglio offrire loro un megafono per dimostrare che nella battaglia sul lavoro convergono forze diversissime ma complementari.
Che il lavoro sia il centro ce lo dice nientemeno che il papa. Leone XIV ha scelto un nome programmatico e annunciato un’enciclica dal titolo altrettanto clamoroso, la Rerum Digitalium: si interrogherà sull’essenza della rivoluzione digitale e sulle sue conseguenze in termini di disoccupazione, specializzazione, divisione sociale dei ruoli e delle competenze. Tra le nuove sfide, oltre alla nuova questione operaia, il destino di categorie professionali, dagli insegnanti agli architetti, che fino a poco tempo fa si illudevano di essere al riparo dalla minaccia delle macchine. Questa la sua promessa: “Oggi la Chiesa offre a tutti il suo patrimonio di dottrina sociale per rispondere a un’altra rivoluzione industriale e agli sviluppi dell’intelligenza artificiale, che comportano nuove sfide per la difesa della dignità umana, della giustizia e del lavoro”.
Che il lavoro sia il centro ce lo dice un filosofo, Axel Honneth, l’ex direttore di quella Scuola di Francoforte che da circa un secolo elabora una teoria critica della società. Il suo ultimo libro, Il lavoratore sovrano, rilancia la questione del lavoro facendone il pilastro della democrazia partecipativa e di un progetto di giustizia sociale fondato sulla solidarietà: “Il lavoro non è solo una dimensione strumentale dell’esistenza (cioè un mezzo per il sostentamento), ma è anche un campo formativo essenziale per lo sviluppo delle capacità partecipative e democratiche. L’esperienza lavorativa quotidiana è fondamentale per sviluppare pensiero critico, cooperazione, fiducia in sé stessi e capacità di partecipare attivamente alla vita pubblica. Se il lavoro è organizzato in modo autoritario, precario e privo di riconoscimento, ciò mina la cittadinanza attiva e favorisce disinteresse e sfiducia verso la politica”.
Che il lavoro sia il centro ce lo dice uno scrittore, Vitaliano Trevisan, autore del bellissimo Works di cui ho già parlato qualche mese fa. Un affresco sconvolgente del mondo del lavoro postfordista, della sua violenza sommersa e delle nuove forme di sottoproletariato; ma anche un’autobiografia esistenziale e profondamente morale, che riconosce nel lavoro, come croce e delizia, l’orizzonte insuperabile della vita contemporanea: “Come se le due cose si potessero scindere! Intendo il lavoro e la vita. Chissà, forse per qualcuno sarà anche così. Di certo non è stato così per me”.
Il referendum sarà un momento di verifica decisivo per decidere cosa vogliamo fare di un valore così cruciale da essere iscritto nel primo articolo della nostra Costituzione. Dobbiamo andare a votare per progettare il futuro del lavoro, ossia il futuro della nostra stessa vita – e per non farlo progettare da altri (magari proprio quelli, o quelle, che non voteranno).
N.B. Gli slogan IL LAVORO AL CENTRO e PROGETTARE PER NON ESSERE PROGETTATI sono di un grande teorico del lavoro: Enzo Mari.
(questo articolo è apparso su La Stampa il 5 giugno 2025)
Spiace che discorsi come questi li facciano ormai soltanto (pochi) preti…
SEGNALAZIONE
. La gente è stanca di un lavoro che non basta per vivere, di un lavoro che impone orari e spostamenti esasperanti. La gente è stanca degli incidenti sul lavoro. La gente è stanca di constatare che i giovani non trovano lavoro e le pretese del lavoro sono frustranti. La gente è stanca della burocrazia, dell’ossessione dei controlli che tratta ogni cittadino come un soggetto da vigilare, piuttosto che come una persona da coinvolgere nella responsabilità per il bene comune.
La gente non è stanca della vita di famiglia, perché la famiglia è il primo valore, e il bene più necessario per la società, è la trama di rapporti che dà sicurezza, incoraggia, accompagna. La gente è stanca della frenesia che si impone alla vita delle famiglie con l’accumularsi di impegni e delle prestazioni necessarie per costruire la propria immagine, per non far mancare niente ai figli, per non trascurare gli anziani. La gente è stanca di quell’impotenza di fronte a un clima deprimente che avvelena i pensieri, i sogni, le emozioni dei più fragili, che induce tanti adolescenti a non desiderare la vita.
La gente non è stanca dell’amministrazione, dei servizi pubblici, delle forze dell’ordine, della politica, perché è convinta che la vita comune abbia bisogno di essere regolata, vigilata, organizzata. La gente è stanca, invece, di una politica che si presenta come una successione irritante di battibecchi, di una gestione miope della cosa pubblica. La gente è stanca di servizi pubblici che costringono a ricorrere al privato, di un’amministrazione che non sa valorizzare le risorse della società civile, le iniziative della comunità per l’educazione, l’assistenza, l’edilizia, la sanità. La gente è stanca del pettegolezzo che squalifica le persone.
La gente non è stanca della buona comunicazione, perché la comunicazione è il servizio necessario per avere un’idea del mondo. Invece la gente è stanca di quella comunicazione che raccoglie la spazzatura della vita e l’esibisce come se fosse la vita, stanca della cronaca che ingigantisce il male e ignora il bene, stanca dei social che veicolano narcisismo, volgarità e odio.
Per favore, lasciate riposare la gente!
(Da *Discorso alla città 2025, Basilica di Sant’Ambrogio, 6 dicembre 2024 riportato da Sergio Fontegher Bologna su OFFICINA PRIMO MAGGIO: https://www.chiesadimilano.it/cms/documenti-del-vescovo/mario-delpini-documenti-del-vescovo/discorsi-alla-citta-mario-delpini-documenti-del-vescovo/lasciate-riposare-la-terra-2822543.html
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