di Silvana Borutti

 

1. Senso del luogo, luogo del senso

 

Immagine di Carlo Liggeri

 

Il chiasma che si legge sui bordi di questa elaborazione fotografica suggerisce una sinonimia nel significato delle due parole, “luogo” e “senso”, che porta a pensare a una vicinanza assoluta tra di esse.

Questa sinonimia vuole dire che il luogo non è puro contenitore materiale, terreno neutro di appoggio, fondo indifferente, ma è già da sempre significante, è già da sempre simboleggiato, è già senso. In altre parole, la sinonimia tra luogo e senso vuol dire che il luogo, cioè la terra, il fondo, si apre continuamente a un orizzonte di senso, cioè a un mondo.

 

È un tema che Heidegger sviluppa in un testo degli anni Trenta, L’origine dell’opera d’arte, riprendendo i concetti di Terra e di Vita della terra di Hölderlin. Heidegger scrive che, che pur essendo la Terra un fondo di materia, un campo di infinite possibilità vitali che tende a chiudersi, e che quindi non è mai completamente penetrato da noi e mai esaurito, la Terra è anche una forza che si apre, si trasfigura continuamente in un “Mondo” di senso. In altre parole, la Terra è lo sfondo su cui si edifica un mondo, e il Mondo è l’illuminazione in cui le cose si ordinano in un insieme significante.

Heidegger esemplifica richiamando la forza significante di un tempio, luogo per eccellenza.

Tempio di Segesta

 

Il Tempio trasforma la terra in un mondo:

 

Eretto sulla roccia, il tempio apre un mondo e lo riconduce, nello stesso tempo, alla Terra, che solo allora si rivela come suolo natale […] Stando lì eretto, il tempio conferisce alle cose il loro aspetto e agli uomini la visione di se stessi. (L’origine dell’opera d’arte, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 28)

 

In questo senso, tornando alla sinonimia tra luogo e senso, possiamo dire che non comprendiamo il luogo se non è investito dal senso, cioè dalla visione umana di sé.

 

2. Senso d’origine

 

Come interpretare l’investimento umano dei luoghi? Il filosofo Husserl, lo scrittore Nabokov, l’artista Anselm Kiefer proiettano sul concetto di luogo il significato dell’origine.

Nella Crisi delle scienze europee (1936), Husserl ci racconta una storia che ha a che fare con la nostra relazione con la Terra. Husserl parla dell’origine della geometria e di quello che è accaduto poi, con la matematizzazione della natura avvenuta nel Seicento ad opera delle scienze galileiane. La matematizzazione della natura, dice Husserl, porta all’oblio dell’Ursprungssinn, cioè del “senso d’origine”.

 

Intende: il senso d’origine perduto dalle scienze moderne è il contatto con la Terra, cioè la fondazione antropologica della misura nel mondo della vita (Lebenswelt). Prima di essere trascritta nel linguaggio ideale della matematica, la Geo-metria, la misura della terra, è un gesto dell’uomo, è il gesto inaugurale del rapporto dell’uomo con l’ambiente e con la terra. La misura del luogo, dice Husserl, è un atto antropologico originario, non ha niente di astratto e di ideale, è la vita e l’esperienza della mano che traccia. È il momento in cui l’uomo inscrive il suo tempo antropologico nello spazio, animando così la terra. Scrive Husserl:

 

La geometria delle idealità era stata procedura dall’agrimensura pratica, la quale non conosceva alcuna idealità. Ma questa operazione pre-geometrica [l’agrimensura pratica] aveva costituito il fondamento di senso della geometria […] [aveva costituito] l’originario conferimento di senso. […] Per il metodo geometrico ereditato queste operazioni non erano più effettive e viventi. (La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano 1961 p. 78)

Agrimensori romani al lavoro

 

Husserl parla del lavoro simbolico sul luogo che rende il luogo identitario, che lo umanizza.

Un luogo identitario, umanizzato, non è dunque un contenitore o uno spazio fisico; è piuttosto un luogo dell’anima. L’esiliato Nabokov dice meglio di tutti in che senso la patria è un luogo dell’anima. Nabokov ha perso il luogo natale, la Russia di San Pietroburgo, nel 1917, a 18 anni, ma non vorrà più tornarvi. Anni dopo, nel 1962, dichiara in un’intervista alla BBC:

 

Non ritornerò mai, semplicemente perché non ne ho motivo e tutta la Russia di cui necessito è sempre con me: la letteratura, la lingua e la mia infanzia russa.

(V. Nabokov, Strong Opinions, Vintage International, New York 1990, p. 9)

 

Vladimir Nabokov nel suo appartamento al Montreux Palace

 

(Osservo di sfuggita che il “non ritornerò mai” di Nabokov fa tornare alla mente la forza della doppia negazione di Foscolo in A Zacinto: Né più mai toccherò le sacre sponde. Il sonetto di Foscolo come la poesia del senso del luogo e della trasfigurazione del sacro luogo natale nel canto, nella vita simbolica della parola).

In esilio da anni, Nabokov sente comunque di aver con sé “tutto”, cioè la trasfigurazione, la traduzione del luogo della sua origine nella vita simbolica della parola. Ma sappiamo che questo ritorno simbolico al luogo della nascita alla parola è stato per lui una dura riconquista.

 

Arrivato negli Stati Uniti nel 1940, decide di scrivere in inglese; una decisione che nella postfazione a Lolita (1956) definirà “la mia tragedia privata”. Egli scrive in una poesia del 1939:

 

Chi liberamente ha lasciato la patria

È libero di urlare sulle cime per lei,

ora sono sceso nella valle

e tu non oserai avvicinarti.

Sono pronto a rimpiattarmi per sempre

E a vivere senza nome. Sono pronto,

per non sfiorarti neppure nei sogni,

a rinunciare a tutti i sogni;

a dissanguarmi, a mutilarmi,

a non toccare i libri prediletti,

a barattare con qualsiasi gergo

tutto ciò che posseggo – la mia lingua.

(citato in N. Beberova, Il corsivo è mio, Adelphi 1989)

 

Il verso finale di una poesia del 1945 sulla lingua e poesia russa parla di tradimento:

 

My love, forgive me this apostasy,

Amore mio, perdona questo tradimento.

(“An Evening of Russian Poetry”, The New Yorker, vol. 21, no 3, 1945)

 

E nella Postfazione a Lolita, scrive di aver barattato la propria lingua con “un gergo di seconda qualità”.

Solo con la scrittura della propria autobiografia, Nabokov arriva a dire e a comprendere in una lingua seconda la perdita della lingua materna, con una vera a propria “risignificazione a posteriori” del proprio passato (S. Argentieri, “Vladimir Nabokov, Un velo di carta sopra l’abisso”, in J. Amati Mehler, S. Argentieri e J. Canestri, La Babele dell’inconscio. Lingua madre e lingue straniere nella dimensione psicoanalitica, Raffaello Cortina, Milano, 2003). Nel 1951 pubblica Conclusive evidence, una versione inglese dell’autobiografia; nel 1954, la traduce in russo; nel 1967 pubblica la traduzione inglese ampliata e modificata della versione russa: Speak, memory (Parla, ricordo, Adelphi, Milano 2010). Traduzione e ritraduzione funzionano come un transfert delle lingue che fa emergere mondi di significato, che sarebbero diversamente stati silenti. Nabokov torna alla culla delle parole, al mondo simbolico russo che per lui è la tenuta di Vyra della sua infanzia dorata, circondata di fiumi, boschi e di un leggero profumo di betulle e di muschio umido; torna alle immagini sensuali e affettive di quel mondo e porta così a espressione il mondo preverbale dell’origine, che chiama significativamente “nicchia ecologica” (Parla, ricordo, p. 80): un segreto punto di raccolta dei significati, origine del senso, appunto.

 

Il senso del luogo restituito dalla forma della lingua, della scrittura, della creazione ci porta infine nella Germania sud occidentale, dove nasce nel 1945 l’artista Anselm Kiefer. Kiefer trascorre l’infanzia tra le macerie; non ha giocattoli, ma inventa un gioco: gioca costruendo case con pezzi di mattoni e detriti; trasforma così pietre in mondi. Potremmo dire che ha così inventato il gioco del costruire-abitare-pensare la propria identità.

Kiefer è stato privato dalla distruzione della guerra del suo luogo originario identitario; ma con il suo gioco, e con le sue creazioni artistiche, ha continuato a ricostruire simbolicamente il luogo dell’origine, con il gesto simbolico del “gettare le fondamenta”, e con i suoi molteplici significati (cfr. A. Kiefer, Notebooks, vol. 1, Seagull Books, 2015, p. 163).

 

In questi due quadri collegati, che si trovano alle pareti dell’installazione dei Sette palazzi celesti all’Hangar Bicocca, l’artista rappresenta un deserto con fenditure e cavità, su cui applica semi di girasole. Insegna così a guardare il deserto non come vuoto, informe, mancanza, ma come Terra nel senso di Heidegger: il deserto come il luogo dei possibili, come apertura che può accogliere mondi. Il deserto, e nel particolare la vita che vi sboccia.

Anselm Kiefer, Alchemie, 2012

Foto: Giulia Mauri © ArtsLife

 

Anselm Kiefer, Alchemie, 2012, particolare

Foto: Giulia Mauri © ArtsLife

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *