di Leonardo Ceppa

 

In biologia, l’omeostasi è la capacità dell’organismo di autoregolarsi rispetto alle variazioni dell’ambiente. Nel secondo volume Feltrinelli della sua magnifica Storia della filosofia (curata da Luca Corchia e Walter Privitera, Milano 2024) Habermas parla di omeostasi semantica nella reciproca trasmissione di fede e sapere, religione e scienza, significati religiosi e significati profani. Contenuti religiosi immigrano nella filosofia e contenuti scientifici immigrano nella religione.  Viene così garantita la possibilità adorniana di comporre una “escatologia del profano”, ossia di tradurre i dogmi della religione nei doveri della quotidianità. Così Agostino utilizza Platone per spiegare la trinità, Tommaso utilizza Aristotele per assorbire la scienza araba, Scoto e Occam distruggono l’ordine metafisico aprendo la via all’autonomia dell’individuo e al nominalismo della scienza. Ma con Lutero la scissione è più profonda: la fede non vuole avere più nulla in comune con il sapere. La filosofia viene messa per la prima volta fuori gioco: l’esperienza religiosa della grazia evangelica apre in Lutero la via al pensiero postmetafisico, alla filosofia kantiana del soggetto, alla morale deontologica di Kant. L’esperienza religiosa abbandona con Lutero il piano della ragione proposizionale, del sapere oggettivante, della ricostruzione filosofica del dogma, per restringersi al piano performativo di una drammatica dialettica tra grazia e peccato. Nella lettura che Habermas compie di Lutero, siamo di fronte a un rapporto io-tu, a una comunicazione tra la prima e la seconda persona grammaticale, a una lotta estenuante tra giustificazione divina e irredimibile peccaminosità umana.

Leggiamo così – nel settimo capitolo del libro, dedicato alla rottura di Lutero con la tradizione e alla trasformazione moderna della teologia – le seguenti parole di Habermas: “Lutero si concentra sul rapporto che il peccatore in lotta per la propria salvezza intrattiene con Dio, e disgiunge in linea di principio l’atto di fede dalla ragione, perché persino la ragione è profondamente irretita dalla corruzione del mondo” (p. 419)

Senonché Habermas segue Adorno nella mediazione degli opposti attraverso gli estremi. Sicché proprio la imperscrutabilità della misericordia divina e la confessionalizzazione del potere statale (generante le guerre di religione) diventano per Habermas il fattore più potente che distrugge la metafisica e apre la via alla modernità: una svolta antropologica che pone fine alle immagini del mondo e conduce al cambio di paradigma verso la moderna filosofia del soggetto. Ecco il paradosso, ecco l’ironia di una mediazione (hegeliana e adorniana) che passa attraverso gli estremi. In Lutero, il ripudio teologico della filosofia e l’autoesaltazione irrazionale della fede aprono le porte al disincantato secolarismo della modernità.  Solo il colpo di genio kantiano che trasformerà la fede di Lutero nell’imperativo categorico della ragion pratica consentirà di recuperare – nel mondo postmetafisico della modernità – la doverosità morale, la legittimità giuridica, l’universalità democratica.

Nella presentazione iniziale di Lutero al lettore, Habermas non resiste alla tentazione di confrontarsi con lui in prima persona, criticandone la psicologia e i princìpi teorici. Le due pagine 423 e 424 sono molto interessanti sotto questo aspetto. Nella prima, la inconciliabilità luterana di giustizia e amore viene da Habermas paragonata a Kafka, alla “estraneità intransigente” della legge che presiede ai suoi famosi processi. Lutero infatti ci confessa che da giovane, “nonostante la irreprensibilità della [sua] vita di monaco”, si sentiva alla fine costretto a “odiare Dio” per la assurda severità di una legge esprimente collera invece che amore.

La incapacità luterana di legare in Dio giustizia e amore viene illustrata da Habermas con una interessante “riflessione controfattuale” che tira in ballo la Lettera ai Romani di Paolo. Ricordando la critica di Hegel al carattere individualistico-egualitario dell’universalismo morale kantiano, Habermas riporta la risposta datagli un giorno da un dotto gesuita di Jakarta. Habermas gli aveva chiesto se lui credeva nell’inferno. Più tormentoso di qualsiasi castigo infernale – così il gesuita gli aveva risposto – è il dolore della coscienza che prende atto delle proprie azioni e omissioni. Dunque l’inferno sta nel prendere atto, fino in fondo, di ciò che abbiamo fatto.  Sennonché solo Dio è capace di applicare – in questo modo paradossale – l’universalità astratta della norma al carattere insostituibile, unico, privatissimo di ogni peccato e di ogni storia esistenziale. Allora, al cospetto di questa idea regolativa, nel giudizio di Dio diventano compatibili grazia e giustizia. Questo è ciò che Habermas e il gesuita di Jakarta fanno polemicamente valere contro il pregiudiziale e ostinato pessimismo antropologico di Lutero.

Nella disputa delle indulgenze Lutero condanna una chiesa che, monetizzando la remissione dei peccati, esime il peccatore dallo sforzo morale della scrupolosa confessione delle proprie mancanze. Ma è soprattutto con la dottrina della giustificazione che Lutero disgiunge l’idea di giustizia, rispetto alla quale l’uomo non sarà mai degno di salvarsi, dall’idea di redenzione, totalmente affidata alla sola iniziativa divina, senza nessun contributo da parte delle opere meritorie.  Data la originaria e irredimibile corruzione dell’uomo, le pretese della legge, inclusi i comandamenti del vecchio testamento, per Lutero non potranno mai essere soddisfattte. La predicazione dei comandamenti serve soltanto ad “atterrire i fedeli”, rendendoli consapevoli della loro indegnità. Così Lutero contrappone la legge che condanna al vangelo che redime.

In un passo della Lettera ai Romani (10,17) Paolo scrive: Ergo fides ex auditu, auditus autem per Verbum Christi. La fede nasce dall’ascolto e l’ascolto dalla parola di Cristo. Dopo essersi liberata dalle sofisticherie della teologia scolastica, la fede si riduce in Lutero alla drammatica esperienza di una comunicazione performativa tra Dio e il fedele. Tale comunicazione, in cui penitenza e fede si corrispondono, si abbandona alla iniziativa di un Dio inafferrabile, che si rivela non nella “analogia entis”, non nello splendore dell’ordine cosmico, bensì nella sofferta nudità della croce. L’atto di fede ha priorità sul contenuto della fede: la conversione esistenziale è dovuta non alla conoscenza bensì alla fiducia. Nei termini di Habermas: “la validità della fede non si decide sul livello proposizionale, ma su quello performativo” (p.440).

Nella dottrina dei sacramenti Lutero semantizza il dono sacrale, cioè lo trasforma nella forza illocutiva delle parole liturgiche. Egli sottrae alla chiesa istituzionale la giurisdizione dei beni salvifici per affidarla al rovesciamento che traduce la teoria in prassi, la passività magica in miracolosa attività sacrificale. “Prendete e mangiate; questo è il mio corpo”. Dio stesso, nella figura del Figlio, si sacrifica spontaneamente per gli altri, assumendo su di sé i peccati dell’umanità. Secondo Habermas, il rito luterano rovescia la magia nella ripetizione delle parole liturgiche. I sacramenti testimoniano la presenza di Dio stesso che promette ai fedeli la remisssione dei peccati. L’evento sacramentale genera per Habermas la forza illocutiva con cui il fedele esperisce la presenza attuale di una seconda persona, cioè di “un divino partner dialogico che rimane invisibile” (p.448).

Così Lutero sottolinea, secondo Habermas, il carattere performativo della fede, ossìa il primato della parola parlata sull’azione simbolica, e lo fa in maniera tale che “l’elemento rituale si dissolve interamente nel crogiuolo del linguaggio” (p. 451). Alla fine della sua trattazione di Lutero, Habermas giunge al punto di chiedersi se la chiesa riformata non avvii soltanto una inedita trasformazione postmetafisica del complesso sacrale, bensì segnali addirittura un “inaridimento della fonte sacrale dell’integrazione sociale, ciò che equivarrebbe, aggiunge Habermas, a una cesura nella storia dell’umanità” (p. 454).

Questa cesura si rivelerebbe come il fallimento della modernità, cioè come l’incapacità dell’autonomia morale di recuperare l’incondizionato dover essere della ragione. E’ su questo piano   che Habermas contrappone Kant a Hume.  Ai suoi occhi, la filosofia di Hume si presenta come alternativa a quella di Kant, cioè come un ateismo positivistico che fraintende il senso universale e progressivo della rivoluzione nominalistica (il rasoio di Occam). Perciò la versione humeana del nominalismo, invece di aprire la strada al recupero storico-trascendentale della ragion pratica, si arresta alla riduzione degli universali a flatus vocis, cioè alla squalifica della religione come sogno consolatorio del passato.

1 thought on “Il Lutero di Habermas. Tra fede e sapere

  1. Grazie per avere pubblicato queste riflessioni, decisamente profonde e se me lo consentite, illuminanti. Queste attività divulgative che creano connessioni tra i pensatori del passato e del presente, sono una preziosa testimonianza di non comune sensibilità culturale. Buon lavoro e i miei migliori saluti.

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