di Riccardo Capoferro
[Pubblichiamo un saggio scritto da Riccardo Capoferro per LPLC su Stanislaw Lem e le potenzialità del fantastico, ma anche sul rapporto della sua opera con gli eventi traumatici del Novecento. Capoferro è autore di Oceanides, il romanzo uscito per il Saggiatore pochi mesi fa, che a sua volta mescola romanzo d’avventura, romanzo storico e fantascienza ecologica. ]
Da qualche anno a questa parte, l’opera di Stanislaw Lem sta conoscendo una seconda vita. Al suo arrivo in Italia, spesso con traduzioni dall’inglese anziché dal polacco, sembrava si rivolgesse perlopiù ai lettori di fantascienza. Una nuova stagione di lavoro editoriale le ha permesso di raggiungere un pubblico più ampio. Dopo le sortite di Editori Riuniti, ha spianato la via Marcos y Marcos (con edizioni andate presto esaurite), seguita da Bollati Boringhieri con La voce del padrone e Il castello alto. È poi venuta Sellerio con le edizioni – curate da Francesco M. Cataluccio – di romanzi come Solaris, l’Invincibile e Ritorno dall’universo (tradotti da Vera Verdiani, Francesco Groggia e Pier Francesco Poli). A questa nuova fase della vita di Lem ha contribuito anche Voland, con Vuoto assoluto (tradotto da Valentina Parisi) e Febbre da Fieno (tradotto da Lorenzo Pompeo), senza dimenticare Golem XIV, uscito per Il Sirente. Di ancora più recente uscita è il volume Universi (Oscar Mondadori), che raccoglie tutti i racconti di Lem, con la cura di Lorenzo Pompeo – che è anche traduttore di Golem XIV, confluito nel volume insieme a Vuoto assoluto. L’eredità di Lem è stata poi consacrata in ambito accademico, come dimostra “Galassia Lem” (26-27 ottobre 2021), il convegno che la cattedra di Polonistica della “Sapienza” di Roma e l’Istituto di cultura polacca hanno organizzato per celebrare il centenario della nascita dello scrittore, e che ne ha esplorato l’opera, le ascendenze e l’impatto. Lem è stato, parallelamente, oggetto di molti articoli sui giornali o sui blog culturali, il più recente dei quali, un ricco profilo disegnato da Alberto Mittone, è uscito poco tempo fa su Doppiozero (https://www.doppiozero.com/materiali/grandezza-di-stanislaw-lem).
Sono molte le ragioni per cui l’opera di Lem, nota soprattutto per Solaris e i film che ne sono stati tratti, ci ha raggiunto in modo intermittente. Una di queste è la difficoltà ad assimilarla ai canoni dominanti. Lem è stato a lungo percepito come uno scrittore di “fantascienza”, dunque uno scrittore di nicchia, o comunque legato a un circuito di produzione e consumo ben circoscritto. La forza e l’intelligenza della sua opera sono state tali da garantirgli fruttuose avventure al di fuori degli spazi consueti, ma queste fugaci incursioni in un diverso quadrante sono state a lungo vanificate dalla presenza di un ecosistema non del tutto propizio, per ragioni che val la pena di ricordare. La più determinante è forse che dalla metà dell’Ottocento la maggior parte delle culture letterarie – e alcune culture letterarie più di altre – sono organizzate intorno all’idea di realismo, sia in ambito accademico sia nell’arena del consumo letterario più consapevole. Da un lato, si attribuisce valore a un legame, immediatamente individuabile, con la “storia” e con i temi cruciali del dibattito pubblico – la crisi economica, il crimine organizzato, la condizione delle minoranze – dall’altro, il “realismo” costituisce un prepotente fattore di immersione nel racconto, di facile immedesimazione, che per di più sembra offrire, in modo vicario, un’esperienza di impegno sociale: ai melodrammi intimisti del realismo domestico è spesso attribuita, con luoghi comuni dal sapore vittoriano, una propensione alla scoperta, all’inchiesta o all’indagine etnografica.
La narrativa di Lem fa però vacillare le demarcazioni. Nonostante si ambienti spesso in luoghi e tempi lontani – tra cui anche la Napoli immaginaria di Febbre da fieno – è animata dalla volontà di affrontare problemi fondamentali della storia del Novecento. Non potrebbe, del resto, essere altrimenti, perché Lem si considerava un discendente di Swift e di Voltaire, ossia di scrittori mossi da uno spirito critico feroce e non di rado temerario. Le satire swiftiane sono una diagnosi dei mali legati all’avvento dei “moderni”, satireggiano gli abusi della scienza e del nuovo capitalismo mercantile e finanziario, mentre i romanzi filosofici di Voltaire demoliscono i pregiudizi ereditati dalla tradizione con il fine, molto concreto, di spianare la via a una nuova civiltà.
Il gusto del fantastico, che Lem ha dichiaratamente ereditato da questi stessi scrittori, non deve dunque trarre in inganno. Nella grande satira settecentesca e nella fantascienza più colta il fantastico è uno strumento per parlare in modo incisivo della storia recente. Nelle Memorie di un viaggiatore spaziale, per esempio, Lem infila vignette caricaturali e immaginifiche, affollate di bottoni e diodi e di alieni verbosi e dall’anatomia bizzarra. Smonta con arguzia la presunzione degli scienziati e degli esploratori terrestri, riprende antiche dispute sulla natura umana e non teme fughe nel surreale, ancora più decise nelle sue strane “fiabe per robot”. Ma dalle Memorie si affaccia anche un sentimento di orrore, tinto di misantropia e veicolato dal grottesco, come nel racconto in cui troviamo un pianeta di automi dediti al massacro su larga scala: una distopia di lamiere e ingranaggi che non tarda a manifestare le sue fondamenta umane.
L’esperienza convulsa del XX secolo è palpabile in ogni pagina di Lem. Cresciuto nella Polonia occupata dai nazisti, minacciato, in quanto ebreo, dalle persecuzioni razziali e divenuto scrittore nella stagione della Guerra Fredda, Lem si sofferma sul ricordo e la possibilità, mai venuta meno, della guerra totale. Costretto, da ragazzo, a sgomberare dai cadaveri il pavimento del carcere di Brygidki – a Lviv, in Ucraina – Lem non ha mai finito di fare i conti con gli orrori a cui è scampato. Come ha mostrato Agnieszka Gajewska in uno studio recente (da poco tradotto in inglese), il ricordo del genocidio nazista attraversa tutta la sua opera. Uno dei personaggi de La voce del padrone, Rappaport, ha raccontato all’io narrante, Hogarth, un episodio della propria giovinezza che si basa su un ricordo di Lem. Nella raggelante attesa di una fucilazione di massa, Rappaport vide un altro ebreo negare in yiddish la propria identità e la propria religione; una scena in cui, per non impazzire, ha cercato per tutta la vita il lato comico. Attraverso l’immaginario fantascientifico Lem ha cercato di trasformare le sue memorie traumatiche: e non solo per superarle, anche per estenderne il significato. In Ritorno dall’universo, l’astronauta Hal Bregg, incuriosito da un coro di lamenti, entra per caso in un magazzino in cui aleggiano i gemiti e i deliri di intelligenze artificiali dismesse: corpi e coscienze ammassati che a Bregg paiono vivi, e forse lo sono. Non c’è limite alle forme del dolore, e molte sono le vie dell’empatia: un sentimento che Bregg, proveniente da un’epoca in cui negli umani c’era non solo aggressività, ma c’era anche compassione e senso dell’avventura, sembra essere l’unico a provare. Nel rielaborare le sue memorie Lem dilata la percezione dell’umano; allude, oltre che alla sofferenza passata, a nuovi tipi di sofferenza; e prospetta nuovi tipi di vicinanza.
In modo ancora più evidente, Lem reagisce al clima della Guerra Fredda. Dalla tensione tra USA e URSS ha ricavato, in particolare, affascinanti parabole sulla conoscenza, della natura e dell’altro. L’incontro tra l’uomo e gli alieni – non molti – che popolano il cosmo avviene all’insegna del sospetto e dell’incomprensione. Se la natura dell’oceano senziente di Solaris resta fino alla fine oscura, in Fiasco, l’ultimo romanzo di Lem – in attesa di una nuova traduzione – il contatto tra specie si risolve in una catastrofica sequenza di manovre militari. (Dopo aver letto Lem, è chiaro da dove venga – oltre che da Cuore di tenebra – l’ispirazione di film come Interstellar e Ad Astra). Ne La voce del padrone l’ostilità e il sospetto sono circoscritti a una singola comunità, che ne rappresenta, tuttavia, molte altre. Lo sguardo di Lem si ferma su un istituto di ricerca segreto, frutto della competizione serrata tra USA e URSS, in cui un’equipe di studiosi di molte discipline, dalla biologia all’antropologia alla linguistica, cerca di decifrare una misteriosa emissione di neutrini che raggiunge la terra dalle profondità del cosmo e che sembrerebbe di origine aliena.
In questo caso, l’interesse di Lem cade, più che su un fenomeno di apparente matrice extraterrestre, sui fenomeni umani che lo circondano; sulla guerra, di persone e di idee, che l’opera di decifrazione scatena; e su una proliferazione di congetture e schemi del tutto arbitrari. Non è la natura dell’universo che si disvela nell’istituto, ma la nullità e la rapacità di chi pretenderebbe di poterlo esplorare. Tanto più perché l’emissione neutrinica si rivelerà frutto del caso e della contraffazione. Un intero edificio di conoscenze e una miriade di piccole battaglie – simili a quelle swiftiane della Battaglia dei libri – mostreranno così la loro tragica infondatezza.
La corruttibilità del sapere, la sua disfunzionalità, il suo legame con le pulsioni umane più profonde non può del resto non stare a cuore a chi si è formato negli anni della seconda guerra mondiale, ha seguito da vicino il vertiginoso progresso tecnologico del dopoguerra, e ha sempre sentito intorno a sé la spessa cappa della propaganda. Dai romanzi di Lem fanno capolino libri e pubblicazioni scientifiche: come la rivista “Solariana”, che raccoglie gli studi dedicati al pianeta Solaris; o come i manuali di fisica e psicologia che in Ritorno dall’Universo Hal Bregg, dopo un viaggio durato più di un secolo, consulta per conoscere il destino dei viaggi spaziali nella terra del futuro e le tecniche che la civiltà umana ha messo a punto per estirpare gli impulsi aggressivi. Nell’opera di Lem circola una vasta mole di informazioni in cui cercare, spesso invano, spiegazioni, speranze o vie d’uscita. I libri appaiono espressioni dell’impotenza dell’uomo e della sua dignità, che gli viene dalla sua ricerca di conoscenza; sono il maestoso vicolo cieco in cui, con le migliori intenzioni, si è andato a cacciare. C’è, certo, anche un Lem più giocoso e cerebrale, che tuttavia non perde di vista la storia – anzi, l’attualità –: nelle recensioni immaginarie di Vuoto assoluto, Lem – attento alle dinamiche e del consumo letterario e amante di Borges – si prende gioco di vari stili letterari e della loro deriva commerciale.
Si è spesso detto che i romanzi di Lem sono più che fantascienza: un po’ come dire che l’Amleto sarebbe più che una tragedia elisabettiana e l’Odissea più che un poema epico. In realtà Lem sfrutta pienamente le potenzialità del modo fantascientifico. Parlo di “modo” perché l’idea di “genere” è, in questo caso, riduttiva. Nelle sue espressioni più sofisticate, la fantascienza è affine alla satira, all’utopia e al romanzo filosofico; ed è al tempo stresso capace di inglobare molti altri generi, registri o modi. Esiste poesia fantascientifica, fantascienza introspettiva, fantascienza lirica e fantascienza filosofica, oltre che fantascienza politica: i primi scrittori a parlare seriamente di ecologia e a superare le concezioni tradizionali dei generi sessuali sono stati i romanzieri di fantascienza. La scrittura fantascientifica può essere tra le più impegnate, socialmente e intellettualmente: è del resto molto amata dai teorici marxisti, anche se è stata praticata da romanzieri delle più diverse inclinazioni. Ma non ha la rigidità di un sistema; porta alla luce aspetti, presenti o embrionali, della nostra esperienza, indicando problemi e immaginando alternative. Allargando crepe nel presente, cerca germi di speranza; punta a costruire mondi autosufficienti che esplorano sviluppi possibili del contesto in cui ci muoviamo. E lo fa non per dire l’ultima parola, ma per abituarci a pensare il presente e, con maggior precisione, cercare il futuro. Anche attraverso lo stile: addentrarsi nella descrizione di mondi che non esistono ma che sono legati alla realtà da una mutevole rete di corrispondenze è forse il primo passo per imparare a descrivere e definire il nostro, per calibrare il rapporto tra il linguaggio e le cose, per sfuggire a un’atrofia delle percezioni e della coscienza.
Nella narrativa di Lem tutto questo non preclude il racconto, partecipe e introspettivo, delle vite private, tratto distintivo dei romanzi moderni. I suoi personaggi non sono certo figurine stilizzate. Lem parla di emozioni, che pulsano nel vuoto dell’universo o tra i segni enigmatici di intelligenze aliene, con le quali finiscono a volte con l’entrare in risonanza – i simulacri viventi prodotti dall’oceano del pianeta Solaris danno forma ai rimorsi e ai dolori degli scienziati terrestri. Oppure si sofferma sulla malinconia e lo smarrimento di chi si spinge lontano, nello spazio e nel tempo. In Ritorno dall’universo, Hal Bregg si ritrova in una Terra futura dove regnano la pace e l’abbondanza, dove gli edifici e le suppellettili si modellano sugli individui, dove a lavorare sono le macchine, e ha nostalgia per le imperfezioni del suo tempo, che possono ancora avere qualcosa da insegnare. In questa come in molte altre opere di Lem le vicende individuali si inseriscono in una visione della società, della natura e del cosmo; il racconto dei sentimenti fa tutt’uno con il racconto delle idee.
Da questo punto di vista, la “fantascienza” di Lem non è distante dai grandi romanzi ottocenteschi, in cui le parole dei singoli riverberavano fedi politiche, dottrine filosofiche, i progetti o le grandi illusioni dell’ideologia. Analista accorato della cultura di massa e fine teorico dei meccanismi letterari – come si vede nei suoi saggi raccolti in Micromondi – Lem non avrebbe rifiutato il paragone. Non nutriva alcuna ostilità per il realismo, benché non lo considerasse in grado di cogliere i germi del futuro. Nella fantascienza, infatti, Lem ha visto un più efficace mezzo di esplorazione, che non si limita a descrivere problemi già emersi, ma cerca di individuarne di nuovi. Si riconosceva forse nelle parole pronunciate da uno dei personaggi di Ritorno dall’Universo in una conversazione fatidica: “L’esplorazione delle stelle. Pensi forse che non ci saremmo andati, se le stelle non fossero esistite?”