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di Francesco Rocchi

La scuola è stata senz’altro uno dei fronti su cui più si è speso il governo di Matteo Renzi. Non sembra però che le riforme introdotte abbiano conquistato il cuore degli insegnanti, nonostante le risorse investite nel sistema siano state per molti versi massicce. Le ragioni di questa freddezza variano molto da docente a docente: alcuni sono ostili alle idee di fondo della riforma (spesso con una buona dose di corporativismo), altri pensano che i principi generali che hanno ispirato la riforma non abbiano trovato adeguata concretizzazione e si siano dispersi in una serie di compromessi in cui l’unica vincitrice, alla fine, è la burocrazia.

Io credo di appartenere alla seconda categoria: credo fermamente che l’operato dei docenti vada valutato (per il bene degli studenti), non ho timore ad assegnare maggiori poteri ai dirigenti scolastici e sostengo da sempre che il mercato del lavoro degli insegnanti dovrebbe diventare più simile a quello di altri mestieri, il che vuol dire che sono a favore della chiamata diretta, sia pure variamente temperata. Ovviamente credo anche molto nella stringente necessità di controlli seri sull’operato di un dirigente scolastico, così come credo che un corpo ispettivo efficace sarebbe utile in primo luogo ai docenti, che saprebbero a chi rivolgersi in caso di dirigenti incapaci o inadempienti.

Vedendo la distanza tra le mie speranze (forse eccessive?) e lo stato dell’arte nella scuola italiana, la mia personale reazione, ora, è di cercare di buttar giù uno schizzo di come vorrei che fosse la scuola superiore italiana, almeno in alcune linee essenziali. Un esercizio forse astratto, o magari una fuga nel fantastico. Ma forse anche un modo di trovare un senso e una direzione nei numerosi cambiamenti che avvengono sulla pelle della scuola italiana, ancora molto dipendente, anche per le minuzie, dalle circolari ministeriali, le quali a loro volta non si segnalano né per chiarezza né per essenzialità.

Tra le tante questioni da cui si potrebbe partire, scelgo di cominciare da quella relativa al come usare i docenti all’interno di una scuola. Ora che abbiamo un organico di potenziamento, ovvero un gruppo di docenti che non sono assegnati a nessuna classe in particolare, ma si prestano a sviluppare qualunque progetto o attività la scuola pensi di realizzare. A ciò collegherò il problema della valutazione degli studenti, che non considero separato dal resto.

Ebbene, la mia idea di fondo è che la scuola italiana dovrebbe darsi una mossa a rinunciare al concetto stesso di classe, e che questo farebbe bene non solo agli studenti ma anche ai docenti.

Cos’è una classe? Nient’altro che un assortimento casuale di una ventina-trentina di studenti messi in una stanza, di fronte ai quali sfilano una serie di persone che danno loro lezioni di varia natura, così come previste dal monte ore ministeriale per ogni materia. Ogni classe fa da sé ed è isolata dalle altre, tanto che né studenti né docenti sanno se non vagamente quel che avviene nelle altre aule. Queste entità monadiche, le classi, creano al loro interno un sentimento di appartenenza e di gruppo il cui senso è uno solo: semplificare la vita al docente. Un docente sa che la sua classe è composta da individui, ma per comodità finisce spesso per limitarsi a parlare della classe nel suo complesso: la classe segue, la classe è attenta oppure no, la classe è o non è di buon livello ecc… Tutte semplificazioni che sovente poi si coagulano e diventano palesi in quei rimproveri che i docenti spessissimo rivolgono ecumenicamente all’intera classe, abusando di un voi collettivo che dovrebbe invece essere usato assai parcamente. Si può aggiungere che anche i documenti ufficiali che i docenti compilano (programmazioni, programmi, verbali ecc.) hanno come focus la classe più che gli individui, a meno che questi non abbiano problemi specifici.

Insomma, è evidente che la classe è un mondo chiuso ed autoreferenziale, sia dal lato studenti, intruppati in un sistema che ne deprime l’individualità e li lascia ignari di quello che fanno i compagni al di fuori della classe, sia dal lato docenti, che fondamentalmente lavorano da soli.

Nello strano hortus conclusus che ho appena descritto, può destare stupore che voti e valutazione diventino una sorta di nevrosi? Diciamo piuttosto che sarebbe sorprendente il contrario: nella piena autoreferenzialità della classe è ben difficile che il voto che il docente assegna possa essere obiettivo e significativo: quali sarebbero gli standard cui fare riferimento? Cosa impedisce che i voti siano messi sulla base delle ubbie del docente, delle simpatie ed antipatie che avrà inevitabilmente sviluppato o della sua generica idea complessiva della classe? In docimologia si parla spesso di effetto-alone, ovvero di quel particolare fenomeno in virtù del quale un docente finisce per valutare i compiti e le interrogazioni dei propri studenti non su base oggettiva, ma confermando continuamente il proprio pregiudizio sugli studenti. Ebbene, senza riferimenti esterni, è fin troppo facile che un docente finisca prigioniero dei propri confirmation bias. Con tutto il lavoro e tutto il processo di valutazione inglobati nella relazione con il docente e con solo i compagni di classe per un confronto diretto (in ogni caso improprio), l’unico senso sano che la valutazione può avere, quello di fornire critiche costruttive e di indicare cosa va bene e cosa va male (in senso “diagnostico”), si perde in favore di quell’uso perverso in cui il voto è usato come ricompensa e gratificazione o, all’inverso, come punizione.

Non è probabilmente un caso che oggi l’unico valido strumento diagnostico a disposizione delle scuole sia quello strettamente oggettivo dell’Invalsi, che in seconda superiore sottopone a tutti gli studenti italiani un test standardizzato, uguale per tutti e con parametri di correzione rigidi.

Si può uscire da questa situazione, in cui la classe ricorda vagamente la caverna di Platone? Sì. Si può. Oserei dire che si deve, ma per il momento accontentiamoci. Siamo tutti d’accordo che ogni istituto scolastico, in qualsiasi modo lo si voglia vedere, è una vera e propria comunità autonoma. Sarebbe forse ora che cominciassimo a dare un significato concreto a quest’idea di comunità, cosa che non sarà possibile finché il concetto stesso di classe non sarà superato.

Non è una cosa poi così peregrina. Nelle scuole anglosassoni (e non solo) la classe di fatto non esiste: ogni studente si sceglie i propri corsi e gira di aula in aula, dove trova un docente che considera quella stanza come sua, e non degli studenti (come facciamo noi). Già adottare un approccio del genere significherebbe molto (qualche scuola lo ha fatto), ma si può andare oltre.

Oggi abbiamo un programma per ogni materia e per ogni classe: i programma che segue la IA non entra mai in contatto con quello che segue la IB, e il prof. di italiano può tranquillamente ignorare quel che in IA fanno gli altri docenti, anche quelli con cui i collegamenti sono più facili, come gli insegnanti di arte o di lingue straniere. Dove sta scritto che debba essere così? Cosa impedisce ai docenti della stessa materia, che già ora si raccolgono in dipartimenti, di farsi una programmazione comune per tutta la scuola o per singoli corsi? Non si vuole dire che tutti gli studenti di un dato anno debbano fare la stessa cosa, ma semplicemente che sarebbe bello far sì che tutti lavorino a un progetto comune, cui tutti contribuiscono.

Faccio un esempio con italiano (solo perché è una materia che insegno): immaginiamo che il dipartimento decida che tutte le terze debbano approfondire la cultura toscana all’epoca di Dante. In una scuola come quella che tento di abbozzare, tutti i professori di italiano, o almeno quelli che hanno delle terze, raccoglieranno materiali, struttureranno unità didattiche comuni, elaboreranno le prove di valutazione e costruiranno un percorso che sarà replicabile e adattabile in tutte le aule, dove i docenti guideranno gli studenti sapendo bene cosa succede negli altri corsi e favorendo la collaborazione e il dibattito tra tutti gli studenti della scuola, non solo tra i membri dello stesso gruppo d’aula. Ogni studente potrà confrontarsi con tutti i coetanei della scuola, i lavori di gruppo saranno trasversali, i prodotti del lavoro degli studenti (poster, powerpoint, dipinti, disegni, libretti o qualsiasi altra cosa ci si voglia far venire in mente) verranno condivisi con tutta la scuola, ad esempio attraverso vere e proprie esposizioni, lezioni magistrali in aula magna, podcasts caricati sul sito della scuola, e chi più ne ha più ne metta.

Non è neanche necessario che ogni professore faccia le stesse cose degli altri: una volta che si lavora tutti insieme, i docenti si possono suddividere gli approfondimenti, mettendo ognuno a frutto le proprie capacità e conoscenze disciplinari. Per rimanere all’esempio della cultura fiorentina, un docente si metterà a lavorare sui cronachisti come Villani o Compagni, approfondendoli particolarmente bene, mentre un altro coprirà i poeti, ed un altro ancora la nascente divulgazione scientifica.

È evidente che tale suddivisione potrebbe riverberarsi sul lavoro degli studenti, che per lavorare insieme si raccoglierebbero non in classi burocraticamente intese, ma in gruppi tematici di lavoro. Certo, si potrebbe anche usare l’approccio contrario e decidere che gli approfondimenti dei docenti siano messi in comune e dati a tutti gli studenti indistintamente, ma il bello di questo sistema è proprio questo: si può valutare di volta in volta cosa sia meglio, perché di modi diversi di articolare la didattica se ne possono trovare a milioni. In altre parole, si potrebbe trasformare la scuola in una comunità attiva e dialogante, in cui i docenti, accompagnati dagli studenti, metterebbero i loro talenti a disposizione di tutta la scuola, non solo della propria classe.

Facciamo al riguardo un altro esempio, immaginando di avere un professore particolarmente competente in astronomia: rotto il blocco-classe, è facile immaginare una situazione in cui le lezioni su galassie e buchi neri le tenga tutte lui, magari in aula magna e di fronte a tutti gli studenti il cui curriculum prevede astronomia. Starà poi agli altri docenti (di concerto con il prof. astronomo) elaborare didatticamente la materia, preparando gli esercizi, sostenendo quelli che hanno avuto più difficoltà e valutando poi gli apprendimenti, con correzioni trasversali in cui è coinvolto tutto il dipartimento.

Il vantaggio non sarebbe solo per gli studenti, ma anche per i docenti. Oggi gli insegnanti sono veri e propri tuttologi: nella mia giornata media posso tranquillamente trovarmi a discettare dottamente, di ora in ora, della poesia stilnovistica, poi della crisi missilistica di Cuba, della crisi dell’impero romano nel III secolo e infine di consecutio temporum. In una scuola organizzata in maniera più razionale ed elastica gli insegnanti si ritroverebbero di fatto a specializzarsi su tematiche e ambiti specifici che gli interessano particolarmente. Non sarebbe strano se, lavorando distesamente e con il contributo dei colleghi su temi più circoscritti, un insegnante possa trovarsi a produrre materiali meritevoli di diffusione al di là della scuola, magari con uno sbocco accademico sotto forma di articoli, libri divulgativi, manualistica ecc. (anche se forse ciò è possibile più nelle scienze umane e sociali che in quelle naturali).

Va da sé che le possibilità di lavoro interdisciplinare a questo punto sono quasi infinite. Professori di scienze, filosofia, storia e letteratura che lavorano fianco a fianco sarebbero la normalità, non l’eccezione.

Ma per quanto riguarda voti e giudizi? Beh, una valutazione serena degli apprendimenti in un contesto del genere non sarebbe difficile: ogni voto espresso da ogni singolo docente sarebbe supportato da tutti i docenti competenti, e correlato ad attività i cui effetti pratici si riflettono su tutta la comunità scolastica: se un ragazzo fa infatti un lavoro valido su un qualche argomento specifico, il suo lavoro potrà essere condiviso con tutti gli altri studenti interessati. Se al contrario esso non è valido, sarà più facile indicare dei concreti esempi alternativi allo studente che ha bisogno di un maggiore instradamento, di modelli o semplicemente di qualche spunto utile. Diventa anche molto più difficile che uno studente possa prendere osservazioni e critiche (e brutti voti) su un piano personale, cosa che crea sempre molti danni.

Tutto questo non è impossibile. Anzi, non è nemmeno particolarmente difficile da fare. La legge sull’autonomia scolastica guarda in questa direzione, e non sono di certo il primo ad aver immaginato una scuola di questo tipo. Soltanto, diverse cose nella scuola secondaria italiana devono cambiare.

Lo scrutinio degli studenti incardinato sulle discussioni in consiglio di classe non è uno strumento capace di supportare un sistema del genere, così come non lo è il collegio docenti. Oggi il consiglio di classe raccoglie tutti i docenti della classe, ma le loro discussioni finiscono spesso per essere un semplice adempimento burocratico: si maneggiano un po’ i voti, si calcolano medie e crediti, un po’ di chiacchiere, e fine. Vi manca il confronto con i docenti di altre classi, non vi si trattano, se non marginalmente, problemi di pedagogia e didattica, né vi si progetta nulla. Il collegio dei docenti, a sua volta, è un’assemblea spesso confusionaria, in cui è difficile o del tutto impossibile tentare di governare e discutere la didattica della scuola. Difficile impostare una scuola dinamica e reattiva su qualcosa di così lento ed inefficiente.

Devono cambiare e specializzarsi le competenze del dirigente scolastico, che ad oggi è sì dirigente, ma con pochissimi poteri: non assume gli insegnanti, è oberato di burocrazia e non si occupa praticamente mai di didattica (si veda la ricerca commissionata dalla Fondazione Agnelli al riguardo). Va poi creato il docente senior: un insegnante esperto con funzioni di coordinamento e di approfondimento, che segua e promuova tutte le attività che gli sembrano utili, che segua i colleghi più giovani, che contribuisca a coordinare e a elaborare dei piani di sviluppo a cui tutti siano poi vincolati.

È anche necessario abolire le Indicazioni Nazionali, abbandonando l’attuale approccio enciclopedico al suo destino. Le Indicazioni Nazionali sono, per dirla in sintesi, la summa degli argomenti su cui ci si aspetta che gli studenti di liceo siano messi a lavorare, materia per materia, anno per anno. È sulla base di questo documento che i professori scrivono poi le loro programmazioni. Il problema è che si tratta di un documento di impianto vetusto, iper-dettagliato, che per adattarsi a tutti i licei, non si adatta a nessuno. Un po’ meglio sono le Linee Guida, che regolano invece le altre scuole (tecnici e professionali), ma rimane il fatto che si tratta di documenti di impianto centralistico che mortificano l’autonomia e l’intraprendenza.

Bisogna modificare profondamente o anche abolire del tutto l’Esame di Stato, il sistema di crediti che vi è collegato e piantarla con l’ipocrisia dei commissari esterni. Con i crediti scolastici, il voto finale all’Esame dipende, in parte, anche dalla media dei voti presi dal terzo anno in poi: in virtù della media voti posseduta, infatti, vengono assegnati più o meno punti (crediti) nel computo del voto dell’Esame di Stato, con il risultato che chi ha avuto una brutta terza liceo ne pagherà il prezzo all’esame due anni dopo. E si consideri che nel calcolo della media si arriva a considerare anche i punti decimali!

Va anche drasticamente asciugato il ruolo degli uffici amministrativi ministeriali, in favore di enti tecnici e professionali. Gli uffici territoriali del ministero, ed il ministero stesso, sono infatti organi principalmente amministrativi: il loro compito è elaborare graduatorie, distribuire fondi, monitorare gli adempimenti burocratici e tutto quello che ha a che fare con l’organizzazione della scuola, ma “sanno” poco o nulla di didattica e pedagogia, perché non gli compete. Di queste si occupano piuttosto istituti come l’Invalsi e l’Indire (il primo per la valutazione della qualità del sistema d’istruzione, il secondo per l’innovazione didattica), che però hanno le loro belle difficoltà organizzative e non riescono a sostenere le scuole nella maniera capillare e approfondita che pure servirebbe.

Ma di questi “dettagli” si potrebbe discutere all’infinito. A monte di tutto questo, c’è un pre-requisito imprescindibile: qualsiasi cosa si voglia fare delle scuole italiane, sarà impossibile farlo senza assumere bravi docenti. Non entro nei dettagli dei problemi relativi al “reclutamento”, ma questo è il fronte forse più importante: non esiste alcuna riforma della scuola che possa funzionare senza bravi insegnanti, cui sia data la possibilità di operare senza essere travolti da tonnellate di burocrazia e da regole vetuste e arzigogolate.

Siamo molto indietro anche su questo, e anche su questo la Buona Scuola ha finito per elaborare una proposta così farraginosa da essere probabilmente dannosa.

Ma per non rovinarci del tutto la nostra fugace visione di una scuola diversa, possiamo forse evitare di aprire quest’altro fronte, e chiudere qui.

[Immagine: aula scolastica]

8 thoughts on “Immaginare (ancora!) una scuola secondaria diversa

  1. 1) La maggior parte dei docenti deve seguire più classi, quindi partecipa a più consigli di classe: non è vero che manca di possibilità di confronto con i colleghi al di fuori dell’ipotetica classe-monade

    2) Il solo modo per consentire un lavoro interdisciplinare efficace è che ogni docente abbia competenze e conoscenze che vadano oltre i confini strettamente disciplinari della sua materia. L’università è un ottimo esempio dei danni prodotti dalla iper-specializzazione, e non c’è persona che invogli più a fuggire (per esempio) dal latino di un professore che sappia solo il latino. Essere tenuti all’insegnamento di materie affini ma diverse, dando ovviamente al docente gli strumenti per aggiornarsi, sarebbe un grandissimo vantaggio e non cero un limite

    3) La sola cosa che permetta di mantenere nelle scuole supoeriori uno standard di preparazione non del tutto infimo è la presenza dell’esame di Stato con prova uguale per tutti (e una commissione che però oltre al punteggio sappia anche valutare sforzi e progressi compiuti da ogni singolo allievo). Se la prova se la scegliesse ogni singolo istituto avremmo da un lato una micidiale corsa al ribasso (sia per pigrizia dei docenti, sia per attrarre iscritti) e dall’altro in pochi e privilegiati posti una opposta tendenza a rendere le prove ancora più difficile, sviluppando quei famigerati “centri di eccellenza” che temo servano soprattutto a produrre plotoncini di sgobbatori disadattati

    4) Se un allievo ha fatto, per sua responsabilità o incapacità, un cattivo terzo anno, perché mai non dovrebbe pagarne le spese nel voto dell’esame di Stato? In quel punteggio si valuta l’andamento complessivo, ed anche gli insuccessi ne fanno parte, senza che ciò peraltro abbia valenza punitiva.

  2. Premetto che sarebbe lungo commentare l’intero intervento di Francesco Rocchi, mi ritengo d’accordo con lo spirito della sua tesi complessiva del valorizzare la valutazione degli insegnanti e l’autonomia scolastica. Trovo comunque interessanti anche alcune osservazioni critiche di Jacopo e commento anche queste

    1) i due fatti che ci siano docenti che insegnino in più classi e che partecipino in più consigli di classe sono propri i due fatti in cui le classi rimangono monadi perché non accade mai in tali casi che professori di italiano o fisica incontrino i loro colleghi che insegnano le stesse materie.

    2) Per quanto riguarda le “competenze e conoscenze che vadano oltre i confini strettamente disciplinari” certo che ci sono collegamenti tra ogni materia (tra italiano e storia, tra filosofia e matematica…) e in effetti bisognerebbe valorizzare di più le compresenze. Per quanto riguarda

    3) Anch’io sono d’accordo con la presenza di un esame di stato con prova uguale per tutti, ma se vogliamo dare molto valore a questo aspetto l’esame deve essere molto diverso da quello attuale, io farei una commissione totalmente esterna e il comunicare già all’inizio dell’anno una rosa ristretta di temi che possono uscire all’esame per evitare che in una scuola un tema si sia affrontato molto di più che in un’altra, ad esempio che nella prima prova l’autore dell’analisi del testo può essere Montale, Svevo o Fenoglio. Ala domanda “Se un allievo ha fatto, per sua responsabilità o incapacità, un cattivo terzo anno, perché mai non dovrebbe pagarne le spese nel voto dell’esame di Stato?” io invece risponderei che il problema è che mentre l’esame è facile farlo uguale per tutti, è molto più difficile che qualsiasi gruppo possibile di professori valutino in modo uguale l’anno di un certo allievo. Tuttavia a me risulta che il peso dei tre anni nell’esame conti solo un quarto del punteggio finale o poco più, correggetemi se sbaglio. Un ultima cosa importantissima: tutto questo l’ho detto dando per scontato che Rocchi intendesse lasciare intatto il “valore legale del titolo di studio” se lui invece vuole abolirlo io sono d’accordo con la sua proposta, basta che vengano aggiunti nell’accesso all’università e al mondo del lavoro controlli al fine di sapere se il ragazzo dimostra di possedere le capacità e conoscenze che prima si dimostravano col diploma.

  3. Ci sono molti spunti interessanti in questo intervento, anche se, mi pare, anche tanto whisful thinking.
    Parto da questo aspetto, che è una critica che può risultare sgradevole per continuare poi con la discussione nel merito, perché, ripeto, mi sembra che l’intervento contenga molte cose interessanti e importanti.

    1) Wishful thinking. Avere una visione globale è importante, i problemi della scuola si comprendono solo nella prospettiva sistemica e nell’interrelazione fra le questioni (ma in quale ambito ciò non è vero, in effetti?). Ma tra la dimensione della comprensione e quella dell’azione (sia pure immaginata, ma dovrei dire più propriamente vagheggiata e, credo, sinceramente auspicata dal collega) purtroppo ne passa. Nella parte finale dell’intervento si accumula un ben lungo elenco di fattori concomitanti e concause, necessari alla produzione degli effetti auspicati. Voglio dire: Rocchi descrive nei dettagli e con competenza alcune proposte pratiche per gestire meglio la vita scolastica, ma riconosce che per fare tutto ciò ci vorrebbero un corpo ispettivo che valuti i presidi, presidi che valutino i docenti (mi par di capire “seriamente, sulla capacità didattica”: la vedo lunga e dura), la riorganizzazione degli uffici scolastici, una selezione degli insegnanti radicalmente meritocratica, ecc… troppo, troppo davvero.

    2) Temi importanti e proposte convincenti.
    2a) Le classi aperte. Non farebbe male aprire il gruppo classe. Per cominciare potremmo pensare ai recuperi in itinere (cosiddetti) in questa modalità, permettendo ad alcuni ragazzi di approfondire, con un docente, la materia nella quale vanno bene, e agli altri di recuperare.
    Anche la proposta di Rocchi di classi aperte diciamo su progetti è interessante. Io andrei solo cauto nell’applicazione, e mi limiterei a fare uno, due progetti in un anno, e su periodi di tempo circoscritti; altrimenti il rischio spezzatino delle conoscenze disciplinari è dietro l’angolo.
    2b) A ciascun docente la sua aula, la parziale specializzazione dei docenti su temi precisi e la fine della tuttologia. Rocchi ha ragione, i docenti (direi certi docenti: di scienze e noi di lettere su tutti) devono fare troppe cose. Da un certo punto di vista la specializzazione è ormai imposta dalle stesse esigenze di apprendimento e di insegnamento: ci andrebbe un docente o un gruppetto di docenti che sappia/no gestire, che so, il tema della comprensione del testo, il tema della scrittura argomentativa, la didattica di Dante, la didattica della storia antica (ma non di quella contemporanea), ecc…
    Su questo mi piacerebbe anche tornare a parlare di docenti che studiano per i fatti propri e POI mettono le proprie conoscenze e competenze a disposizione, invece di vedere aggiornamenti obbligatori, per i quali, anche in questo caso, è dietro l’angolo la burocratizzazione.
    2c) Valutazione. Non credo che sia necessariamente la solitudine con la quale attualmente valutiamo gli studenti che produca la valutazione punitiva invece che quella che chiamerei “ermeneutico-pedagogica”. Io do i voti ma faccio in modo che la mia valutazione fornisca sempre descrizioni della prestazione, punti di forza, punti di debolezza, strade da percorrere per migliorare… Però è vero che valutazioni trasversali, per dipartimento, incroci, confronti, sarebbero necessari e dovremmo cominciare a farli.

    3) Proposte problematiche, anzi proposta problematica. Pensare di trasformare integralmente e radicalmente la scuola fondata sul gruppo classe in scuola fondata su gruppi di lavoro tematici è una rotazione di 180 gradi che rischia di essere velleitaria. Mi sembra di capire dalle parole di Rocchi che si tratterebbe di lavorare per gruppi, in modo cooperativo, con la modalità della ricerca e la successiva produzione di materiali. Ora, le competenze diffuse per fare questo tipo di lavoro in Italia non ci sono. In secondo luogo, una scuola siffatta, almeno con questa radicalità, non è a mio avviso nemmeno auspicabile. Banalmente, per impostare una ricerca, per condurla a termine, per riassumerne gli esiti in power point, dipinti, disegni, lectiones magistrales, ecc… è già andato via un quadrimestre (ok, esagero: ma vorrei solo sottolineare, sottolineare, sottolineare il fattore più bastardo di tutti a scuola: il fattore-tempo). Con questa modalità si saranno certamente messe in campo molte competenze e si sarà sviscerato un argomento a fondo, ma non resterà molto tempo per altro (esperienza mia di questi giorni. Volevo far capire ai ragazzi di quinta le ragioni dell’instabilità del Medioriente e l’Isis. Sono partito dalla Prima guerra mondiale e sono arrivato al Califfato dello Stato Islamico. Con lezioni frontali, studio del manuale, powerpoint, lettura e analisi di articoli da Internazionale e Limes, documentari, … ho allargato il discorso, mentre c’ero, a tutto il Medioriente: Israele e Palestina, rivoluzione iraniana, rivoluzione nasseriana, rivoluzione kemalista, …). Oggi ho ripreso “il programma” da dove l’avevo lasciato: conferenza di pace di Parigi, 1919. Mi restano 3 mesi e mezzo. Temo che non andrò oltre la fine della Seconda guerra mondiale. Non farò la Guerra fredda, il mondo bipolare, la decolonizzazione, gli anni Ottanta, la ex Jugoslavia e i suo massacri, ecc… Che Iddio mi perdoni. Morale: c’è una serie di conoscenze diciamo pure preliminari che vanno fornite, specie in una materia come storia. Sapere i fatti. Saperne molto bene solo alcuni, avendo sviluppato la competenza, che so, di esposizione orale, non basta. Questo è un problema: procedere intensive VS extensive. Bisogna trovare un equilibrio. Ma non dico altro, ho già parlato di questi problemi in un pezzo sulla lezione frontale. Se interessa a qualcuno, lo trova sempre qui su LPLC. Scusate l’autocitazione. Ma è inutile che mi ripeta, visto che siamo per altro nello stesso “luogo”).

    Saluti

  4. Rispondo ad alcune osservazioni, per le quali ringrazio tutti e tre i commentatori.

    @Jacopo

    1) Sul punto dei consigli di classe ha già risposto Michele De Russi. Ma aggiungo questo: nella mia esperienza, nei consigli di classe non si parla mai delle materie insegnate, del lavoro fatto, degli esercizi o in generale del merito del lavoro. Soltanto degli studenti, e generalmente in maniera molto generica (si applica, non si applica, è educato, no, non lo è, e così via).

    2) Il lavoro interdisciplinare non può essere coperto da un solo docente, visto che le discipline coinvolte possono essere anche assai lontane tra di loro.

    3) L’Esame di Stato ha, sì, un effetto stimolante. Lo stimolo della paura, in primis, che mi interessa davvero poco. Poi ha anche lo stimolo del confrontarsi con qualcosa di esterno, fuori dal recinto protetto: questo mi interessa di più. Ma rimane mal congegnato, arbitrario, vago. Si possono pensare forme di uscita dalla scuola molto più significative. Gli esami dell’International Baccalaureate in questo senso sono molto più complicati e raffinati, tanto per fare un esempio. Ma anche quelli del GCSE inglese, dove la strutturazione della prova e i principali argomenti sono noti con anni di anticipo.

    4) A noi interessa un diploma che certifichi il livello di preparazione di uno studente al momento della fine della scuola. Non durante. L’apprendimento non ha un andamento lineare: si rimane indietro, poi si recupera, poi di nuovo, poi si decolla, se va bene. Se un ragazzo nel 2016 ha avuto problemi, che poi magari ha risolto, non puoi penalizzarlo nel 2019. E’ come dire che all’esame della patente ti boccio perché hai guidato benissimo, ma sei mesi prima, appena preso il foglio rosa, avevi sbagliato un parcheggio. Non ha senso. Quel modo di fare è stato introdotto come sistema deterrente e come motivazione allo studio. Non ha funzionato.

    @Michele De Russi: sì, per quanto ora, come docente dell’ultimo anno, mi faccia comodo dire agli studenti “Fate questo, fate quello, che vi torna bene con il commissario esterno!”, io l’esame effettivamente non lo vivo come essenziale. Ormai sono le le ammissioni all’università a costituire lo scoglio reale. Il resto è un po’ vacua tradizione.

    @Daniele Lo Vetere

    1) Eh sì, c’è tanto da cambiare. Un cambiamento così radicale è fattibile? Non saprei, ma le cose da cambiare rimangono quelle. Il pragmatismo dell’azione non toglie nulla alla lunghezza dello sguardo, diciamo. Molte delle cose che propongo in ogni caso esistono già. Il corpo ispettivo che vagheggio esiste in diversi Stati europei (non senza problemi, come in Svezia, dove il sistema è nuovo e rilevano problemi seri); le aule tematiche, sia in Italia che all’estero, ci sono (caso recente in Italia: http://iltirreno.gelocal.it/pontedera/cronaca/2016/01/16/news/cattaneo-aule-tematiche-contro-la-carenza-di-spazi-1.12788916)

    2) Il rischio spezzatino lo vedo soltanto se gli studenti non capiscono come ci si deve regolare con una didattica organizzata in maniera nuova e finiscono per perder tempo (col che rispondo anche all’osservazione successiva sui tempi).
    In una scuola innovativa bisogna spendere del tempo anche per far capire cosa si vuole da loro: bisogna “addestrarli” al tipo di scuola in cui li si vuole inserire. Questo richiede tempo, ma più che altro nei primi anni, dopodiché i ragazzi dovrebbero aver capito come funziona e il lavoro diventa più semplice. Ovviamente l’aspetto enciclopedico deve asciugarsi notevolmente, ma le possibilità di sintesi e di categorizzazione, nonché l’elaborazione di un bagaglio di conoscenze generali mi sembrano obiettivi ampiamente alla portata, soprattutto se si usano strategie didattiche un po’ meglio di quelle tradizionali.

  5. Sono d’accordo con Daniele Lo Vetere. Con Francesco Rocchi quando scrive che una scuola di vaglia si fa con insegnanti bravi: perchè questa affermazione, che giustamente è indicata dallo stesso Rocchi come prerequisito del discorso, è collocata alla fine dell’intervento? Perchè si rinuncia ad aprire il “fronte” di discussione critica che, se il prerequisito argomentativo fosse considerato a pieno, discenderebbe da esso con grande linearità ed evidenza? Dato quel presupposto, si tratterebbe in sostanza di dire:
    1) che il sistema di reclutamento deve essere ripensato e riorganizzato;
    2) che la formazione in servizio deve essere curata adeguatamente (con attenzione a che siano garantite le modalità di studio/ricerca ispirate ai criteri della corresponsabilità e della cooperazione);
    3) che i docenti devono essere pagati adeguatamente;
    4) che il sistema di valutazione del loro lavoro non deve essere lesivo della loro dignità e che, quindi, deve essere affidato a soggetti competenti ed esterni in modo tale che in nessun modo venga compromessa la libertà di insegnamento di cui parla la Costituzione.
    Pertanto, la legge 107, oltre che farraginosa e incoerente, è proprio impertinente ( e inutile e peggiorativa) rispetto alle questioni chiave.
    Il re è nudo: bisogna dirlo.
    Ogni altra proposta – classi sì, classi no; aree progetto; multi/inter/transdisciplinarietà; etc. – merita di essere discussa, certamente, ma in un momento successivo, in cui le condizioni di contesto siano accettabili: ciò che oggi manca, nel disegno che, rincorrendo la fascinazione della scuola come azienda, volta le spalle alla strada della scuola comunità di pensiero critico e di cultura che, invece, dovevamo – e pure con urgenza! – imboccare.

  6. E’ vero che il governo Renzi, come scrive Francesco Rocchi, “si è speso sul fronte della scuola”, ma è altrettanto vero che lo ha fatto introducendo un radicale cambiamento di segno della politica riformatrice rispetto a quelle autonome pratiche di professionalità riflessiva che dovrebbero caratterizzare l’identità della scuola e di coloro che a vario titolo vi operano (insegnanti, dirigenti, studenti e personale non docente). E quando parlo di professionalità riflessiva intendo riferirmi alla necessità, elusa differita o perfino negata, di sciogliere le ambiguità tra ‘pedagogia del silenzio’ e ‘silenzio della pedagogia’, segno di una modernità scolastica incompiuta che si vorrebbe surrogare con forme di tardivo e affannoso adeguamento a modelli anglosassoni che nei paesi di provenienza sono già obsoleti e in gran parte perenti. Il vero problema, di fronte a cui l’attuale governo è del tutto afasico e cieco, perché ignaro e del tutto impreparato, è invece quello di come si debba agire per garantire l’autonomia della conoscenza e dell’intelligenza collettiva in una sfera pubblica a più dimensioni, che non è né mercato né Stato, né interesse particolare né volontà generale. E qui può ancora aiutarci un protagonista della “grande Rivoluzione”, vale a dire Condorcet, il quale nei suoi rapporti sull’istruzione durante la rivoluzione francese [cfr. “Elogio dell’istruzione (5 memorie sull’istruzione pubblica, 1791)”, Il Manifesto Libri, Roma, 2002], diceva qualcosa di analogo: l’istruzione pubblica non deve essere funzionale né agli interessi di mercato né alle istanze dello Stato né ai bisogni del ‘bourgeois’ né a quelli del ‘citoyen’, ma consustanziale all’essere uomo tra uomini (‘homme publique’). Da qui un sapere che fosse “di più” e “altro”, oggi come durante la Rivoluzione francese, superiore qualitativamente alle prestazioni professionali (di più) e alle condizioni sociali di provenienza (altro). Vi era nei fatti un appello alla scuola come occasione di “rigenerazione dell’individuo” attraverso l’esercizio delle facoltà naturali e del suo spirito critico, poiché – annotava allora Condorcet – “l’ordine della natura non stabilisce nella società altra ineguaglianza che quella dell’istruzione e della ricchezza: estendendo l’istruzione, attenuerete contemporaneamente gli effetti di queste due cause di distinzione”. E ciò in un contesto di rigorosa indipendenza dall’autorità politica, che trova la sua espressione paradigmatica nella libertà di insegnamento: “Nessun potere pubblico deve avere l’autorità di impedire lo sviluppo di verità nuove o l’insegnamento di teorie contrarie alla sua particolare politica o ai suoi interessi contingenti”. Da sottolineare che in Condorcet, pur all’interno di una passione ‘libertà-eguaglianza’, tipica dell’Assemblea Legislativa che opera nell’ambito della Costituzione del 1791, la rigenerazione non è affidata all’educazione ma alla forza della cultura, “una eccedenza rispetto a ciò che può essere ritenuto immediatamente necessario. Un’idea di istruzione pubblica che non solo eccede le cognizioni pratiche richieste dal lavoro, ma anche i bisogni della società più in generale, per garantire la formazione di quei soggetti autonomi (e realmente individuali), capaci di esercitare un giudizio razionale, che soli avrebbero potuto dare vita e senso alla Repubblica in procinto di nascere. Da qui l’enfasi sull’indipendenza dal potere politico. La reciprocità del principio di uguaglianza, principio universale del sapere, si basava sull’autonomia degli individui e delle loro capacità di giudizio, nel divario tra funzioni professionali produttive e ‘Lumi’. La funzione del potere politico era solo quella di garantire tale autonomia generativa sia dal potere politico stesso che da quello economico-utilitario delle professioni e del mercato.

    Sennonché la globalizzazione capitalistica, di cui l’attuale governo è, ad un tempo, promotore e ostaggio, quantunque in modo inquieto e non organicamente performativo (causa la legge dello sviluppo ineguale), nega in radice le soggettività cooperative, vanificando le ipotesi di lavoro interdisciplinare (o multidisciplinare) esibite o prospettate da Rocchi e da altri volenterosi pedotribi, e tutto ciò che eccede le prestazioni produttive deve essere canalizzato, reso innocuo, escluso. Se all’interno il controllo penale subentra al contratto sociale, all’esterno, nella assolutizzazione del mercato, la guerra subentra al mercato stesso. Il capitalismo monopolistico è, così, libero di espandersi sotto diverse forme: visione della competitività, bisogno di adeguarsi al mercato, ottimizzazione delle risorse umane, nel contesto del mercato capitalistico mondiale; crescita di diseguaglianze, impoverimento di massa, “miseria brillante” di un consumismo per ipodotati, spinta all’omologazione, sviluppo a danno dell’ecosistema. Questi processi impongono chiaramente una profonda trasformazione culturale – antropologica – delle relazioni e dei modi di vita.

    Siamo di fronte alla celebrata “new society”: dalla produzione di società si transita verso il consumo della società. Le parole chiave diventano moltitudine, solitudine, incertezza e futuro scarso. Nella ‘new society’ renziana del ‘workfare’ il trovare lavoro, il cambiare lavoro, il continuare a lavorare dipende sempre più dal ‘capitale sociale’ del singolo (per dirla con Bourdieu) che non dalla posizione nella scala sociale. In tal modo la relazionalità ontologica viene sussunta all’essere individui proprietari e competitivi e anche il ‘capitale sociale’ si riduce soltanto a capitale. La persona, deprivata del suo sentire e desiderare, diventa individuo isolato, utente, consumatore, ricetrasmittente, pura macchina del vuoto.

    È in tale contesto che dobbiamo interrogarci sulla scuola, laddove la domanda che va formulata suona in questi termini: è in grado la scuola non solo di convivere con i luoghi (componente costitutiva, identità fisico-spaziale, generatività di valore economico-culturale) e con i flussi (di denaro, di merci, di persone, di informazione e di integrazione di ambiti lontani ed eterogenei), ma anche di interconnetterli, mediante comune costruzione di significati, in comportamenti solidali, generati da competenze emotivo-razionali, da capacità comunicativo-sociali e da conoscenze trans-culturali, sia nelle politiche che nei soggetti? E l’insegnante, nella sua quotidiana azione didattico-pedagogica, è in grado di governare le dinamiche dell’organizzazione scolastica, nel loro essere forma ed esistenza sociale, luogo instabile di interconnessioni non garantite se non eventualmente da professionalità critico-riflessive, capaci di generare pratiche sociali cooperative (mediazione sociale) e ricerca scientifica rigorosa (mediazione culturale)? Come accompagnare gli studenti nella loro crescita intellettuale, sociale, morale, riconoscendoli nel loro essere irriducibili – l’altro non è me né un altro per me – e nella loro eterogeneità? Insomma, come far sì che la scuola, sia per gli insegnanti che per gli studenti, possa essere ‘luogo-momento’ di crescita reciproca, intesa come “agevolazione e intensificazione della vita” (‘Beförderung des Lebens’), un insieme di pratiche riflettenti nelle quali le soggettività individuali, autonome e intersoggettive, libere dalle pretese del dominio, intraprendono azioni innovative trasferibili lungo tutto l’arco della vita. A questo proposito, il vecchio Kant ci viene ancora una volta in soccorso, là dove nel paragrafo 40 della “Critica del Giudizio” individua tre massime per le procedure riflessive che identificano l’universale (il ‘concetto-scopo’) e gli conferiscono una necessità “esemplare”: “1. Pensare da sé; 2. Pensare mettendosi al posto degli altri; 3. Pensare in modo da essere sempre d’accordo con se stessi”. La “buona scuola” di Renzi, se commisurata a questi parametri e a questi ‘concetti-scopo’, è il ‘non-luogo’ a partire dal quale una simile problematica non è neppure pensabile. Temo proprio che coloro che si illudono di poterlo fare siano rimasti sedotti dall’antica ricetta per costruire i cannoni: prendere dei buchi e metterci attorno del ferro.

  7. Per pietà, non ci pensate nemmeno: la cosa principale di cui la scuola italiana ha bisogno è tanto silenzio. Concediamole clemenza: almeno quindici anni senza riforme, dai. E formiamo gli aspiranti insegnanti seriamente, e non contando i bonifici che versano nelle casse di Ministeri e Università.

  8. Usare i voti come punizione è l’unico modo per mantenere un minimo di disciplina, altrimenti ti mangiano vivo.

    In effetti, se gli studenti scegliessero quali corsi frequentare sarebbero più interessati, di conseguenza meno indisciplinati. Ma visto che ormai a loro non interessa più nulla, tranne sesso moda discoteche sport e poco altro, né si può in alcun modo contrastare la strisciante ed onnipotente persuasione occulta della società di massa, forse neppure questo risolverebbe il problema.

    Gli insegnanti migliori sarebbero davvero premiati, forse, solo in un sistema di scuole private. Scuole migiori più costose, di conseguenza insegnanti migliori meglio pagati. Ma forse non funzionerebbe neppure così: non è che nel mondo anglosassone aver frequentato una scuola più costosa significhi migliore preparazione: denota solo l’appartenenza ad un rango socio-economico privilegiato, con le maggiori opportunità di carriera che ne derivano.

    Più che insegnanti iper-specializzati, io purtroppo vedo, francamente, perlopiù colleghi ignoranti. Per loro la letteratura italiana contemporanea è Cristiano Cavina; la Mastrocola è nominata con venerazione; ammesso che leggano Musil o Proust, non capiscono, o peggio non sentono, la differenza; non ce n’è uno che conosca, se non vagamente e di nome, un Valéry, un Celan, un Pound, un Walcott… Per non parlare dell’abissale ignoranza filosofica, musicale, artistica della maggior parte (non tutti) degli insegnanti di lettere.

    Una prece.

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