di Fulvio Carmagnola

 

[È da poco uscita per Meltemi la nuova edizione di Pulp Times. Immagini del tempo nel cinema d’oggi, di Fulvio Carmagnola e Telmo Pievani, con una filmografia a cura di Dario D’Incerti. Pubblichiamo la Premessa 2018 al libro, firmata da Fulvio Carmagnola, ringraziando l’editore].

 

La prima edizione di questo lavoro risale a quindici anni fa. Il sottotitolo, tuttora eloquente, era: “Immagini del tempo nel cinema d’oggi”. Dopo quindici anni ci si può permettere una domanda: il nostro “oggi” è ancora lo stesso nei suoi due versanti, quello tematico (il tempo raccontato) e quello formale (il tempo del raccontare)? O, nel caso di una risposta negativa, come e in che cosa è cambiato rispetto alla ricerca che questo testo ripropone? Alla sua uscita questo volume presentava almeno due indici temporali, due segni del proprio tempo, il primo appena accennato ma potente, il secondo esplicito al punto che costituiva una delle premesse dell’atteggiamento, del metodo della ricerca. In primo luogo ci trovavamo tutti ancora alle prese con le conseguenze dello choc storico dell’evento della distruzione delle Twin Towers e delle domande che questo aveva suscitato. Di questo indice si trova traccia rileggendo le pagine dell’Introduzione: “Ci vuole tempo per elaborare un evento nell’immaginario” scrivevamo allora. E, citando un’intervista dello scrittore Richard Ford, aggiungevamo che “se si vuole capire che cosa accade, bisogna avere la pazienza di aspettare le prossime opere del cinema e della letteratura”. Ecco un’ottima motivazione per assumere come oggetto di ricerca la narrazione mediale e il cinema in particolare. Vorrei solo ricordare un lavoro a più voci apparso quasi subito dopo, e che a mio parere ha conservato una potenza e una validità tuttora attuali: si tratta di 11 settembre 2001, un fi lm composto da undici brevi “corti” di undici registi. In alcuni di questi, come nel pezzo di Sean Penn, emergeva anche un’intensa e profonda sensibilità per il tempo, in entrambi i versanti. Il secondo indice si riferisce invece al dibattito di lunga durata sulla differenza tra cultura “alta” e “bassa” e sulla necessità di guardare il tempo nel cinema valicando la linea di divisione tra avanguardia e massa, tra ricerca e consumo. Ne risentivamo allora anche grazie alla presenza delle ricerche e delle riflessioni dei Cultural Studies e attraverso l’influenza crescente del lavoro di Slavoj Žižek, un pensatore che con l’insieme dei Cultural Studies vanta una vicinanza polemica (“mi includo fuori” è la sua battuta a proposito dei suoi rapporti con queste correnti).

 

Ci colpiva innanzitutto il tempo come oggetto del racconto, perché lo avvertivamo particolarmente presente nella narrazione cinematografi ca, a partire almeno dalla metà degli anni Ottanta. Ci colpiva la circostanza che il cinema fosse in grado di animare con immagini e storie il grande dibattito sul tema, presente da sempre nella fi losofi a, nelle scienze umane e nella tradizione di quelle che Ernst Cassirer aveva defi nito “scienze teoretiche della natura”. Da parte mia ero anche particolarmente sensibile all’analisi dei modelli di trattamento del “tempo del raccontare” con alcuni grandi riferimenti – da Auerbach a Ricoeur a Genette e altri. Mi pareva di vedere in alcuni esempi cinematografi ci di quegli anni, proprio nel filone pop o pulp, come Memento (Ch. Nolan, 2000), un’interessante risonanza con i trattamenti letterari della materia narrativa. I due grandi libri deleuziani sul cinema degli anni Ottanta, L’immagine-movimento e L’immagine-tempo, erano un punto di riferimento fondamentale.

 

Pulp Times si concentra sul tempo raccontato nel cinema: le sue immagini, le sue figure, le sue storie. E da questo punto di vista il modo in cui le teorie scientifiche più azzardate venivano richiamate e fictionalizzate nella narrazione – da Ritorno al futuro (R. Zemeckis, 1985), a Contact (ancora Zemeckis, 1997), a Frequency (G. Hoblit, 2000) – era significativo. Sarà utile ricordare brevemente le nostre ipotesi di allora. La prima era che “il tempo e i suoi caratteri esplorati nelle culture alte stanno diventando pop”. Ovvero, grandi fi loni della riflessione sul tempo venivano efficacemente “declinati nella narrazione mediale”. Questa circostanza si presentava come una sorta di rispecchiamento o di “doppiaggio”, ma anche di reinterpretazione creativa, con larga autonomia e con riferimenti precisi alle più affascinanti e estreme teorie scientifiche, su cui valeva la pena di riflettere. In sintesi, la scienza e la filosofia avevano allora un singolare e fortunato riscontro nella fiction. “Si affievolisce la distinzione tra cinema spettacolare e cinema espressivo”, scrivevamo ancora nell’Introduzione. Se ne poteva trarre una conclusione più generale: “Le grandi immagini scientifiche sociologiche e filosofi che del tempo diventano […] immagini culturali in senso proprio quando vengono trasformate in icone, miti e narrazioni pop”. Insomma l’ipotesi era che avvenisse una sorta di ricaduta, di travaso dall’“alto” al “basso” e che quindi l’analisi del materiale pulp si trovasse nella linea di lavoro allora molto attiva nelle scienze umane e giustificasse la rivendicazione di una ricerca basata proprio su questa componente della narrazione cinematografica. Era questa la motivazione del nostro titolo. La seconda ipotesi di lavoro consisteva nella considerazione del cinema nel suo complesso come un documento primario di quello che si può def nire il sentire contemporaneo. In particolare, il nostro modo di avvertire, di esperire o sentire il tempo, insomma la sua carne o la sua aisthesis, ha origine nel tessuto mediale delle immagini piuttosto che nella nostra interiorità soggettiva. Da questo punto di vista la nozione di immaginario che Slavoj Žižek stava elaborando a partire dalla fine degli anni Ottanta era particolarmente efficace. L’idea è che il nostro immaginario del tempo non si produca all’interno del soggetto, secondo una linea storica che accomuna Agostino e Kant, ma “là fuori”, nel tessuto mediale. Ecco perché la definizione che si trovava già allora nei testi del pensatore sloveno, dell’immaginario come forza sociale impersonale che costituisce le coordinate del nostro desiderio e ci dice “come dobbiamo desiderare”, poteva essere messa alla prova anche nel nostro campo specifico: essa metteva e mette tuttora in discussione tutta la tradizione che vede il tempo come una delle coordinate fondamentali della struttura dell’interiorità. Insomma, riflettere sul tempo nel cinema era anche un modo per mostrare che per capire “il tempo che noi siamo” bisogna guardare ai modi in cui l’immaginario mediale lavora e ai suoi prodotti. Queste ipotesi sono ancora valide? Quanto alla seconda ipotesi, credo che questi anni l’abbiano ampiamente confermata. Quanto alla prima, naturalmente per rispondere bisognerebbe riscrivere un secondo volume, ma comunque questo lavoro ha il valore, credo, di una testimonianza, di un documento. L’impressione complessiva è che oggi ci sia assai meno enfasi sul tempo come tema esplicito della narrazione, insomma sul tempo raccontato. E che anche nelle pratiche e nel modo di raccontare sia avvenuta in questi anni una sorta di normalizzazione. Forse si può dire che in questo periodo anche il tempo del raccontare, la forma temporale della narrazione al cinema sia diventata nel complesso più tradizionale – con alcune eccezioni significative come nel caso di David Lynch. Qualche considerazione più precisa si potrebbe fare scorrendo l’accurato aggiornamento filmografico che abbiamo chiesto a Dario D’Incerti.

 

Da parte mia ho la sensazione che, nello specifico del rapporto tra tempo e cinema, sia avvenuta una sorta di rinormalizzazione del tempo narrativo sull’asse diegetico – “la misura del movimento secondo il prima e il poi”, secondo il modello aristotelico – e insieme un inglobamento dei dispositivi formali più urticanti che erano destinati a far emergere un tempo out of joint – rottura del procedere temporale ordinario, dis-inquadrature, movimenti di macchina aberranti, incoerenza tra i segmenti narrativi o, all’opposto, tempo fermo e dilatato, nelle modalità esplorate negli anni Ottanta dai due grandi libri di Gilles Deleuze.

 

Alleggerimento del tempo come tema e normalizzazione delle anomalie, degli aspetti urticanti del trattamento del tempo come modo di raccontare, questa a una prima impressione pare la direzione. Come se gli esperimenti e i dispositivi formali e tematici più azzardati fossero oggi assimilati o digeriti in una sorta di mainstream allargato, in corrispondenza con un’evoluzione della “cultura” capace di introiettare anche le asperità e gli aspetti urticanti. È anche per questo che il dibattito tra espressivo e commerciale pare superato: oggi le agenzie del marketing culturale sono in grado di assimilare e digerire quasi tutti gli aspetti di sporgenza, come accade peraltro nell’arte. Dunque, da una parte il tema del tempo pare aver perduto le sue suggestioni più estreme, dall’altra il trattamento formale riflessivo della materia sembra aver perso l’enfasi precedente e, introiettandone gli aspetti più vistosi, pare ne abbia fatto una sorta di “scienza normale” della narrazione cinematografica – forse in parallelo con l’atmosfera di “ritorno al reale” e al realismo di cui si è parlato in questi anni. Nei termini della questione posta da Deleuze: il cinema che lui definiva “moderno”, come operatore del passaggio dall’immagine-movimento all’immagine-tempo, può a sua volta essere ricompreso in una dimensione più tradizionale. Con le dovute eccezioni: Lynch, per esempio, ma anche il semprevivo e pervicace Godard e altri. Dunque, se qualcosa di significativo è accaduto in proposito, si tratta del rafforzamento di un piano inglobante della cultura-spettacolo, che rende superata sia la polemica sul contrasto tra cultura alta e cultura bassa, sia la stessa rivendicazione del piano mediale come oggetto degno di indagine. Ora, questa distinzione è talmente attenuata, per non dire scomparsa, che la rivendicazione di questa prospettiva critica appare quasi ingenua. L’impressione insomma è che la stessa affermazione della dignità del pulp come oggetto culturale sia ormai del tutto istituzionalizzata, all’incrocio tra antropologia dei media e sociologia dei consumi. Da un lato ogni evento-choc può essere macinato e rielaborato in termini di “comunicazione”, dall’altro ogni sporgenza, tematica o narrativa, può servire a nutrire le energie del dispositivo culturale.

 

C’è un’altra considerazione da fare, certamente polemica: se pensavamo al rapporto tra tradizioni alte e cultura pop come a una sorta di travaso o di ricaduta creativa dai saperi alti nelle forme mediali del sentire, oggi si può quasi dire che in un certo senso la direzione si sia invertita. In una certa misura, sono proprio i rappresentanti della cultura alta che attingono il loro riconoscimento in una sfera pubblica trasformata dalla medialità. Come se la medialità – anche nel senso di medietà, di panorama costituito da una molteplicità flat – fosse oggi senza esterno, insomma una sfera pubblica quasi completamente trasformata in sfera mediatica. Allora pare quasi che sia la presenza più o meno intensa nella sfera della “comunicazione” a fornire la legittimazione prima fornita dalle agenzie disciplinari specialistiche. È solo una sensazione, ma potrebbe anche essere lo spunto per un studio critico. Vorrei esprimerla sotto forma certamente esagerata, ricorrendo a tre immagini. La progressiva trasformazione di quella che Jürgen Habermas negli anni Sessanta identificava come Öffentlichkeit, sfera pubblica e luogo della elaborazione di “esperienza” e di un consenso razionalmente motivato, in sfera mediatica senza esterno, gestita dai dispositivi della comunicazione, può forse essere scandita dalla successione temporale di queste tre immagini.

 

La prima è quella celebre di Albert Einstein fotografato in veste di clown che “fa le smorfie”. È l’immagine rassicurante del genio che è anche un brav’uomo, uno come noi, che si concede allo scherzo e al buon umore, pur mantenendo intatto il tuo retroterra esoterico che concede all’apparenza comunicativa solo l’aspetto enigmatico della formula E= mc2 … La seconda tappa sul percorso della mediatizzazione è l’apparizione della fi gura di Stephen Hawking – o, in altro contesto disciplinare, di J.D. Salinger o di Thomas Pynchon – come personaggi di un celebre fumetto. Il genio è sulla strada di una completa mediatizzazione, la faccia mediatica, comunicativa, tende a prevalere. La terza immagine è recente, e forse suggella un processo completato: è quella di Slavoj Žižek, filosofo ormai completamente e consapevolmente mediatico, che va in televisione nella trasmissione di Fabio Fazio a parlare in difesa del comunismo – “in difesa delle cause perse”, come suona il titolo di uno dei suoi più recenti lavori, appunto. Si potrebbe dire, esagerando (ma non troppo): Žižek è un genio perché va in televisione, è la sua prestazione comunicativa all’altezza dei più raffi nati talk show, è la sua capacità spettacolare che ne sancisce la statura. Ma forse si potrebbe dire che lui stesso sia diventato una sorta di “oggetto piccolo (a)” della comunicazione mediatica Ecco perché forse si può azzardare che, rispetto allo scenario di quindici anni fa, “il tempo che noi siamo” effettivamente è cambiato, non solo i grandi eventi scientifi ci o fi losofi ci o letterari “diventano pop”, ma in un certo senso accade anche il contrario. Il piano della legittimazione passa sempre più attraverso la comunicazione. La fi gura di Žižek e del suo rapporto con il cinema è interessante anche da un altro punto di vista. La storia del cinema come oggetto di riflessione da parte delle scienze umane e della filosofi a è storia lunga e il libro ne riporta alcune posizioni importanti. Interessa in questa sede un’osservazione su cui si potrebbe tornare. Credo che uno dei punti più alti della ricerca filosofica sul cinema siano stati proprio i due libri di Gilles Deleuze di cui si è fatto cenno. A lungo queste riflessioni hanno costituito un modello, una sorta di paradigma, almeno in campo filosofi co se non per gli studiosi di cinema. Ora, più recentemente, è stato proprio Žižek a fare del cinema un oggetto di riflessione filosofica. E tuttavia forse la differenza tra questi due atteggiamenti, questi due modelli, può dirci indirettamente qualcosa. Per Deleuze il cinema e l’arte in generale sono una specifica forma di pensiero: l’arte pensa “per percetti e affetti”, la filosofi a pensa “per concetti”, la scienza pensa “per funzioni”. Tutte e tre si trovano però sullo stesso piano di immanenza, la filosofi a non è più il giudice, la voce che può parlare dall’alto. Ne deriva la conseguenza che, propriamente parlando, non c’è una “Filosofia del cinema” – così come non c’è o non c’è più una “fi losofi a dell’arte” di stampo hegeliano. La fi losofi a semmai pensa o ri-pensa quel pensiero per immagini che il cinema produce autonomamente: si tratta di una pratica parallela. Non credo che il ruolo del cinema sia lo stesso nel “modello-Žižek”, se così si può dire: per il filosofo e psicoanalista sloveno il cinema, e in particolare la coppia esemplare costituita da Hitchcock e Lynch, diventa una sorta di documento utile a mostrare in immagine un teorema, una costruzione teorica che risiede e ha la sua formulazione altrove – in particolare, come risaputo, nel pensiero di Jacques Lacan. Chiedete a Lacan qualcosa che non avreste il coraggio di chiedere a Hitchcock – o viceversa… Gli specifici aspetti tematici e formali ricevono così una luce e un’attenzione completamente differente. In proposito, una recente dichiarazione dello stesso Žižek è esplicita. Si tratta di “esemplificazioni artistiche del contenuto concettuale” (2014). Se questo sia un bene, per il cinema e per il pensiero del cinema, resta da discutere. Un’ultima, breve considerazione. For se oggi bisognerebbe studiare “il tempo nel cinema” e le sue immagini ben più all’esterno dello specifico cinematografi co – la pellicola, la sala, “il cono danzante che perfora il nero”, come recitava la frase di Roland Barthes. Come se la Visual Culture, terreno diffuso e pratica diffusa, avesse per così dire inglobato lo specifico cinematografi co come lo conoscevamo, sciogliendolo nel territorio ubiquo delle immagini, un terreno vago e estremamente allargato di cui “il Cinema” sarebbe ora solo una delle componenti. Questo terreno va dalle pratiche di autoproduzione di immagini alle pratiche di video-arte, e a sua volta, come si vede nel caso esemplare di Redacted (B. De Palma, 2007), influenza lo stesso modo di fare cinema contaminandolo. Insomma l’idea è che il tempo che abbiamo cercato nel cinema lo si debba cercare oggi altrove e in modo molto più indiretto, nel territorio esteso dell’immaginario o della società dello spettacolo, per riprendere l’espressione più che mai attuale di Guy Debord.

 

[Immagine: Hiroshi Sugimoto, Diorama].

3 thoughts on “Il tempo che noi siamo

  1. “… ricordo che intorno al 1905 in tutta Berlino vi era un solo Kino buio e un po’ malfamato, a cui avevano dato per qualche misteriosa ragione, un nome inglese: The Meeting Room. Nessuna meraviglia quindi che esponenti delle classi ‘alte’ quando con circospezione presero ad avventurarsi in questi primi rudimentali cinematografici, lo facessero non in vista di un normale divertimento, eventualmente serio, ma con l’atteggiamento imbarazzato e condiscendente con cui ci si può immergere, in allegra compagnia, nella pittoresca confusione di Coney Island o di una fiera di paese.
    Ancora fino a non molti anni fa, negli ambienti socialmente elevati o fra gli intellettuali era consentito giudicare apprezzabili solo film austeri e istruttivi tipo ‘La vita sessuale delle stelle marine’, o che descrivessero ‘bei paesaggi’, mentre nessuno avrebbe mai osato confessare di divertirsi a quelli narrativi”.

    Erwin Panofsky, Tre saggi sullo stile. Il barocco, il cinema, la Rolls-Royce. Abscondita, Milano 2011. p. 70

  2. “ Venerdì 19 gennaio 1996 – « Davanti all’antico tendone / Biancheggia il lenzuolo più grande / Su cui dall’opposto loggione / La luce in un cerchio si spande. // Nel magico cerchio, ritratto del sole, / Cavalli e carrozze vediamo volar / E uomini e donne, che senza parole / Con gesti continui si sanno spiegar. // Finita la gaia commedia, / Un ballo di bimbi è venuto; / Poi qualche veloce tragedia / Poi farse d’un mezzo minuto; // Poi tori, elefanti, somari e ciclisti, / E pazze automobili in gara fra lor; / E salti che al mondo nessuno ha mai visti, / E gambe che sfidano i treni a vapor. // Intanto la folla stipata / Di mille visetti s’ingiglia; / Intorno alla mamma adorata, / Gioisce un’intiera famiglia. // Battete le mani bambini vivaci! / È nato il teatro del mondo infantil: / Dal dolce paese coprite di baci / L’Autore di questo trovato gentil. » (Celestino Calleri, Il cinematografo, 1907) “)

  3. ” – Eppure lei sembra aver provato un reale interesse per il cinema.

    – Si, mi piaceva moltissimo, ci andavo due o tre volte a settimana. Ed è anche legato al ricordo di alcuni cari amici, come Manuel Peyerou e Haydée Lange…

    – E Bioy Casares, per esempio…

    – Certo, credo che siamo andati diverse volte con Silvina Ocampo. Me ne ero dimenticato. Anche ai miei genitori piaceva molto il cinema. Ricordo che una volta che ci sono andato con loro e con Carlos Mastronardi, c’erano dei pianisti che cercavano di seguire l’azione. Ma siccome lo spettacolo non era ancora iniziato, i pianisti suonarono ‘El entrerriano’ (che in creolo significa tra due fiumi). Allora Mastronardi, che era ‘entrerriano’ guardò mio padre, entrerriano a sua volta, e disse: dottore, ci hanno riconosciuti”.

    Jorge Luis Borges e Osvaldo Ferrari, Reencuentro. Dialoghi inediti. Traduzione di Beatrice Gatti. Milano, Bompiani. 2011. p. 179-80

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