di Attilio Scuderi
La crisi pandemica dentro la quale ci troviamo ha reso ineludibile un’evidenza: il sistema della formazione, tutto, scuola e università, ha un unico obiettivo e soprattutto un destino comune. Diceva Leonardo Sciascia: “Tutti i nodi vengono al pettine. Quando c’è il pettine”. Il pettine ce lo presenta la storia, a volte, anche per un paese e un tempo, come i nostri, sempre più incapaci di riflettere su di sé. Ma partiamo da una riflessione su una delle parole-chiave più ambigue e dibattute di questo fase di “crisi educativa”.
La parola “competenza”.
“Cosa sono le competenze? Costituiscono un insieme di elementi economicamente spendibili sul mercato, esprimibili nei termini di capitale umano e misurabili oggettivamente attraverso ranking meritocratici che misurano il tasso di competitività di individui, istituti, docenti e intere nazioni? Oppure, dal punto di vista pedagogico, rappresentano un patrimonio di processi incentrati sull’impiego attivo di quanto appreso al fine di sviluppare capacità di elaborazione critica e di intervento trasformativo sulla realtà culturale, sociale ed economica, la cui valutazione, rifuggendo la retorica meritocratica di una misurazione gerarchica, oggettiva, normativa e puntuale, è intesa in funzione orientativa e basata su giudizi partecipati, intersoggettivi, criteriali pluridimensionali? Tertium non datur: altre posizioni non emergono, né queste due sono conciliabili”.
Il brano è tratto dal saggio del pedagogista Cristiano Corsini dal titolo Tra educazione e mercato: valutazione, competenze, innovazione, compreso nel prezioso numero monografico curato da Alessandra Reccia e Maria Vittoria Tirinato che la rivista online del Centro di interdipartimentale di ricerca Franco Fortini dell’Università di Siena L’ospite ingrato ha dedicato al tema col titolo Scuola, la posta in gioco (gennaio-giugno 2021, disponibile in open source al sito: https://www.ospiteingrato.unisi.it/9gennaio-giugno-2021scuola-la-posta-in-gioco/). Una operazione preziosa e rara, con importanti aperture comparative e una ripresa di autori chiave (Dewey, Gramsci, Fortini, Solmi…), quella compiuta dalle curatrici, dagli autori e dalle autrici di questo ricchissimo fascicolo, che ripercorre la crisi del modello scolastico novecentesco, ma anche le fratture e i limiti dell’applicazione del dettato costituzionale repubblicano, oltre che il ritorno attuale e prepotente di una scuola, e di un sistema formativo tutto, drammaticamente di classe.
L’analisi che se ne può e deve trarre è dura ma necessaria. Siamo in una fase nevralgica e drammatica di accelerazione delle dinamiche di produzione del “mercato globale delle competenze” dell’odierno capitalismo cognitivo. Il sistema formativo italiano (scuola e università) è a un bivio (anzi lo ha in parte già superato), strozzato da una serie combinata di processi ormai consolidati, taluni incancreniti e dunque sistemici. Elenchiamoli:
1) Una orwelliana rivoluzione manageriale delle governance (si pensi alla “Buona Scuola” come alla Legge Gelmini nell’Università).
2) Una distorsione di quella che viene chiamata, impropriamente, “cultura della valutazione”, sempre quantitativa, mai qualitativa, procedurale e brutale a troppi livelli.
3) Una competizione e una concorrenza sleali dei produttori privati e telematici di titoli di studio (si veda il ruolo di agenti che operano a vario titolo nella formazione in itinere, non sempre qualificante, dei docenti scolastici; o l’affare dei 24 CFU per l’insegnamento erogati dalle telematiche con modalità talora discutibili; e solo per fare due esempi tra molti possibili).
4) Una professionalizzazione grottesca dei saperi di base (nella scuola ma anche nell’università, con lo slogan appiattente e mortificante della professionalizzazione a giustificare veri mostri educativi…).
5) Un crollo verticale del potere simbolico della scienza e della conoscenza.
E si potrebbe continuare. La scuola, a vari livelli, è stato il luogo in cui molte pratiche, perverse negli effetti – se non nelle intenzioni, spiace dirlo – sono state testate. L’università ne è il punto di arrivo; e l’accademia ha fortissime responsabilità, quanto meno per essersi voltata dall’altra parte in questi anni, salvo pagarne e farne pagare al paese, ora, le conseguenze.
In questo quadro siamo già dentro un processo in cui il sistema formativo – scuola e università – rischia in pochi anni di vedere definitivamente confinate ed escluse le ragioni di un sapere critico, ermeneutico, interpretativo, civile e avanzato. Il PNRR, costruito per executive dell’industria, farà il resto.
Serve una mobilitazione intellettuale, politica e civile, comune e trasversale; con fatti, non solo parole di autocritica e di critica. Della scuola e dell’università, insieme.