di Andrea Cortellessa
[Ricorre oggi il centenario della fine della Grande Guerra. Lo ricordiamo riproducendo parte della postfazione, Col senno di poi, aggiunta da Andrea Cortellessa al suo primo libro, Le notti chiare erano tutte un’alba. Antologia di poeti italiani nella Prima guerra mondiale, pubblicato nel 1998 da Bruno Mondadori con una prefazione del maggior storico italiano dell’avvenimento, Mario Isnenghi. Lo scorso giugno ne è uscita da Bompiani (pp. 789, € 22) una nuova edizione accresciuta, con l’aggiunta di sette autori (fra i quali Franco Buffoni e Fabio Pusterla, che si aggiungono ad Andrea Zanzotto nell’ultimo capitolo, La guerra postuma, e portano il totale dei poeti antologizzati a 67). Nella nuova edizione non figura più la prefazione di Isnenghi, per i motivi spiegati nella postfazione; ma è incluso un ampio schedario, intitolato Foglio matricolare, che fornisce per ciascun autore le informazioni biobibliografiche di base e, soprattutto, riporta i dati sensibili del suo effettivo curriculum militare].
Il dono di riattizzare nel passato la scintilla della speranza è presente solo in quello storico che è compenetrato dall’idea che neppure i morti saranno al sicuro dal nemico, se vince. E questo nemico non mai smesso di vincere.
Walter Benjamin
Non si può raccontare il passato, senza parteciparvi con tutto l’universo presente. La stessa ora non ritorna mai, nel fiume del tempo. Nessuno può raccontare. Nessuno sa. Quelli che torneranno viventi, anneriti e storditi dai lunghi mesi di guerra, ne sapranno meno di quelli che non tornano, che giacciono sotto la sabbia.
Renato Serra
La guerra insomma era tutto quello che non si capiva.
Louis-Ferdinand Céline
Ironie delle sorti
Un centenario che dura da quattro anni. E continuerà, implacabile, sino alla fine di questo 2018: così ‘doppiando’, nel nuovo secolo, la proverbiale interminabilità, in quello precedente, dell’evento cui si riferisce. In un tempo come il nostro, del resto, l’infotainment della cultura-spettacolo si nutre di ricorrenze ben più improbabili. Eppure la ‘rima’ fra due tempi diversi, che appunto un anniversario dovrebbe istituire[1], non appare in questo caso gratuita. Se la generazione che attraversò la Grande Guerra fece esperienza della fine di un mondo (“il mondo di ieri”, nelle parole di Stefan Zweig), anche a noi pare si stia esaurendo, in questo momento, il tempo iniziato allora. Sicché è nelle inquietudini di quel tempo che possono specchiarsi quelle, così diverse, del nostro.
Per dirla con un uomo d’allora, T.S. Eliot, il “secolo breve”, come l’ha definito Eric Hobsbawm, è iniziato insomma con un bang – Sarajevo, 28 giugno 1914: Due colpi di pistola, dieci milioni di morti, la fine di un mondo, per dirla col titolo a effetto di un’ottima sintesi storiografica[2] – e si conclude con un whimper. Intanto i molti bang delle micro-guerre a frammentazione che punteggiano il nostro presente – guerre asimmetriche e anesteticamente invisibilizzate, ma a sempre meno bassa intensità – a partire dall’11 settembre 2001 sempre più ci si avvicinano, sebbene attutiti da una coltre di nebbia mediatica, dai fumi ideologici che quei colpi strumentalizzano in ogni modo.
Bisognerà però precisare, per quanto possibile, in quale senso – in quali sensi, anzi – con quel bang sia iniziato il tempo nel quale abbiamo condotto, da allora, le nostre esistenze. In quale senso, cioè, non possiamo non dirci anche noi, come fece una volta Amelia Rosselli, “figli della guerra”[3]. Il titolo di un libro recente di Angelo Ventrone, Grande guerra e Novecento[4], ribadisce un assunto per me lampante sin dal primo momento in cui – ormai un quarto di secolo fa – ho cominciato a studiare questo repertorio. E cioè che quel titolo vale la pena rideclinarlo, con variazione minima ma decisiva, Grande guerra è Novecento. Se è vero, come ha sostenuto Alain Badiou nel suo libro che proprio al Secolo s’intitola, che il Novecento è stato “il secolo della guerra”, non è tanto per la criminale catastroficità dei conflitti che lo hanno spezzato in due quanto perché si è posto, da un certo momento in avanti e da allora in poi definitivamente, sotto il paradigma della guerra[5]. Lo dice già negli anni Cinquanta Ingeborg Bachmann, coi versi spesso citati della poesia Tutti i giorni: “La guerra non viene più dichiarata, / ma proseguita. L’inaudito / è divenuto quotidiano”[6]; e nel 1963 lo ribadisce Mordo Nahum, il Greco della Tregua di Primo Levi: “Guerra è sempre”[7]. Tanto tempo dopo lo ripete Valerio Magrelli, nel definire Guace – né pace né guerra, quindi, ma un’oscena commistione delle due – la condizione contemporanea: “una stagnazione della vita / infestata di morte, / […] una effervescenza della morte / inquinata di vita”[8]. Ma già il maggior autore di quel repertorio ricchissimo che è la nostra poesia di guerra, Clemente Rebora, chiama “vitamorte”[9] il frutto avvelenato, lo strange fruit del paesaggio violentato, della vegetazione deformata dal conflitto di allora.
Proprio la confusione, la tendenziale indistinzione di vita e morte è conseguenza dello “stato di eccezione” che nello spazio politico europeo introduce la Grande Guerra – ha detto in pagine ormai classiche di Homo sacer Giorgio Agamben. La sua idea del 1995, per cui “ciò che è avvenuto e che sta ancora avvenendo sotto i nostri occhi è che lo spazio ‘giuridicamente vuoto’ dello stato di eccezione […] tende ormai ovunque a coincidere con l’ordinamento normale, nel quale tutto diventa così nuovamente possibile”[10] a più di vent’anni di distanza non ha perso attualità, anzi. È per questa via, prosegue Agamben, che l’umanità ha conosciuto la dimensione biopolitica oggi dominante: con ciò intendendo, sulle orme dei corsi tenuti alla fine degli anni Settanta da Michel Foucault al Collège de France[11], l’“implicazione crescente della vita naturale dell’uomo nei meccanismi e nei calcoli del potere”[12]. Resto insomma convinto che sia la Zona di Guerra il laboratorio in cui si elabora il paradigma che porterà, nel conflitto successivo, ai campi di sterminio[13].
Se è difficile insomma negare quanto detto da Papa Francesco il 13 settembre 2014 alla simbolica inaugurazione di questo nostro interminabile centenario, commemorando al sacrario di Redipuglia l’“inutile strage” di un secolo fa – quando ha definito quella in corso nel nostro tempo una “terza guerra mondiale combattuta ‘a pezzi’, con crimini, massacri, distruzioni”[14] – è perché proprio in quel 1914 s’è affermato il paradigma della guerra di cui parla Badiou. Un ciclo storico, cioè, che a differenza di altri fenomeni iniziati allora non pare in alcun modo, oggi, avviato a conclusione: quello in virtù del quale, per la prima volta nella storia umana, non è più possibile distinguere fra militari e civili, fra zona di guerra e retrovie, e in definitiva fra tempo di guerra e tempo di pace. […]
Le Notti di pace occidentale di Antonella Anedda, o la Vita in tempo di pace di Francesco Pecoraro – per citare due titoli eminenti, rispettivamente della nostra poesia e della nostra narrativa di oggi[15] – non possono essere, allora, che titoli ironici. […]
Testimoni involontari
Giunti a questo tornante, non si potrà evitare una riflessione di carattere metodologico. (E si perdoni se, in quanto segue, entra più del lecito un quanto di memoria personale.) Quando nel 1992 discutevo alla “Sapienza” la mia tesi di laurea sulla guerra di Gadda, eravamo alla fine di un ciclo storiografico esaltante, che aveva del tutto decostruito la precedente interpretazione – nella quale erano in sostanza concordi idealismo liberale, bellicismo fascista e marxismo idealisticizzato – della Grande Guerra come ultimo, glorioso capitolo del Risorgimento. Un’interpretazione, questa, ‘ufficialmente’ vigente sino agli anni Sessanta; e che istituiva una continuità anzitutto retorica, linguistica, fra la mitologia patriottica dell’Ottocento – quella di cui più di recente Alberto Mario Banti ci ha mostrato la natura a sua volta profondamente sessista, razzista, in una parola già biopoliticheggiante[16] – e quella fascistoide, e poi fascista senz’altro, delle jettatorie “urne inesauste” che spesseggiano in d’Annunzio e dintorni. Mitologie entrambe prodotte, del resto, dalla “classe dei colti”[17]: da quegli intellettuali ideologizzati, cioè, che alla metà dell’Ottocento come all’inizio del secolo seguente, rappresentavano la totalità dei graduati delle forze armate.
Fra anni Settanta e Novanta, a questa interpretazione diciamo ‘classica’ (e classista) – che poneva in primo piano il consenso alla guerra di chi d’altronde ideologicamente se ne era reso responsabile (la minoranza rumorosissima degli interventisti, cioè) – se ne era dunque avvicendata un’altra, alla prima diametralmente antitetica, che in evidenza poneva, di contro, il dissenso a quella stessa guerra: di chi s’era ben guardato dal volerla, cioè, in quanto non solo non ne condivideva ma neppure ne comprendeva i presupposti ideologici (la maggioranza silenziosa dei coscritti, per grandissima parte provenienti dalle campagne). Un’importante stagione di scavi, ‘figlia del Sessantotto’ non solo in senso ideologico, ma proprio metodologico: rispondevano infatti a un’esigenza archeologica, in senso foucaultiano, quegli studi e quelle riscoperte che finalmente disseppellivano la scrittura dei soldati semplici e dei loro famigliari; voci di illetterati, il più delle volte semialfabetizzati, voci flebili quanto coraggiose che – col loro provenire dagli strati più ‘bassi’ del ‘popolo in armi’ – raccontavano della guerra una verità non mediata, ‘scandalosa’ in quanto non compromessa dai filtri della tradizione letteraria[18]. […]
Facile contrapporre l’autenticità di queste testimonianze dirette, e spesso terribili, alle tante e tante pagine, di contro così scivolose nella loro ambiguità, che durante e dopo la guerra vengono pubblicate dagli intellettuali, cioè dagli ufficiali: i quali, tutti più o meno accesi interventisti al tempo del “maggio radioso”, anche nel bel mezzo della tragedia che a loro volta li sconquassa (e in molti casi li spazzerà via definitivamente), non riescono a dismettere del tutto la propria ideologia. Costretti a chiudere gli occhi di fronte a un orrore che in precedenza, come tutti del resto, mai neppure lontanamente avevano potuto immaginare. E che anche a distanza di tempo, tornando ossessivamente – come tutti coloro che vi erano stati coinvolti – su quella ferita, su quella faglia che ha suddiviso la loro esistenza in un prima e un dopo, quell’ideologia non potranno che ribadirla. […]
Elaborazione del mito
Miti, sì. Quelli di cui si nutrì il Fascismo, certo, ma che a lungo sopravvissero anche dopo il suo crollo (e tornano a circolare, oggi, in più d’un tentativo insidiosamente revisionista). Proprio Il mito della Grande Guerra s’intitolò, nel 1970, un’opera di svolta scritta da uno storico dalla formazione letteraria, Mario Isnenghi, che era stato all’avanguardia nella descritta stagione ‘archeologica’ (con un libro già straordinario, ma a differenza del successivo, purtroppo, finora mai riproposto: I vinti di Caporetto nella letteratura di guerra)[19] e che ora decideva di assumere in pieno quell’ideologia ‘intellettuale’, quel mito. Non per farlo proprio, però, bensì per rivoltarlo come un guanto: per mostrare come le sue contraddizioni, i suoi silenzi, le sue complicità, potessero essere chiamate a testimoniare di fronte alla storia[20]. Fu per me quella, ancorché tardiva rispetto alla prima pubblicazione, una lettura decisiva. Questo libro, Le notti chiare erano tutte un’alba, scritto quasi per intero nel 1995 ma pubblicato solo tre anni dopo (complici i soliti anniversari interminabili), veniva tutto da questa nuova rivoluzione copernicana: non a caso insistetti perché proprio Isnenghi lo battezzasse con una sua prefazione (il che, sebbene non ci fossimo mai incontrati, egli fece con grande generosità).
Dunque era stato uno storico, e non uno studioso di letteratura, a mostrare alla mia generazione, negli anni Novanta, che la letteratura di guerra poteva essere vista, e fatta funzionare, come una grande negazione freudiana: una rimozione collettiva che – cogli strumenti dell’analisi ideologica, ma anche quelli della filologia e della critica stilistica – finalmente era possibile aggirare, decostruire e insomma – per usare una bella parola allora tanto in voga, e che oggi pare divenuta impronunciabile – ‘demistificare’. I testi letterari potevano essere pienamente assunti, cioè, quali documenti ai fini della ricerca storica; ma, come tutti i documenti, dovevano essere sottoposti a critica. Diciamo a quello che, nel linguaggio dell’informazione di oggi, si chiama fact-checking. […]
Da questo cambiamento di paradigma, tuttavia, i testi letterari non sono solo piegati a un uso strumentale, ‘documentario’. Dalla critica degli storiografi essi ricevono una luce nuova, altresì, sulla propria natura specificamente letteraria. Cioè sulle strategie retoriche che, per produrre quella mistificazione, si sono trovati ad adottare. L’ambiguità evidentemente connaturata all’espressione letteraria le aveva consentito di mistificare la realtà, certo; ma, una volta decodificata e ‘demistificata’, consente a noi di proiettare – su quella realtà censurata – una luce inedita, spesso sorprendente e infine, a volte, ancora più crudele e rivelatoria di quella delle testimonianze dirette, ‘dal basso’. Come se, torturata sul tavolo della realtà storica, la letteratura finisse per gridarla: la verità. Una verità che si marchia, in questo modo, indelebile sulla memoria; e resta la più tormentosa per le nostre coscienze.
È quella che Antonio Gibelli ha definito autenticità involontaria (mutuando questa espressione da Louis Chevalier): quando “sembra farsi strada una sorta di intercambiabilità tra realtà e rappresentazione, tra letteratura e vita, tra immaginazione ed esperienza vissuta”[21]. L’autenticità involontaria che la letteratura e le altre arti sono in grado di offrirci non viene da esse mostrata a dispetto dei filtri retorici e stilistici che deformano e allontanano i fatti. Al contrario, essa risalta proprio attraverso quei filtri e quegli schermi: che i ‘fatti’ proiettano in una luce tragica, o sarcastica, comunque inedita e sorprendente per chi la osservi a posteriori. È solo col senno di poi, si capisce, che si può fare esperienza di tale autenticità involontaria. Ma a cosa si riduce, in fondo, qualsiasi ricerca storiografica se non appunto all’applicazione, alla cenere lieve del vissuto, del senno di poi?
Eppure è alle viste un nuovo cambiamento di rotta. Che vede di nuovo Isnenghi in prima linea. In tanti anni si può cambiare idea; e preoccupazioni di oggi fanno rivedere i giudizi di ieri (non è, anche questo, un senno di poi?). Già nel 1998 Isnenghi non era più quello del Mito della grande guerra. Me ne dovetti accorgere alla fine di quella prefazione per altri versi, per me, così lusinghiera. Dove lo storico riprendeva un passo della mia introduzione, che suonava come segue: “nessuna guerra – fortunatamente – potrà mai più veicolare le attese, le speranze, gli entusiasmi dell’agosto 1914, del maggio 1915. E quindi nessuna guerra sarà mai peggiore di quella: nessuna guerra potrà più contemplare, al proprio interno, un così colossale, collettivo disincanto”. E commentava: “Ecco. Quel ‘fortunatamente’ opposto alle illusioni – e sia pure quelle illusioni – mi lascia un velo di disagio. Qui i trent’anni di distanza si sentono. Si sente la fin di secolo, il clima rovinoso in cui questo libro è stato pensato e scritto”. Aggiungendo il velen d’un argomento destinato a svilupparsi, in forma sempre più esplicita, sino a oggi: “in realtà, chi lavora sui miti non si applica solo a ‘demistificarli’, deve anche intenderli, accettare di piegarsi e darsi ragione dei sentimenti più o meno illusori degli altri, così come li vissero – per incredibili o errati che oggi, a lui, possano apparire”[22].
Date queste premesse non può sorprendere che proprio lui, Isnenghi, sostenga oggi come non sia giusto guardare alle attese e ai miti di allora col senno di poi: cioè sotto il paradigma della Shoah e, in generale, nell’ottica del “pacifismo” da lui considerato “oggi egemone”[23] (egemone forse nelle retoriche del politically correct – oggi peraltro sempre più cinicamente contestate dalla ribalda brutalità di un’incorrectness dilagante in forme non meno stucchevoli, oltre che ben più pericolose – ma ampiamente disatteso, nei fatti, dalla concreta prassi politica e militare inaugurata da noi dal governo presieduto da Massimo D’Alema che nel 1999, in spregio all’articolo 11 della Costituzione, decise di bombardare la Serbia). Una pubblicazione che mostra l’acqua passata sotto i ponti, nell’ormai più di mezzo secolo di lavoro di Isnenghi, è stata promossa da Goffredo Fofi e va segnalata come tra le più intelligenti e utili, entro l’alluvione editoriale del quadriennio in corso. Passati remoti. 1914-1919 raccoglie insieme, saltando i passaggi intermedi, il primo e l’ultimo (allora) contributo di Isnenghi sulla Grande Guerra: il raro saggio del “remoto” 1965, sul “Fecondo inganno” degli interventisti democratici, e una conferenza del 2011 intitolata Dal 1914 al 1919: guerra voluta, guerra non voluta[24].
Proprio il tema del consenso alla guerra è infatti il più spinoso e ‘divisivo’, fra quelli dibattuti dagli storiografi. E ha ragione, Isnenghi, a sostenere come sin dall’inizio egli avesse indagato la mentalità di chi la guerra l’aveva voluta. Ma se nel 1965-70 prevaleva da parte sua, come detto, l’intento di ‘demistificare’ quelle ragioni e quei “miti”, a sedurlo ora sono le sirene dell’“irrazionale, le emozioni, i trascinamenti delle situazioni”. Il “caleidoscopio” dei “miti”, appunto: considerati “non meno rilevanti delle motivazioni politiche”. Non può non essere d’accordo, col senno di poi appunto, chi conosca i miti del 1922-43: che da quelli del 1914-15 discendono in linea diretta (e ciò valga a motivare la scelta sofferta, in questa sede, di rinunciare all’avallo prestigioso di un grande studioso al quale così tanto devo, ma col quale ormai i miei motivi di dissenso, per mutuare le formule ominose, decisamente prevalgono su quelli di consenso)[25]. […]
Eredità senza testamento
Ciò che l’esperienza e la storia insegnano è questo: che uomini e governi non hanno mai imparato nulla dalla storia, né mai agito in base a principi da essa edotti.
G.W.F. Hegel
La storia insegna, ma non ha scolari.
Antonio Gramsci
La storia non è magistra
di niente che ci riguardi.
Accorgersene non serve
a farla più vera e più giusta.
Eugenio Montale
[…] Se oggi ripenso al mio percorso, però, c’è un punto sul quale, a denti si può immaginare quanto stretti, sono costretto a dar ragione a Isnenghi. Cioè quando dice di dubitare “di una direzione di marcia collettiva prevalente nel senso dell’abbandono degli incanti e del prevalere dei disincanti”. È un punto chiave, che rappresenta per me – si perdoni la retorica – un vero tormento. Eravamo nel 1998 quando Isnenghi scriveva queste parole. A lui, s’è detto, premono adesso gli incanti che malgrado tutto, dice, la memoria della Grande Guerra continuò a esercitare su chi l’aveva fatta (si ricordi la “felicità” del Gadda del Castello di Udine). Contro di me si ritorce, viceversa, l’ulteriore senno di poi degli anni, catastrofici, che a quel ’98 sono seguiti. Il Kosovo, la Serbia bombardata dai nostri Tornado, e poi l’11 settembre e tutto quello che è seguito. Altro che disincanto: il cavaliere dell’Apocalisse è tornato, da allora, in grande stile.
Quello che ho capito, in questi anni, è che la fiducia che nutrivo a metà anni Novanta (“nessuna guerra – fortunatamente – potrà mai più veicolare le attese, le speranze, gli entusiasmi dell’agosto 1914, del maggio 1915”) era figlia di uno dei miti più duri a morire, dei più suggestivi e ingannevoli, che ci consegna l’educazione umanistica. E cioè che historia sia magistra vitæ. Se una cosa insegna, la letteratura di guerra, è che quella storia, invece, non ci ha insegnato proprio nulla. Lo ha detto molto meglio di quanto possa fare io, parafrasando Brecht, uno che di incanti e disincanti – a partire, nello specifico, da quelli di cui stiamo parlando – se ne intendeva, Umberto Saba: “Se la storia fosse maestra di vita, Napoleone non avrebbe vinto ad Austerlitz, né perduto a Waterloo. Molte cose si possono imparare dalla storia, ma non credo sia una maestra di vita. Perché allora il suo ultimo insegnamento sarebbe: ‘Beati i popoli che non hanno storia, o che ne hanno il meno possibile’”[26].
Chi ancor oggi metta piede alla Sapienza di Roma, come ho fatto io tante volte nella mia giovinezza, non può non restare colpito dalle citazioni da Cicerone incise a caratteri cubitali, e inconfondibilmente fascisti, sulla facciata marmorea del Palazzo del Rettorato di Marcello Piacentini: IN PRIMIS HOMINIS EST PROPRIA VERI INQUISITIO ATQUE INVESTIGATIO e DOCTRINA EADEM VIDETUR ET RECTE FACIENDI ET BENE DICENDI MAGISTRA[27]. Quel set metafisico prevede altresì, però, il memento rappresentato dalla Minerva di Arturo Martini, la Dea-Guerriera che il regime vi collocò nel 1935. Non so se viga ancora, fra quelli di oggi, la superstizione che a noi studenti di allora vietava di guardarla negli occhi, quella statua, prima di affrontare un esame. Dipendeva dal fatto che quell’immagine della sapienza, o forse solo della consapevolezza, guarda fisso davanti a sé cogli occhi sbarrati: proprio come quelli dell’Angelus Novus di Paul Klee che nel 1940 commenterà Walter Benjamin nella celebre nona tesi Sul concetto di storia [28]. […]
Ecco, anche quello dell’historia magistra vitæ è un mito: il più infingardo, il più traditore. È vero proprio il contrario; se appunto nella ripetizione, nella coazione a ripetere, si tocca con mano l’assurdo della guerra: come mostra esemplarmente La paura di De Roberto, che racconta proprio la cieca implacabilità di un ordine reiterato anche dopo che il primo soldato inviato in avanscoperta è stato freddato dal cecchino; e poi ancora, e ancora, e ancora una volta. L’aneddoto tragico riportato da De Roberto non fa che replicare in scala l’efferatezza omicida della dottrina dell’assalto frontale di Cadorna: che condusse il “popolo in armi”, per undici volte dal giugno del 1915 all’agosto del 1917, a sacrificarsi a decine di migliaia, esponendo i petti eroici alle fredde e anonime, ma estremamente efficienti, mitragliatrici avversarie. Lo dice con umiliante chiarezza, in definitiva, il fatto che dopo una guerra – e, come dimostra quanto avvenne dopo la Grande Guerra, il più delle volte in conseguenza di una guerra – se ne fa sempre un’altra. Parlano chiaro i versi di Brecht dai quali la citata mostra del MART ha preso il titolo: “La guerra che verrà / non è la prima. Prima / ci sono state altre guerre. / Alla fine dell’ultima / c’erano vincitori e vinti. / Fra i vinti la povera gente / faceva la fame. Fra i vincitori / faceva la fame la povera gente / egualmente”[29].
All’insensatezza della vita – non parliamo della Storia – l’umanità cerca sempre, disperatamente, di porre rimedio: costruendo percorsi di senso più o meno verosimili, narrazioni capaci di illuderci che la vita, in fondo, un senso ce l’abbia. Alla cosa più insensata di tutte – la guerra, appunto – il risarcimento che chiediamo è che essa almeno ci lasci un qualche insegnamento. Ma la cosa più vera l’ha scritta Piero Jahier: “non dire neanche che è una lezione. / La distruzione non è una lezione. / Muoiono i migliori, muoiono i soli che / potessero approfittare”[30].
Nulla si può imparare dalla guerra perché nulla, di essa, si può realmente insegnare. Quelli che hanno ricevuto il suo insegnamento, coloro che dovrebbero trasmettercelo, sono – ci dice Jahier – quelli che non possono più parlare: per la più semplice, la più tragica delle ragioni. Come scrivevo già vent’anni fa, poche opere letterarie condensano i problemi che stiamo discutendo quanto un film realizzato da Abel Gance quando la guerra non era ancora terminata (e uscito in due differenti versioni nel 1919 e nel 1938), Per la patria (J’accuse): il poeta-soldato Jean Diaz – che guida verso le retrovie un’armata di spettri risorti dal campo di battaglia, col fine di ammonire chi è rimasto a casa sulla vera natura della guerra – non viene ascoltato dai propri stessi famigliari; a casa trova una copia del suo libro di poesie e, sopraffatto dal disgusto, muore una seconda volta[31]. L’impossibilità di trasmettere l’esperienza vissuta, al ritorno dal conflitto, è stata espressa da Benjamin in un memorabile (e infatti citatissimo) passo del suo saggio sul Narratore (“Non si era visto, alla fine della guerra, che la gente tornava dal fronte ammutolita, non più ricca, ma più povera di esperienza comunicabile?”) che, nel meno citato prosieguo, spiega come proprio l’incommensurabilità spaziale tra fronte e retrovie, correlata con quella temporale fra il prima e il dopo, avesse isolato e infine ammutolito il reduce, privandolo dell’ascolto per lui vitale: “mai esperienze furono più radicalmente smentite di quelle strategiche dalla guerra di posizione, di quelle economiche dall’inflazione, di quelle fisiche dalla guerra dei materiali, di quelle morali dai detentori del potere. Una generazione che era ancora andata a scuola col tram a cavalli, si trovava, sotto il cielo aperto, in un paesaggio in cui nulla era rimasto immutato fuorché le nuvole, e sotto di esse, in un campo magnetico di correnti ed esplosioni micidiali, il minuto e fragile corpo dell’uomo”[32].
Quello di Gance è un racconto topico, dunque. L’espressione più icastica di quel terrore di non trovare ascolto che – al ritorno dalla guerra seguente, ancora più orribile – perseguiterà Primo Levi sino alla sua tragica fine. Levi lo ricollegava con insistenza alla versione fondativa del mito come l’aveva raccontata un altro poeta, Samuel T. Coleridge, nella sua Ballata del vecchio marinaio datata 1797. […] Se il Vecchio Marinaio fa una fatica tremenda a farsi ascoltare, è perché chi viene chiamato a seguirlo percepisce subito, prima ancora del racconto, la sua natura di spettro, di – alla lettera – revênant. I vivi sono turbati dalle sue parole perché capiscono che esse vengono dal regno dei morti: da quel carnaio-fortezza al quale egli, in realtà, continua ad appartenere. E al quale sa di dovere prima o poi fare ritorno. La “vita-in-morte” del Marinaio – del reduce – è il marchio di questa differenza insuperabile: di quest’ombra della morte, di quest’intrinseca consanguineità coi morti che ai vivi lo rende intollerabile. Egli per loro è alla lettera incomprensibile, irriducibilmente altro. In questo la sua natura sospesa, liminare, davvero assomiglia alla vitamorte che per Rebora, come abbiamo visto, è il prodotto – osceno – della zona di guerra: della zona morta.
Ed è infatti Rebora ad aver messo in versi la più tormentosa immagine dei morti-in-vita che dal fronte tornavano ammutoliti. È Voce di vedetta morta il punto estremo, intollerabile, della nostra poesia di guerra: un morto-che-parla (“un corpo in poltiglia / con crespe di faccia, affiorante / sul lezzo dell’aria sbranata”) si rivolge al commilitone che, a differenza di lui, tornerà a casa. E gli spiega che è inutile tentare di raccontare tutto questo, “a chi ignora”; impossibile cercare di trasmettere “la cosa” – la cosa oscena che è la guerra – laddove, invece, “l’uomo / e la vita s’intendono ancora”:
[…] se ritorni
tu uomo, di guerra
a chi ignora non dire;
non dire la cosa, ove l’uomo
e la vita s’intendono ancora.
Alla “donna” (sineddoche del mondo di prima, escluso dalla piega mortifera della zona di guerra), “se tornare potrà”, dovrà dire invece, anzi “soffiare” come uno spettro,
che nulla del mondo
redimerà ciò ch’è perso
di noi, i putrefatti di qui;
stringile il cuore a strozzarla:
e se t’ama, lo capirai nella vita
più tardi, o giammai.[33]
[…] Il centenario in corso è stato segnato da un altro film, Torneranno i prati di Ermanno Olmi. Un film su commissione, per il centenario appunto, ma che ha incontrato l’ispirazione dell’autore (i racconti della Grande Guerra di suo padre gli avevano già ispirato, nel 1969, I recuperanti nonché, magari, il capolavoro Il mestiere delle armi, dedicato nel 2001 alle guerre di ventura del Cinquecento), il quale in questa occasione s’è ispirato alla Paura di De Roberto. Nell’ultima scena una parte dei commilitoni si incammina nell’oceano di neve, dopo che anche l’ottusità dei comandi ha dovuto prendere atto che la loro posizione è indifendibile; gli altri si dedicano all’ufficio pietoso di dare sepoltura ai compagni morti. Ma come morti sono loro stessi: dall’inizio alla fine del film rappresentati sotto il livello del terreno, in attesa della granata che pioverà dall’alto dei cieli o della mina che spunterà dalle viscere della terra. Le prime parole suonano appunto “siamo sepolti” (sotto la neve, certo). Quando dicono “torneranno i prati” – alla fine della guerra, s’intende, una volta che si placherà la tempesta tecnologica che ha violentato la natura, simboleggiata dalla coltre di neve che ora quei prati ricopre – è per aggiungere: “e nessuno si ricorderà di ciò che è accaduto”.
Ecco. Forse l’unica cosa che davvero ci insegna la letteratura di guerra è che, quando quei soldati dicevano questo, avevano torto. Quanto meno sta a noi dimostrarglielo, oggi.
[1] Rinvio a Cosa significa resistere, cosa significa ricordare, “doppiozero”, 25 aprile 2012: http://www.doppiozero.com/materiali/speciali/25-aprile-cosa-significa-resistere-cosa-significa-ricordare.
[2] Emilio Gentile, Due colpi di pistola, dieci milioni di morti, la fine di un mondo, Roma-Bari, Laterza, 2014.
[3] Amelia Rosselli, “Ma la logica è il cibo degli artisti”, intervista di Paola Zacometti [1990]; poi, col titolo Figli della guerra, in Ead., È vostra la vita che ho perso. Conversazioni e interviste, 1964-1995, a cura di Monica Venturini e Silvia De March, prefazione di Laura Barile, Firenze, fuoriformato Le Lettere, 2010, p. 117. Rinvio a La figlia della guerra, in “Se / dalle tue labbra uscisse la verità”. Amelia Rosselli a dieci anni dalla scomparsa, atti del Convegno del Circolo Rosselli, Firenze, 8-9 giugno 2006, sezione monografica dei “Quaderni del Circolo Rosselli”, XVII, 2007, 3, pp. 37-44.
[4] Cfr. Angelo Ventrone, Grande guerra e Novecento. La storia che ha cambiato il mondo, Roma, Donzelli, 2015.
[5] Alain Badiou, Il secolo [2005], traduzione di Vera Verdiani, Milano, Feltrinelli, 2006, p. 47. Non troppo diverse le conclusioni, sotto tutt’altro cielo ideologico, di Tony Judt, Postwar. La nostra storia 1945-2005 [2005], traduzione di Aldo Piccato [2007], Roma-Bari, Laterza, 2017.
[6] Ingeborg Bachmann, Tutti i giorni, in Ead., Il tempo dilazionato [1953], in Ead., Poesie, a cura di Maria Teresa Mandalari, Parma, Guanda, 1978, p. 31.
[7] Primo Levi, La tregua, Torino, Einaudi, 1963; ora in Id., Opere complete, a cura di Marco Belpoliti, introduzione di Daniele Del Giudice, Torino, Einaudi, 2016, vol. I, p. 340.
[8] Valerio Magrelli, La guace, in Id., Disturbi del sistema binario, Torino, Einaudi, 2006, p. 30.
[9] Clemente Rebora, Prima (datata “principio 1915”), in “La Riviera Ligure”, 1 luglio 1916; ora in Id., Poesie, prose e traduzioni, a cura di Adele Dei con la collaborazione di Paolo Maccari, Milano, Mondadori, 2015, p. 166.
[10] Giorgio Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino, Einaudi, 1995, p. 44.
[11] Cfr. Michel Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France, 1978-1979 [2004], traduzione di Mauro Bertani e Valeria Zini, Milano, Feltrinelli, 2005.
[12] Giorgio Agamben, Homo sacer, cit., pp. 131-2. Nel successivo Stato di eccezione (Torino, Bollati Boringhieri, 2003, p. 17) l’autore ribadisce che “la prima guerra mondiale – e gli anni seguenti – appaiono in questa prospettiva come il laboratorio in cui sono stati sperimentati e messi a punto i meccanismi e i dispositivi funzionali dello stato di eccezione come paradigma di governo”. […] Quest’ultimo saggio di Agamben risponde dichiaratamente al Patriot Act fatto approvare al congresso degli Stati Uniti da George W. Bush all’indomani dell’11 settembre 2001 (e tuttora vigente, dopo le proroghe decise nel 2005 e, da parte della successiva amministrazione Obama, nel 2011 e nel 2015). Lo stesso si può dire, ovviamente, dello stato d’emergenza proclamato in Francia da François Hollande il 16 novembre 2015.
[13] Si vedano almeno l’introduzione di Antonio Gibelli, Grande Guerra e storia del Novecento, a Stéphane Audoin-Rouzeau-Annette Becker, La violenza, la crociata, il lutto. La Grande Guerra e la storia del Novecento [2000], Torino, Einaudi, 2002 (ora in Id., Il colpo di tuono. Pensare la Grande Guerra oggi, Roma, manifestolibri, 2015, pp. 209-30); Angelo Ventrone, La seduzione totalitaria. Guerra, modernità, violenza politica (1914-1918), Roma, Donzelli, 2003; Giovanna Procacci, Alcune note sulle eredità della prima guerra mondiale, in Pensare la contemporaneità. Studi di storia per Mariuccia Salvati, a cura di Paolo Capuzzo, Chiara Giorgi, Manuela Martini e Carlotta Sorba, Roma, Viella, 2011, pp. 49-66.
[14] Cfr. https://www.youtube.com/watch?v=asw_UYxZns8.
[15] Rispettivamente: Roma, Donzelli, 1999; Milano, Ponte alle Grazie, 2013.
[16] Cfr. Alberto Mario Banti, L’onore della nazione. Identità sessuale e violenza nel nazionalismo europeo dal XVIII secolo alla grande guerra, Torino, Einaudi, 2005; Id., Sublime madre nostra. La nazione italiana dal Risorgimento al fascismo, Roma-Bari, Laterza, 2011.
[17] Era questo il titolo di un lavoro assai polemico, e in molti sensi esemplare, del periodo successivo: Lucia Strappini, Claudia Micocci e Alberto Abruzzese, La classe dei colti. Intellettuali e società nel primo Novecento italiano, Bari, Laterza, 1970. Il paradigma ideologico è quello poi sistematizzato dal caposcuola di questa generazione di critici, Alberto Asor Rosa, nel vasto panorama dal titolo La cultura, in Storia d’Italia, vol. IV, Dall’Unità ad oggi, Torino, Einaudi, 1975, t. II, pp. 821-1664.
[18] Archetipo di queste ricerche, sebbene volto a un differente impiego dei materiali, il grande libro di Leo Spitzer, Lettere di prigionieri di guerra italiani. 1915-1918 [1921], traduzione di Renato Solmi, a cura di Lorenzo Renzi, Torino, Bollati Boringhieri, 1976 (riproposto nel 2016 in una nuova, splendida edizione dal Saggiatore, con interventi di Lorenzo Renzi, Antonio Gibelli, Luca Morlino, Silvia Albesano e Laura Vanelli; cfr. Enrico Testa, Leo Spitzer, scrivere di espedienti, in “alfabeta2”, 5 giugno 2016, https://www.alfabeta2.it/2016/06/05/leo-spitzer-scrivere-espedienti/). Su questo repertorio si veda la sintesi di Antonio Gibelli, La letteratura degli illetterati, in Atlante della letteratura italiana diretto da Sergio Luzzatto e Gabriele Pedullà, vol. III, Dal Romanticismo a oggi, a cura di Domenico Scarpa, Torino, Einaudi, 2012, pp. 472-6. Preziose – nel panorama editoriale recente – l’antologia di Quinto Antonelli, Storia intima della grande guerra. Lettere, diari e memorie dei soldati al fronte, Roma, Donzelli, 2014, e le riflessioni di Antonio Gibelli, La guerra grande. Storie di gente comune, Roma-Bari, Laterza, 2014.
[19] Padova, Marsilio, 1967.
[20] Lo spiega lo stesso Isnenghi a posteriori, nel 1989, nella Postfazione alla terza edizione del Mito della Grande Guerra (che cambia editore, passando da Laterza al Mulino, e perde il sottotitolo del 1970, Da Marinetti a Malaparte): sono le pagine 395 sgg. nella settima edizione, 2014. Quello stesso anno si chiedeva ironico, riferendosi alla stagione di scavi e ritrovamenti degli “Scritti e voci di popolo”, di cui sopra: “alla fin fine, eseguito il rastrellamento più ampio, esercitato il più strenuo scrupolo filologico […], come resistere al sospetto che… il Giornale di guerra e di prigionia di Gadda sia meglio? Meglio per l’estetica, meglio per la documentazione, meglio per la rappresentazione e l’autorappresentazione, dall’alto e dal basso” (Le guerre degli italiani. Parole, immagini, ricordi 1848-1945, Milano, Mondadori, 1989, p. 299). Una frase en passant questa, quasi una voce dal sen fuggita, che fu decisiva per la concezione della presente ricerca.
[21] Antonio Gibelli, L’officina della guerra. La grande guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Torino, Bollati Boringhieri, 1991; 20094, p. 73.
[22] Mario Isnenghi, Prefazione al volume a mia cura Le notti chiare erano tutte un’alba. Antologia dei poeti italiani nella Prima guerra mondiale, Milano, Bruno Mondadori, 1998, p. 5.
[23] Cfr. l’intervista concessa a Simonetta Fiori, Raccontare la Grande guerra. Isnenghi: “Non dobbiamo vergognarci di aver vinto”, in “la Repubblica”, 10 marzo 2014. E si veda ora Mario Isnenghi, Convertirsi alla guerra. Liquidazioni, mobilitazioni e abiure nell’Italia tra il 1914 e il 1918, Roma, Donzelli, 2015. […]
[24] Cfr. Mario Isnenghi, Passati remoti. 1914-1919, Roma, Edizioni dell’Asino, 2014.
[25] La ‘conversione’ di Isnenghi, in corso da tempo, è venuta a giorno nel peraltro prezioso volume da lui pubblicato con il grande storico militare Giorgio Rochat, La grande guerra 1914-1918, Scandicci, La Nuova Italia, 2000 (riproposto dal Mulino nel 2008 e nel 2014). […] Un’ampia riflessione sulle interpretazioni (e le appropriazioni ideologiche) è quella recente di Quinto Antonelli, Cento anni di Grande Guerra. Cerimonie, monumenti, memorie e contromemorie, Roma, Donzelli, 2018. Per una sintesi rapida ma equilibrata del dibattito anche internazionale si veda Alberto Mario Banti, La Grande Guerra, in Id., Le questioni dell’età contemporanea, Roma-Bari, Laterza, 2010, pp. 152-70.
[26] Umberto Saba, Storia maestra di vita [1950], in Id., Tutte le prose, a cura di Arrigo Stara, introduzione di Mario Lavagetto, Milano, Mondadori, 2001, p. 1030. Si tratta della risposta, pubblicata dal giornale con titolo redazionale, che Saba dà nella sua rubrica Italia domanda (in calce alla quale la sua firma era accompagnata ogni volta dalla qualifica “Poeta”) a un giovane lettore di “Epoca”, uno “studente liceale di Palermo” che aveva scritto: “Per tutto l’anno scolastico mi son sentito ripetere che ‘historia est magistra vitæ’. Questa massima, nell’era atomica, scusate, mi sbalordisce” (cfr. la nota di Stara a p. 1446).
[27] Rispettivamente De Officiis, I, 13, e De Oratore, III, 15.
[28] Cfr. Walter Benjamin, Sul concetto di storia [pubblicato postumo nel 1942], a cura di Gianfranco Bonola e Michele Ranchetti, Torino, Einaudi, 1997, p. 37.
[29] Bertolt Brecht, La guerra che verrà, in Id., Poesie di Svendborg [1939], sezione “Breviario tedesco”; in Id., Poesie e canzoni, a cura di Ruth Leiser e Franco Fortini, Torino, Einaudi, 1959, p. 258.
[30] Piero Jahier, Ma questa guerra, in Id., Con me e con gli alpini, Firenze, Libreria della Voce, 1919, p. 148 (ora in La guerra d’Europa 1914-1918 raccontata dai poeti, a cura di Andrea Amerio e Maria Pace Ottieri, Roma, nottetempo, 2014, p. 94; e infine qui sopra, nel capitolo La guerra-riflessione).
[31] Cfr. Jay M. Winter, Il lutto e la memoria. La grande guerra nella storia culturale europea [1995], traduzione di Nicola Rainò, Bologna, il Mulino, 1998, pp. 27-33; e si veda la discussione delle diverse versioni del film nell’eccellente saggio di Giuseppe Ghigi, Le ceneri del passato, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2014, pp. 24-5.
[32] Walter Benjamin, Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov [1936], in Id., Angelus Novus. Saggi e frammenti [1955], a cura di Renato Solmi, Torino, Einaudi, 1963, p. 248.
[33] Clemente Rebora, Voce di vedetta morta, “La Riviera Ligure”, 1 gennaio 1917; ora in Id., Poesie, prose e traduzioni, a cura di Adele Dei con la collaborazione di Paolo Maccari, Milano, Mondadori, 2015, p. 174 (e infine qui sopra, nel capitolo La guerra-follia).
[Immagine: Francesco Rosi, Uomini contro].
COL SENNO DI POI…..
MEMORIA E STORIA. L’Italia è in guerra anche oggi… Distruggono la scuola e preparano la guerra.
4 NOVEMBRE: IL GIORNO DELLA VITTORIA. MA CHI PAGO’ QUELLA GUERRA?! CANTEREMO?! Canteremo, se ne avremo voglia. Per quel che mi riguarda io canterò …. Una riflessione di Franco “Bifo” Berardi (2008) – e altri materiali …. http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=3680
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA – EPOCALE. — Col senno di poi. Tutti i disastri «irreparabili» e il senno di prima ( http://www.lavocedifiore.org/SPIP/forum.php3?id_article=3811&id_forum=3144419)
Federico La Sala
“ 16 maggio1995 – « 19 dicembre 1917 – Passeggiata al Summano, fotografie sui giornali: i nostri che si avviano alla trincea, ma non dice, la fotografia, le bestemmie e le ironie che escono dalla bocca dei soldati… tutto questo per il riso… ci vorrebbe una fonografia, non una fotografia, sui giornali! » (Ernesto Tomei, Diario di guerra) “.
“10 agosto 1914 – Ho ricevuto il corredo da recluta. Ho poche speranza di poter utilizzare le mie conoscenze tecniche.
Ho bisogno di moltissimo buonumore e filosofia per potermi orientare qui.
Oggi, quando mi sono svegliato, mi è sembrato di ritrovarmi in uno di quei sogni nei quali, improvvisamente ed assurdamente, ci si siede di nuovo tra i banchi di scuola.”
Ludwig Wittgenstein. Diari segreti, Bari Laterza, 2001
“ 6 maggio 1994 – « Ho avuto occasione di parlare con un soldato romagnolo del battaglione dove era tenente Renato Serra. I soldati lo supplicavano di continuo: “ Si abbassi, signor Tenente! “. Egli mai non volle. Fu colpito in fronte. La sua statura era alta: e quella fronte che non voleva abbassarsi contro l’inimico, ha come un valore di simbolo, per quanto come arte della guerra possa deplorarsi. » (Dice Luigi Ambrosini che dice Panzini (1915)) “.
“ 23 ottobre 1994 – « Latrine. Sono un capolavoro futurista: una lunga pozza rettangolare occupa metà tettoia; traversata un tempo da tanti diaframmi di legno che separavano l’uno dall’altro merdatore. Ora questi diaframmi furono adoperati per legna da ardere sulle stufe, e i culi cacano coram omnibus. Risparmio i dettagli della scena irritante. Ci sono quattro latrine ogni blocco, e ognuna e capace di venti ospiti contemporanei. » (Carlo Emilio Gadda, Giornale di guerra e di prigionia, 1916) “.
“ Mercoledì 14 maggio 1997 – « 21 aprile 1915 – La prigionia mi avrà liberato dai miei ” fumi ” di letterato. » (Jacques Rivière, Della sincerità verso se stesso) “.
“ 30 giugno 1994 – « Mercoledì 30 gennaio – Incontriamo nel ritorno un soldato, e dalla divisa non riusciamo a distinguere la nazionalità. Deve capirlo dai nostri sguardi perché ci guarda ridendo ed esclama: ” No austriaco, io ruski, io scappa ” . E via come un uccello attraverso i viottoli. » (Caterina Arrigoni, Diario, 1917) “.
POLITICA, FILOSOFIA, E MERAVIGLIA. Filologia e storia …
A) Quaderni 1914-1916: “L’Io è il mistero profondo”, “e non dell’io in senso psicologico”(L. Wittgenstein: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5215)
B) «Comando Supremo, 4 novembre 1918, ore 12 Bollettino di guerra n. 1268 * (La guerra contro l’Austria-Ungheria che, sotto l’alta guida di S.M. il ==Re, duce supremo==, l’Esercito Italiano, inferiore per numero e per mezzi, iniziò il 24 maggio 1915 e con fede incrollabile e tenace valore condusse ininterrotta ed asprissima per 41 mesi, è vinta: https://it.wikipedia.org/wiki/Bollettino_della_Vittoria)
C) La marcia su Roma: il colpo di stato di Vittorio Emanuele “Il 28 ottobre non è soltanto il giorno in cui ebbe inizio, nel 1922, la “Marcia su Roma” delle camicie nere, che si concluse con il colpo di Stato di Vittorio Emanuele III, che rifiutando di firmare il decreto di stato d’assedio emanato dal Governo Facta, e chiamando Benito Mussolini a Roma, con l’incarico di formare un nuovo Esecutivo pose fine alle libertà italiane, con una sorta di suicidio politico-istituzionale dello Stato liberale e di Casa Savoia (Angelo d’Orsi: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5889#forum3145707)
D) POLITICA, FILOSOFIA, E MERAVIGLIA (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=3515)
“«Sono anch’io del parere che è molto bello farsi trafiggere da una baionetta – disse Svejk – e che non è male buscarsi una palla in pancia e ancor meglio se una granata ti falcia e tu vedi le gambe e la pancia lontane da te e ti sembra strano morire prima che qualcuno possa darti una spiegazione». Quando Lukás gli annuncia che dovranno partire con un battaglione di linea: «Faccio rispettosamente notare, signor tenente, che non sto più in me dalla gioia – rispose il bravo soldato Svejk – sarà qualcosa di splendido quando cadremo entrambi per l’imperatore e la sua famiglia…»”
Angelo Maria Ripellino, Praga magica, Torino Einaudi, 1973. p 299
“ 25 gennaio 1994 – « Finalmente è sorto il sole: aliusque et idem. Mi fisso sui cartelloni, Cines, Cinéma, Lyda Borelli, Superdiva Francesca Bertini, Castagna, Ivan il terribile, Sciosciammocca, Dramma sensazionale spaventoso: questo popolo sente il dramma falso delle film e non sente quello vivo. » (Alfredo Panzini, Diario sentimentale della guerra. I giorni di Caporetto, 1917) “.
“ 10 gennaio 1990 – « Un libro che ha salvato un uomo – Un sott’ufficiale tedesco della Landwher nella Slesia, il quale si trova a combattere contro i russi, è debitore della sua vita alla circostanza che la palletta di shrapnel russo che gli passò lo zaino e la gamella poi rimase conficcata nel libro di preghiere che sua madre gli aveva dato prima della guerra. » (Dai giornali del 1914) “.
“ 17 ottobre 1994 – « Non nego che il sacrificio della vita sia gravissimo per tutti: che gravissimo appaia anche a me: ma l’uomo deve essere uomo e non coniglio: la paura della prima fucilata, della prima cannonata, del primo sangue, del primo morto, è una paura di tutti: ma la paura continua, incessante, logorante che fa stare Teresio, Ciampetti e Gazzuti rintanati nel buco come troie incinte, è roba che mi fa schifo. Bene: basta altrimenti passo la mattina a scrivere ingiurie al mio paese, dove viceversa il coraggio e l’eroismo non mancano. Ma il disordine c’è: quello c’è sempre, dovunque, presso tutti: oh! se c’è, e quale orrendo, logorante disordine! Esso è il mare di Sargassi per la nostra nave. CEG. 24-7-1916 » (Carlo Emilio Gadda, Giornale di guerra e di prigionia) “.
“Hans Karl – E poi ci fu quella trincea che ci seppellì, lei ne avrà sentito parlare.
Helene – Si, ne ho sentito parlare.
Hans Karl – E’ stato solo un momento, trenta secondi in tutto, ma da dentro se ne ha una misura differente. Per me è stata una vita intera che ho vissuto. E in questa vita, lei era mia moglie. Non è divertente?
Helene – Che fossi sua moglie?
Hans Karl – Ma non una moglie per il futuro. È questo il meraviglioso. Mia moglie e basta. ”
Hugo von Hofmannsthal, L’uomo difficile. Atto II Scena XIV, in Hugo von Hofmannsthal, Lustspiele, Fischer Verlag, Frankfurt, 1979, p. 406