di Ugo Morelli
Muoversi. Piano. Per poi fermarsi. A guardare. Non perdere l’istante. Si dice istantanea, infatti. Ascoltare. Osservare. Ascoltarsi. Cogliere il momento. Non trascurare il movimento. Chinarsi. Si dice clinica, infatti.
È qui, davanti a me. Riuscirò a rappresentare quel che vedo? Ma soprattutto quel che sento? Metterò abbastanza bene un mondo in un’immagine, un pluriverso in un riquadro, l’infinito in una cornice?
Di fronte a me, una vita. Riuscirò a non interpretare? Ce la farò a non proiettare? E la distanza? Quale sarà quella giusta? Userò abbastanza bene me? Perché l’altro divenga sé stesso?
Sono più che affinità. A pensarci bene pare la stessa storia. La comunanza? L’intercorporeità. L’empatia. Quel processo con un altro. Che non è una scelta. Ma esige tanto esercizio. E tanta cura. Col paesaggio e con un altro. Ma è la stessa cosa? No. Non è mai la stessa cosa. La mobilitazione interiore però sì. Perché ci si faccia all’altro. Spazio o persona che sia.
Cogliere il mondo mentre accade. L’altro, un mondo. Lo spazio, un mondo.
A piedi scalzi. Tanto ha questo di buono un mondo, fa tutto lui. O lei, se è l’altra che hai di fronte.
Allora cosa devi fare? Lasciare che sia. Limitandoti ad esserci. Non è facile esserci. Presente. Osservante. Ascoltante. Soprattutto sé stessi. Aspettare. Attendere. Capaci di capacità negativa. Poi arriva. E trova attenzione. Trova spazio. Incontra contenimento. E si esprime. Si fa contenere. In una relazione che diventa immagine o via per diventare sé stessi. Così non c’è fatica. L’immagine si crea. La via si presenta. Il gesto ostetrico apre. La via appare. L’immagine emerge.Il confine tra noto e ignoto è poroso. Fotografare è stabilire un margine tra osservatore e osservato. Anche curare lo è. Ogni relazione è un’approssimazione. La relazione di cura è una relazione asimmetrica. Il margine è il luogo del possibile. Condizione è che l’asimmetria si astenga dalla violazione. Astenersi perché il mondo si esprima. Astenersi perché l’altro si esprima. Una sorta di esserci senza esserci, perché la relazione faccia quello che può fare.
Novello Plutarco, Ivan Paterlini. Si è proposto di stabilire una vita parallela. Tra Luigi Ghirri e lui. Tra la fotografia e la psicoanalisi.
Un viaggio? Se di viaggio si tratta, che viaggio è? Pare un viaggio attraverso. I protagonisti? Almeno sei. Il fotografo, la fotocamera e il paesaggio; l’analista, il paziente e la stanza d’analisi. Forse 7: con noi che leggiamo. La relazione estetica, o meglio l’estetica delle relazioni come fondamento. L’universo artistico e introspettivo di Luigi Ghirri, da un lato. Le narrazioni e riflessioni cliniche dall’altro. Più che intrecciarle, Paterlini ne cerca le risonanze. Tra la poetica di Ghirri e la ragion poetica che può nascere nella stanza d’analisi. Le immagini, si sa, si fanno narrare da un osservatore. Da sole non dicono nulla. Un paziente si narra ad un terapeuta. Non esistono né immagini né pazienti senza l’estetica della relazione. Che diventino operazioni trasformative solo l’estetica può deciderlo. Se la relazione col mondo e con l’altro diventa soglia che conduce nell’intimo è perché attiva la struttura che collega. Quella struttura sensibile è l’estetica. Un lavoro maieutico, di traduzione. Se prendono forma l’estetico del mondo e l’inconscio del paziente è perché qualcosa di riconducibile all’esperienza estetica è accaduto. Il mondo e l’altro se ne stavano lì, appiattati nel loro giacere. Uno sguardo li ha considerati. Li ha elevati intorno alle stelle. Drammatico e fatale l’incontro. Generativo quando riesce. Ne esce l’immagine o l’esperienza autobiografica. Diventano storie. Spesso dissotterrate. Da un canale di bonifica. O da scene ancestrali. Dalla nebbia o dalle emergenze dell’inconscio. Lo sguardo che perturba, comunque, ha bisogno di ostetricia per non disturbare. Prima di esplorare e comprendere, per non diventare intrusivo, ha bisogno di tatto nel contatto. E comunque intervenire vuol dire intromettersi. Bene è non dimenticarlo. Mantenendo piedi scalzi e respiro leggero. Forse è l’arte che accomuna il collezionista di immagini del mondo e l’ascoltatore di anime. Non sono frammenti i segni della superficie. Sono l’evidenza della profondità. Una semiotica del gesto e della parola per una maieutica dei luoghi che diventano mondi e di parole che diventano farmaco.
Rischi da evitare ce n’erano tanti in questo libro di Paterlini [Luigi Ghirri dentro lo scatto di un’analista, Mimesis, 2025]. Ghirri è ormai materia incandescente. A rischio di combustione e consunzione. Quando ne parlavo con un suo allievo e mio amico, Olivo Barbieri, ne coglievo la distinzione e la profondità. Devo fare non pochi sforzi per conservare quelle sensazioni e quelle emozioni. Per non aderire, travolto, alla costruzione di un’icona. Altro rischio: non trascinare Ghirri, cosa difficile perché facilissima da farsi, nello psicoanalese, commettendo un grave peccato di attribuzione indebita. Paterlini prende la cosa contropelo. Guarda a Ghirri con la coda dell’occhio. Ne scruta la potenza espressiva di sguincio. Altra difficoltà, perché quella di Ghirri è una potenza fragile, al limite dell’inafferrabile, ma magnetica quasi oltre il sopportabile.
Una sottile questione getta un ponte: quella della latenza, tra Ghirri e Paterlini. Se niente c’è di antico sotto il sole, allora ogni sguardo e ogni parola sono sempre verginali.
È stato Donald Meltzer a sottolineare la funzione della creatività e dell’esperienza estetica nella relazione analitica. Che la psicoanalisi abbia da sempre attinto alla tradizione letteraria e artistica della cultura occidentale, è cosa nota. Integrando così, seppur in pochi importanti casi, l’originario contesto medico-scientifico. La stanza del pensiero virginale. Origini letterarie del modello psicoanalitico della mente, libro scritto da Meg Harris Williams e Margot Waddel costituisce un’osservazione autentica e rivelatrice del ruolo seminale svolto dalla letteratura nella formazione del modello psicoanalitico della mente. Sulla stregua della lunga collaborazione con Donald Meltzer, emerge un approccio interdisciplinare. L’analisi delle dinamiche dei processi mentali e simbolici presenti nelle opere di Shakespeare, Milton, Eliot e dei poeti romantici, consente alle due autrici – attraverso la comprensione e l’esperienza della propria pratica clinica, guidata dall’impegno intellettuale e da una reale esplorazione dell’interiorità – di mostrare quanto la psicoanalisi sia una figlia naturale della letteratura, e non solo una sua interprete. Oltre che ispirata dal lavoro di Donald Meltzer, l’analisi del libro è fortemente influenzata dal pensiero di Sigmund Freud e dalle idee teoriche e cliniche di Wilfred Bion. Ne emerge il valore dell’esperienza e del conflitto estetico nella creazione e nella relazione terapeutica.
Se sono verginali, sempre, come differenza nella ripetizione (Gilles Deleuze), gli sguardi e le parole, ovvero i significati che si generano nelle relazioni tra animali sense-makers, allora la latenza non è saturabile. Tanto meno prosciugabile. Inutile provarci. Ancora più problematico, quasi pericoloso, pensarsi come fotografi e come analisti terapeuti, come prosciugatori della latenza. Quel che è latente è la condizione perché una sua parte almeno diventi patente. Come la mancanza costitutiva è l’utero della nascita dell’inedito. Il paesaggio di Ghirri appartiene a sé stesso. Se ne stava latente nella sua eterna evoluzione. Fino a quando? Fino a che qualcuno lo ha catturato, come si suol dire? O fino a quando, pur rimanendo sé stesso, qualcuno lo ha sfiorato cogliendolo e per un istante lo ha reso patente, mentre la sua latenza se ne stava nella persistenza della sua durata? Nella sua verginalità? E il mondo interno di un paziente o di una paziente? Rimarrà nella propria latenza, in buona misura irraggiungibile da chiunque e anche da loro stessi, mentre un suo lacerto, una sua scheggia, un suo frammento potrà emergere e potrà essere messo in comune con chi, leggero e discreto, saprà accoglierlo nella relazione in un campo analitico.
In proposito, Paterlini scrive:
“Come possiamo vedere con nuovi occhi gli oggetti che abi¬tiamo quotidianamente? Come possiamo investirli nuovamente di desiderio e riscoprirli attraverso altre forme relazionali? La mente è sin dalle origini una mente in relazione, duale. Freud scrisse che le nostre pulsioni si indirizzano anzitutto sul seno materno e successivamente, quando il seno non è raggiungibile, su noi stessi. “Il rinvenimento dell’oggetto è propriamente una riscoperta.” Dobbiamo “appoggiarci” a oggetti esterni come se fossero quel seno per poter mettere in moto le dinamiche interpersonali e le relazioni che si contrappongono alle forme narcisistiche e intrapsichiche. Siamo noi i creatori di quegli og¬getti, siamo noi che ci inventiamo “illusoriamente” queste nuove forme di relazione pensando di poterle, anche solo per attimi, orientare. La relazione analitica è la possibilità di creare i nuovi oggetti “d’appoggio” attraverso il mondo dell’altro, dentro una danza dove la reciprocità e l’interdipendenza definiscono il tem¬po e il fraseggio del divenire. Viktor Sklovskij, critico letterario russo, scrive ne L’arte come procedimento [in I formalisti russi, 1917, a cura di T. Todorov, Einaudi, Torino 1968] che l’arte è una ma¬niera di sentire il divenire dell’oggetto, mentre il già compiuto non ha importanza nell’arte” [p. 34].
Paterlini organizza il territorio della propria ricerca, mettendosi in dialogo con Ghirri, mediante concetti spaziali. Le cornici, quelle sì che sono importanti. Codificano le tessere e danno significato ai contenuti. Vincolano e contengono, selezionano e consentono di riconoscere. Gli spazi come luoghi della vita, diventano paesaggi per noi. Muovendoci e traducendo, traducendo e muovendoci, riconosciamo noi stessi incorporando lo spazio. Lo incorporiamo comunque. Di qualunque natura sia. Non possiamo non farlo. Paesaggio lingua madre. Così come impariamo la lingua madre nascendo in una comunità di parlanti, allo stesso modo facciamo nostri lo spazio in cui nasciamo traducendolo nel paesaggio della nostra vita [G. Cepollaro, U. Morelli, Paesaggio lingua madre, Erikson, Trento 2014]. Che poi il paesaggio possa essere fatto di rovine, o possa essere andato in rovina è parte della nostra esperienza di vita. Proprio di quella rovina del senso dell’essere e della presenza si occupa Ghirri e lo stesso fa Paterlini come narra documentando la propria esperienza di terapeuta. Le rovine del senso. Erano gli anni della crisi delle certezze e si aprivano gli spazi dell’immaginazione e con Pietro Bellasi, Paolo Fabbri, Niklas Luhman, Jean Baudrillard, Stefano Trombini, e altri, al Teatro Bibiena di Mantova ci trovammo a parlarne, delle rovine del senso. Era il 1981. Non potevamo sapere che ci attendeva la necessità di riflettere sul senso delle rovine. La crisi della presenza di Ernesto De Martino aveva fecondato molte prospettive di analisi e soprattutto la rivoluzione basagliana contro le istituzioni totali e, finalmente, la chiusura dei manicomi. Erano gli anni in cui Luigi Ghirri e Gianni Celati traducevano in poesia mondi fino ad allora trascurati e il margine prendeva senso; il frammento diveniva poesia. Ne sarebbe scaturita una poetica che Marco Belpoliti sta coltivando con particolare efficacia con le sue recenti narrazioni come Pianura [Einaudi, Torino 2021] e Nord Nord [Einaudi, Torino 2025]. Paterlini in quella atmosfera affonda i piedi e da quella atmosfera si eleva a pensarsi mentre pensa a Ghirri, nella serrata narrazione di questo suo libro.
Non senza sofferenza. Non meno di quella che ogni creatività e ogni percorso per crearsi e ricrearsi comporta.
“Una delle matrici della nostra potenzialità creativa”, scrive, “sembrerebbe convergere dentro queste dinamiche ricostruttive e riparative; se manca la spinta sufficiente a trasformare le riparazioni delle man¬canze in creatività, si abbracciano rifugi della mente spesso legati alle dipendenze, che non sono altro che dosi di sostanze senza fine per simulare la mancanza di quella prima dose mai ricevuta. L’in-venzione creativa di una vita strappata al terrore mi ricorda Elvio Fachinelli quando sulla spiaggia, davanti al mare, improvvisamente accoglie lampi di intuizione, pensieri sintetici che provengono da un’altra parte, e li trova affini a quanto avviene nel processo dell’in¬venzione, che sia questa scientifica o non scientifica.”
E Paterlini cita Elvio Fachinelli da quel suo impareggiabile libro che è La mente estatica [Adelphi, Milano 1989]:
“È l’improvvisa comparsa di un materiale organizzato, coerente, a partire da frammenti; a partire, spesso, dalla disperazione di riuscire in un compito consapevole. Dunque, non importa l’ambito della scoperta […]. Importa quel movimento chiaro, netto […], che mette a posto, ordina, dà forma, e insieme inonda di gioia e certezza.”
Lo scatto di Ghirri è una possibilità di relazione con il mondo, in cui la biografia di chi fotografa, così come accade nella stanza dell’analisi, “deve orientarsi, attraverso un lavoro sottile, quasi alchemico, all’in¬dividuazione di un punto di equilibrio tra la nostra interiorità […] e ciò che sta all’esterno, che vive al di fuori di noi, che continua a esistere senza di noi e continuerà a esistere anche quando avremo finito di fare fotografia”. Così Ghirri.
Torna il paesaggio. Abitare un luogo significa quindi avere relazioni con gli oggetti di esso e simulare i movimenti che esso evoca. Allora il luogo, come ci insegnano le neuroscienze ma soprattutto l’esperienza vissuta, è anzitutto la costruzione di un luogo interiore, intersoggettivo e inter¬corporeo.
“Nella casa davanti al Po, quando in inverno diventava grosso e grigio scuro e la piena invadeva tutti i boschi golenali, il paesaggio entrava in casa e mi sentivo parte di quelle golene, pronte ad acco¬gliere i movimenti della natura, dove i pioppeti tutti in fila come mi¬litari in guerra affrontavano l’invasione del fiume che scorre ovun¬que e te lo senti addosso. Rovi, alberi e canneti spesso si specchiano in questo grande e immenso riflesso di acqua” [p. 69]. Così Paterlini.
Le soglie che attraversiamo sono fine e inizio. Non possiamo scegliere. Sono ambigue. Sono entrambe le cose. Alle soglie conviene prestare l’attenzione che meritano.
Per Ghirri, i nostri “scatti” quotidiani sono una finestra aperta sulle soglie del mondo che possono trasformarsi in una consape¬vole finitudine. Anche la relazione analitica si muove sul terre¬no sottile delle soglie, ad esempio tra ancoraggi e movimenti, tra protezione ed esposizione, tra la comprensione e la spiegazione, secondo Paterlini.
Attraversando le soglie del Puer e del Senex Paterlini conduce il lettore alla fine del viaggio, in un sistema di riflessioni che intitola semplicemente Mondo, segnalando quello che fa nella stanza d’analisi, dove sostiene la creazione e ricreazione di mondi, e le affinità con i mondi che ha fatto Ghirri con i suoi scatti. “Il mondo che ho fatto”, dice Daniele Del Giudice, consegnando alcuni raccoglitori di suoi racconti a Roberto Ferrucci [R. Ferrucci, Il mondo che ha fatto, La Nave di Teseo, Milano 2025]. All’exergo di Gianni Celati è consegnata la chiusa che ben dice il mondo che noi abbiamo fatto e che oggi ci inquieta mentre ancora ci contiene, come emerge nel lavoro di cura di Paterlini e nell’arte fotografica di Luigi Ghirri:
Ascoltami bene, Luciano. Ombra e luce non stanno più bene assieme di questi tempi, per via dell’aria sporca che non dà buone ombre, e poi ci viene anche nei polmo¬ni. E noi come ubriachi cerchiamo di rimediare, metten¬do dappertutto colori netti e vivaci che si vedano meglio. Ma siamo sempre più ubriachi, siccome i colori vivaci ti fanno dimenticare le ombre e i crepuscoli, e ti rendono stupido, ecco il fatto.
[G. Celati, (1987), Condizioni di luce sulla via Emilia, in Id., Quattro novelle sulle apparenze, Feltrinelli, Milano 1987, p. 73].
[Immagine: Luigi Ghirri, Roncocesi (RE), gennaio 1992, dettaglio]