di Slavoj Žižek e Catherine Malabou
[È uscito in questi giorni, per Galaad Edizioni, Il trauma: ripetizione o distruzione? Un confronto tra psicoanalisi, filosofia e neuroscienze, di Slavoj Žižek e Catherine Malabou. Il volume inaugura la collana Nova Humana Materia dell’associazione culturale Litorale – Cultura, Ricerca e Formazione in psicoanalisi e raccoglie per la prima volta tutti gli interventi che compongono lo scambio intercorso tra i due filosofi sulla questione dei nuovi feriti e delle forme del traumatismo contemporaneo. I testi che pubblichiamo sono un estratto dalla Presentazione dei curatori, Luigi Francesco Clemente e Franco Lolli, seguito da due estratti dagli interventi di Slavoj Žižek e Catherine Malabou]
Presentazione
di Luigi Francesco Clemente e Franco Lolli
Come è noto, il significante “nuovi feriti” ha fatto il suo ingresso nel panorama filosofico contemporaneo con la pubblicazione — nel 2007 — dell’omonimo libro, Les nouveaux blessés, da parte di Catherine Malabou. Secondo la filosofa francese, nella nostra epoca sarebbero diventate dominanti forme di soggettività post-traumatica accomunate dal fatto che lo psichismo può continuare a vivere una volta distrutto, nel senso di una dislocazione del vissuto rispetto alla propria storia e alla propria biografia. Sicché, quando ci troviamo davanti a uno di questi nuovi feriti — malati di Alzheimer o di Parkinson, persone colpite da danni cerebrali irreversibili, ma anche traumatizzati di guerra, vittime di violenze sessuali, ecc. — non ci troveremmo di fronte a un soggetto che è semplicemente cambiato rispetto a ciò che era prima, ma piuttosto a un soggetto che è letteralmente divenuto qualcun altro, un altro soggetto: rispetto all’antica forma psichica, quella nuova non avrebbe nulla di compensatorio né rivelerebbe nulla, trattandosi al contrario di una forma di distruzione, l’incarnazione della pulsione di morte; per dirla altrimenti: tra l’identità del soggetto prima e dopo la lesione o il trauma non c’è nessun rapporto.
Ebbene, a queste tesi Žižek ha dedicato nel 2008 un’ampia recensione, Descartes e il soggetto post-traumatico, sulla quale Malabou è esplicitamente ritornata in diverse occasioni: innanzitutto nell’articolo Post-Trauma; quindi in Padre, non vedi che brucio?, un saggio che comprende e approfondisce quanto sostenuto nel testo precedente. Ma ancora più significativo è, per la sua stessa collocazione editoriale, il terzo intervento, vale a dire la Prefazione alla seconda edizione de Les nouveaux blessés, uscita per PUF nel 2017.
Sarebbe tuttavia fuorviante pensare che tra i due filosofi sia intercorso qualcosa come un dialogo. Non solo perché nei loro testi non vi è traccia di uno scambio volto al raggiungimento di una qualche intesa comunicativa — come se le diverse posizioni espresse dipendessero da incomprensioni o equivoci da dissipare. La ragione è molto più essenziale, e si può riassumere con un’osservazione che ricorre spesso in Žižek: dal momento che ogni filosofo muove da determinati presupposti e intuizioni non negoziabili e sui quali ritorna costantemente, quello che la tradizione ha chiamato “dialogo filosofico” non sarebbe altro, in ultima istanza, che l’interazione tra due monologhi.
Ad emergere è, in sostanza, la questione che polarizza le diverse concezioni del trauma in due grandi contenitori teorici: in uno, si sostiene che un qualunque accadimento, per essere traumatico, necessiti di un evento predisponente, rimasto in latenza e in attesa della significazione che l’evento successivo gli attribuirà; nell’altro, si asserisce che il trauma è l’effetto di eventi di una potenza talmente devastante che non necessita dl eventuali risonanze con elementi biografici antecedenti. Questo è, senz’altro, uno dei punti di maggiore densità concettuale dell’intero dibattito, sul quale, peraltro, convergono molteplici questioni: prima fra tutte, la centralità del corpo.
Nello scambio serrato tra i due autori, affiora una diversa considerazione del ruolo giocato dal fattore organico nel trauma e, più in generale, all’interno dell’attività psichica. Da un lato, Malabou sostiene e ribadisce le proprie tesi facendo costanti riferimenti a situazioni nelle quali il danno irreparabile al sistema nervoso si impone come dato ineludibile, ininterpretabile, non dialettizzabile, in grado di interrompere una vicenda soggettiva e di aprirne una nuova, totalmente estranea a quella precedente, senza significativi legami con il passato, immemore. Dall’altro lato, Žižek, pur non negando gli effetti catastrofici provocati da tali sfortunate contingenze, sembra più interessato alla «forma positiva» che il soggetto assume a seguito di tali evenienze, alla «forma soggettiva di questa stessa devastazione». L’implacabilità del processo di plasticità distruttrice che abita il corpo umano si confronta, così, con il primato del significante nell’esistenza umana che, sebbene scossa da profondi traumi, «riscrive forse il suo passato, riarticolandolo all’interno di un nuovo contesto».
Non è superfluo ricordare quanto lo stesso Freud abbia mostrato, al riguardo, un atteggiamento profondamente ambivalente, oscillante tra la considerazione della preponderanza del registro organico, per un verso, e la sua totale esclusione dall’ambito clinico, per l’altro. Quando, per esempio, afferma che lo psichico poggia sul somatico, il padre della psicoanalisi stabilisce una netta gerarchia tra i due registri, collocando il dato anatomico in una posizione di assoluta priorità rispetto a quello psichico. Del resto, sin dagli Studi sull’isteria, egli aveva posto in primo piano la funzione di «moltiplicatore» dei fattori organici predisponenti, che agiscono, secondo lui, enfatizzando gli effetti psicopatologici di un determinato conflitto di natura sessuale. Il fattore costituzionale ha sempre avuto, per Freud, un ruolo decisivo nella genesi delle malattie nervose: sono innumerevoli, all’interno della sua opera, i passaggi nei quali fa riferimento alla «disposizione naturale», alla «predisposizione», al «fattore ereditario», alla «disposizione genetica». Vale la pena, tuttavia, ricordare come, nella lettera a Else Voiglãnder dell’1 ottobre 1911, Freud liquidi la questione in aperto contrasto con le posizioni appena menzionate: egli riconosce il limitato interesse della psicoanalisi nei confronti del fattore costituzionale e lo attribuisce allo scarso sapere che la psicoanalisi stessa ha su di esso. Il che, conseguentemente, lo spingerà a concludere la lettera con un’affermazione che non può non rivelarsi problematica e contraddittoria: «Ciò che rimane inspiegabile, dopo l’indagine sugli elementi accidentali, può essere attribuito alla costituzione». Il somatico non sembra più il sottofondo solido e determinante dello psichico ma il suo sfondo oscuro, suscettibile di venire in primo piano solo al termine della perlustrazione dello psichico. Lo stesso Freud, in sostanza, dimostra una certa esitazione che – come è noto – si trasformerà, nei successivi sviluppi della teoria psicoanalitica, in una vera e propria rimozione del corpo (e delle sue incidenze sull’attività psichica).
Nondimeno, le derive ermeneutiche della psicoanalisi post-freudiana giocheranno un ruolo decisivo nel marginalizzare sempre più la tematica del corpo, assegnando alla pratica analitica che ne è seguita – tutta incentrata sul pensiero e sul significato – un’indubbia sfumatura ossessiva. Il lavoro pionieristico della Malabou, in questo senso, rappresenta un richiamo rivolto alla psicoanalisi, un invito a considerare il corpo non solo come il teatro di conflitti e di rappresentazioni, ma come quel nocciolo duro di reale che nessuna operazione simbolica è in grado di intaccare e che, al contrario, la può decisamente condizionare fino – nei casi più gravi – abolirla.
Ma c’è un ulteriore livello di problematicità che il dibattito pone in primo piano. L’evento distruttivo che, nelle riflessioni della Malabou, si rivela capace di generare nuovi soggetti, del tutto estranei a quelli anteriori all’evento, potrebbe essere considerato, come ricorda Žižek, una riedizione della «perdita che è costitutiva della dimensione stessa della soggettività», di quella perdita originaria che costituisce «il gesto stesso della cancellazione di qualsiasi contenuto sostanziale». Detto in altri termini: non è lecito ipotizzare che qualunque evento traumatico – al di là del contenuto che veicola e dell’intensità con cui si manifesta – non faccia altro che ripetere l’atto stesso di costituzione del soggetto, l’atto di perdita di sostanza che attribuisce all’umano quella forma vuota che lo differenzia da qualunque altro animale? E che forse il trauma potrebbe essere considerato tale in virtù di questa sua potenzialità commemorativa dell’originario azzeramento del soggetto? Se così fosse, il trauma si configurerebbe come l’evento in grado – pur nella estrema diversità delle forme che assume – di attualizzare l’inaugurale desostanzializzazione del soggetto, da cui riemergere (recuperando e ricostruendo il legame con la propria storia), o in cui fissarsi e cronicizzare (riproponendo – nelle circostanze più violente e catastrofiche – quella «forma vuota» da cui qualunque essere umano proviene).
Non si tratta, ovviamente, di cercare una mediazione tra due posizioni che si mantengono distinte e, per certi versi, inconciliabili. Certo è che, tuttavia, la distanza delle argomentazioni dei due filosofi sembra ridursi quando entrambi fanno riferimento a figure del trauma – quella del “musulmano” su tutte – nelle quali la concezione freudiana dell’indistruttibilità della vita psichica mostra il proprio limite: cosa ne è di un funzionamento psichico esposto a situazioni prolungate di orrore e disumanizzazione? Davvero si può ritenere che sia sempre necessario un antefatto sintonizzato sull’evento perché quel determinato evento risulti annichilente? Che, per dirla in maniera più sbrigativa, diventarono “musulmani” solo coloro che erano predisposti a diventarlo? Che la realtà, in definitiva, sia essa neuronale, sociale o naturale, non possa, in specifiche contingenze, sbriciolare ogni difesa psichica e radere al suolo tutto ciò che incontra? O che la ricostruzione – in continuità con il passato – sia sempre possibile?
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Descartes e il soggetto post-traumatico
di Slavoj Žižek
Cosa rende unico il nostro momento storico? Cominciamo con un caso che non ci aspetteremmo: George Soros è un filantropo indubbiamente onesto, la cui Fondazione Open Society — tra l’altro — ha salvato più o meno da sola il pensiero sociale critico nei paesi post-comunisti. Eppure, una decina di anni fa proprio Soros ha guadagnato centinaia di milioni di dollari dedicandosi alla speculazione finanziaria sui diversi tassi di cambio tra valute, e causando in questo modo indicibili sofferenze, soprattutto nel Sud-Est asiatico: centinaia di migliaia di posti di lavoro sono andati perduti, con tutte le conseguenze del caso. Eccola, la violenza “astratta” del nostro tempo, nella sua forma più pura: da un lato, la speculazione finanziaria che si svolge nella propria sfera, senza legami trasparenti con la realtà delle vite umane; dall’altro, una catastrofe pseudo-naturale (perdita improvvisa e inaspettata del lavoro) che colpisce migliaia di persone come se fosse uno tsunami, senza alcuna ragione apparente. La violenza dell’epoca presente funziona come un hegeliano “giudizio infinito” speculativo, che pone l’identità di questi due estremi. — Le conseguenze psicologiche dell’avvento delle nuove forme della violenza “astratta” sono al centro del libro di Catherine Malabou, Les nouveaux blessés
Se il nome freudiano per “un sapere che non si sa” è inconscio, quello per “un non sapere che non si sa” è trauma, la violenta irruzione di qualcosa di radicalmente inatteso, qualcosa per cui il soggetto non era assolutamente pronto, qualcosa che il soggetto non può integrare in alcun modo. È su questa scia che Malabou ha proposto una riformulazione critica della psicoanalisi; il suo punto di partenza è il sottile echeggiarsi del Reale interno ed esterno in psicoanalisi: per Freud e Lacan, shock esterni, incontri o intrusioni brutali e inattesi devono il loro impatto propriamente traumatico al modo in cui toccano una traumatica realtà psichica preesistente. È così che Malabou rilegge l’interpretazione lacaniana del sogno di cui parla Freud ne L’interpretazione dei sogni, “Padre, non vedi che brucio?”. Il contingente incontro esterno col reale (la candela cade e infiamma la coperta che ricopre il bambino morto; l’odore del fuoco disturba la veglia notturna del padre) scatena quello che è il Reale vero e proprio, l’insostenibile fantasma-apparizione del bambino morto che rimprovera suo padre. In questo modo, per Freud (e Lacan), ogni trauma esterno è “sublimato”, interiorizzato, deve il suo impatto al modo in cui un Reale pre-esistente, appartenente alla “realtà psichica”, è risvegliato per suo tramite. Anche le intrusioni più violente del reale esterno – ad esempio, lo sconvolgimento che producono nelle vittime i bombardamenti di guerra – devono il loro effetto traumatico alla risonanza che trovano in cose come il masochismo perverso, la pulsione di morte, il senso di colpa inconscio, ecc. Oggi, tuttavia, la nostra stessa realtà socio-politica impone molteplici versioni di intrusioni esterne e traumi, che non sono altro che questo: interruzioni brutali e senza senso che distruggono la trama simbolica dell’identità del soggetto.
Dal punto di vista teoretico, Malabou dà il meglio di sé quando formula una raffinata critica a quei neuroscienziati che, da Lurija a Sacks, insistono sulla necessità di integrare la descrizione naturalistica delle lesioni cerebrali, ecc., con la descrizione soggettiva di come la lesione biologica non si limiti a colpire le singole caratteristiche del soggetto (perdita della memoria, incapacità di riconoscere i volti…), ma modifichi la sua stessa struttura psichica, il modo in cui il soggetto percepisce se stesso e il suo mondo. (Sul punto, iI primo grande classico è l’insuperabile Viaggio nella mente di un uomo che non dimenticava nulla, di Aleksandr Lurija: la descrizione dell’universo interiore di un uomo condannato alla memoria assoluta, incapace di dimenticare alcunché.) Questi autori rimangono ancora troppo “umanisti”: si concentrano sui tentativi della vittima volti a far fronte alla lesione e a costruire una forma-di-vita supplementare che in qualche modo le permetta di reintegrarsi nell’interazione sociale (ne L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, di Oliver Sacks, la cura viene trovata nel fatto che al paziente resta intatto il senso musicale: pur non potendo riconoscere il volto della moglie o degli altri suoi compagni e amici, può identificarli attraverso i suoni che emettono.) È così che Lurija, Sacks, ecc., evitano di affrontare pienamente quello che è l’autentico nucleo traumatico della questione: non lo sforzo disperato del soggetto di compensare la perdita, ma il soggetto stesso di questa perdita, il soggetto in quanto è la FORMA positiva assunta da questa perdita (il soggetto impassibile e distaccato). Insomma, si facilitano il lavoro, passando direttamente dalla devastazione del cervello agli sforzi fatti dal soggetto per fronteggiare questa perdita; ma in questo modo eludono il punto realmente difficile: la forma soggettiva di questa stessa devastazione.
Il soggetto autistico post-traumatico è la “prova vivente” che il soggetto non può essere identificato (non è pienamente sovrapponibile) con le “storie che racconta a se stesso”, con la trama simbolica narrativa della sua vita: quando togliamo via tutto questo, rimane qualcosa (o meglio: niente, ma una forma di niente), e questo qualcosa è il puro soggetto della pulsione di morte. Se vogliamo farci un’idea della forma elementare, del livello zero, della soggettività, dobbiamo gettare lo sguardo sui mostri autistici
Bisognerebbe quindi applicare anche al soggetto post-traumatico l’idea freudiana secondo la quale un’intrusione violenta del reale conta come trauma solo se in essa risuona un trauma precedente – in tal caso il trauma precedente è quello della nascita della soggettività stessa: un soggetto è, per dirla con Lacan, “barrato”; esso emerge quando un certo individuo vivente viene privato del suo contenuto sostanziale, e questo trauma costitutivo si ripete nella nuova esperienza traumatica. Ecco a cosa mira Lacan quando afferma che il soggetto freudiano non è altro che il cogito cartesiano: il cogito non è un’“astrazione” dalla realtà degli individui viventi in carne e ossa, con tutta la ricchezza delle loro qualità, delle loro emozioni, delle loro capacità, delle loro relazioni; al contrario, è proprio questa “ricchezza della personalità” che funziona come l’immaginaria “stoffa dell’Io”, come dice Lacan.
È così che, quando sostiene che il soggetto post-traumatico non può essere spiegato nei termini freudiani della ripetizione di un trauma passato (dato che lo shock traumatico cancella tutte le tracce del passato), Malabou rimane troppo concentrata sul contenuto traumatico e dimentica di includere nella serie dei ricordi traumatici passati la stessa cancellazione del contenuto sostanziale, la sottrazione della forma vuota dal suo contenuto. In altre parole, proprio nella misura in cui cancella interamente il contenuto sostanziale, lo shock traumatico RIPETE il passato, nel senso della passata perdita traumatica di sostanza, perdita che è costitutiva della dimensione stessa della soggettività. Qui, ad essere ripetuto non è un vecchio contenuto, ma il gesto stesso della cancellazione di qualsiasi contenuto sostanziale. Ecco perché, quando si sottopone un soggetto umano a un’intrusione traumatica, il risultato è la forma vuota del soggetto “morto-vivente”; mentre, se si fa la stessa cosa con un animale, quella che ne risulta è semplicemente una totale devastazione: dopo che su un soggetto umano si è prodotta una violenta intrusione traumatica che ne ha cancellato tutto il contenuto sostanziale, ciò che di esso rimane è la pura forma della soggettività, forma che doveva già esserci.
Per dirla ancora in un altro modo, il soggetto è un caso paradigmatico di quella che Freud ha descritto come l’esperienza della “castrazione femminile” che fonda il feticismo: l’esperienza consistente nell’incontrare il nulla laddove ci si aspetterebbe di vedere qualcosa (il pene). Se la domanda filosofica fondamentale è “perché c’è qualcosa piuttosto che il nulla?”, la domanda sollevata dal soggetto è “perché c’è il nulla proprio laddove dovrebbe esserci qualcosa?”. L’ultima forma di un simile stupore ha fatto la sua comparsa con le neuroscienze: quando andiamo alla ricerca della “sostanza materiale” della coscienza, finiamo per scoprire che “non c’è nessuno in casa” – soltanto la presenza inerte di un pezzo di carne chiamato “cervello”. Ma allora, dov’è il soggetto qui? Da nessuna parte: non è né la presenza a sé della coscienza, né, naturalmente, la bruta presenza della materia cerebrale. Quando si guarda negli occhi un soggetto autistico (o un “musulmano”), si ha come la sensazione che “non c’è nessuno in casa” – ma, diversamente dalla bruta presenza di un oggetto morto come il cervello, se qui ci si aspetta qualcuno/qualcosa è perché proprio qui vi è lo spazio aperto per questo qualcuno. Questo è il soggetto al suo livello-zero: come una casa vuota dove “nessuno è in casa”.
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Prefazione alla seconda edizione de Les nouveaux blessés
di Catherine Malabou
Ecco un’osservazione [di Žižek] ancora più pesante: ho veramente capito quello che Freud chiama “piacere”? La mia lettura «troppo ingenua» di Freud non mi ha forse impedito di vedere che non può esistere un «principio di piacere “puro”», che il suo funzionamento è «ingarbugliato, auto-sabotato», in altre parole, che il principio del piacere è già da sempre, toujours déjà, il suo al di là? Se le cose stanno così, allora diventa inutile cercare fuori dall’inconscio un dispiacere più forte del piacere, diventa inutile convocare l’extraterritorialità del cerebrale. Il piacere è sempre più doloroso di qualsiasi sofferenza. È questo il suo principio. Già da sempre.
Già da sempre! Su questo punto, smetto di acconsentire all’autocritica e rimarco con assoluta fermezza la mia resistenza (cosciente). Il “già da sempre” diviene, nel seguito del suo articolo, il leitmotiv dell’obiezione di Žižek. E se mi soffermo così a lungo su di lui, è perché tutti i disaccordi che gli psicoanalisti hanno espresso sul mio libro si reggono su questo stesso “già da sempre”. In altre parole, sull’impossibilità del nuovo. Insomma, non ci sarebbero che “già da sempre feriti”.
Detto altrimenti, accade tutto a partire dal “già da sempre” della distruzione. Il soggetto è ciò che è a partire da quell’orizzonte trascendentale, vuoto, che Descartes, per primo — ecco il paradossale argomento di Žižek —, ha perfettamente definito. Il soggetto, per Lacan come per Descartes, è una tabula rasa, vale a dire: già da sempre livellato, separato dalla sua carne, vacante. In questo senso, la sua spontaneità — la sua novità — gli è conferita da una struttura antichissima, la struttura del già da sempre, che presuppone il trauma del divorzio tra il trascendentale e l’empirico. Un divorzio che probabilmente si sposa alla perfezione con quello tra godimento e piacere. Già da sempre separato dalla sua corporeità empirica, il soggetto trascendentale diventa così il paradigma del nuovo ferito.
Inoltre, e ancora una volta, i feriti cerebrali — che io sostengo sorgano dall’annientamento di un’identità primaria, come se provenissero dal nulla, senza un registro, deprivati della parola e persino della possibilità di sognare — non sarebbero altro che nuove versioni del vecchio nuovo ferito trascendentale. Soggetto trascendentale che Lacan trasforma, certo, ma del quale conserva la struttura divisa. Il già da sempre, infatti, non è altro che la traduzione contemporanea dell’a priori. E l’a priori è il nome della rottura originaria che, ancora una volta, determina la separazione del soggetto dal qui e ora sensibile della sua vita. Di questa economia soggettiva tanto antica, la cerebralità sarebbe tutt’al più una riconferma.
Sarebbe facile per me rinviare l’argomento del desiderio a Žižek. Se il mio desiderio è sfuggire al già da sempre, il suo è tenerlo ben saldo, come molti psicoanalisti. Desiderio di non concedere alcuna plasticità alla struttura dell’inconscio, e quindi alla coazione a ripetere e alla pulsione di morte. Desiderio di rifiutare di ammettere che tali istanze — che non mi è mai passato per la mente di mettere in discussione e di cui mi occupo costantemente nel libro — possono cambiare. E che possano farlo a partire da ciò che sin dall’inizio Freud ha represso (non dico rimosso), a partire da ciò che ha lasciato dietro di sé, senza mai tornarci davvero, scrollandosi di dosso come un’ombra o un vestito troppo stretto il suo passato da neurologo: il cervello, “il sistema nervoso”, come dice lui. Un apparato di cui Lacan — così a me sembra — parla assai poco, per non dire mai, all’insegna dell’orizzonte del suo già da sempre.
Ma fermiamoci qui con il gioco del desiderio contro il desiderio, sebbene mi venga ancora voglia di chiamarlo in mio aiuto. È per me davvero grande la tentazione di concludere che alcuni miei lettori molto semplicemente obbediscono al desiderio di negare l’evidenza. L’evidenza della svolta neurobiologica — quella che giustamente Changeux ha definito come una “rivoluzione” — che scuote ormai da più di cinquant’anni, insieme a quello della neurologia classica, l’intero universo della psicoterapia. L’evidenza del pressante problema che le malattie neurodegenerative e i traumi cerebrali pongono alla psicoanalisi classica. L’evidenza di una uniformizzazione neuropatologica delle reazioni ai traumi: indifferenza, distacco, freddezza emotiva. L’evidenza del fatto che di per sé un trauma cerebrale può essere una tabula rasa — una seconda tabula rasa, se vogliamo — che cancella la condizione trascendentale della prima.
Per quale motivo non accordare alla distruzione una forza plastica e metamorfica, in grado di scolpire un individuo totalmente nuovo, senza alcun legame col proprio passato, e refrattario a un tipo di cura che non è di alcun aiuto per comprendere questa emergenza improvvisa?
Nel libro ho parlato della sindrome di Alzheimer di mia nonna. In diverse opere apparse dopo Les nouveaux blessés, ho analogamente fatto riferimento a una dichiarazione di Marguerite Duras sul suo viso, improvvisamente metamorfizzato quando lei aveva 18 anni, conferendole, come per accidente, un invecchiamento precoce. Ho esplorato il divenire del concetto di meraviglia, la prima di tutte le passioni secondo Descartes, quella facoltà di sorprendersi e di stupirsi che nessun filosofo ha mai messo in discussione e che tuttavia diversi malati perdono in maniera completa e irrimediabile.
In tutto il mio lavoro, ciò che provo a mostrare è che non esiste nulla di indistruttibile, nulla di indecostruibile. È possibile che non ne rimanga nulla, assolutamente nulla. Che nessun orizzonte né alcun trascendentale, né alcuna Cosa, né alcuna memoria, resista all’effrazione del fuori, al colpo immotivato. È possibile che stia qui la nuova economia, mondiale, della violenza. È possibile che sia un’economia al tempo stesso psichica e biologica. Inconscia e cerebrale. Il concetto di inconscio cerebrale rimane ancora da esplorare. La neuro-psicoanalisi ha iniziato a farlo. Forse non ancora in maniera abbastanza radicale. Spero che altri filosofi si mettano all’opera. Ma dove sta il desiderio dei filosofi, oggi?
A proposito delle considerazioni sul trauma di Slavoj Zizek c’e’ da dire una cosa; che affermare che il trauma e’ innanzitutto un fatto anatomico al quale si lega un “effetto” psichico e che tale legame, come affermava Freud, dipende dalla “oscurita’” del fatto anatomico, con una diagnosi clinica inspiegabile che l’indagine sulla psiche potrebbe spiegare, ebbene esclude che la malattia psichica abbia una sua diagnosi valida autonoma. Su questo punto Basaglia ha fondato il suo idealismo, andando a rendere desuete le strutture manicomiali. Inoltre, se dobbiamo fondare certi problemi sessuali femminili sulla mancanza del pene, andremmo a giustificare una assenza della sessualita’ femminile non solo dal punto di vista patologico, ma anche da quello “sostanziale”, come si dice nel testo facendo riferimento alla res extensa cartesiana. Infatti non e’ data neppure, sinora, un’esistenza della sfera intima femminile che probabilmente appare ad un certo condizionamento sociale, come cosa da donne e quindi legata alla maternita’. Come si vede il patologico psichico e’ sempre di natura traumatica, come diceva Freud, causato da dolori fisici; resta pero’ il fatto che l’interpretazione della ricerca delle cause non puo’ essere fatta dallo psicanalista, ma dal soggetto stesso il quale non puo’ guarire se non e’ evidentemente sano di suo…