di Enrico Rebuffat
[Ieri il governo Gentiloni ha approvato otto decreti attuativi della Buona Scuola. È l’occasione per ritornare su uno dei provvedimenti più controversi del governo Renzi].
Il mio amico Ahmed, che viene dal Ghana, me lo dice spesso. Io gli auguro di trovare un lavoro e di sistemarsi in Italia, e lui risponde: insciallà. Io gli dico: ci vediamo qui tra cinque minuti, e lui risponde: insciallà. Se dio vuole, insciallà. I progetti che noi uomini possiamo concepire, dal piano più complesso e improbabile fino alla determinazione più semplice e immediata, sono ugualmente soggetti alla volontà imperscrutabile di dio. Tutti sono possibili, quindi, e nessuno è certo; in ogni caso, non è il nostro contributo quello decisivo ai fini del loro compimento. Volendo prendere questa concezione alla stregua di una filosofia, credo di poterla capire e mi affascina anche; ma a dir la verità, quando la vedo applicata a progetti importanti provo un po’ di disappunto, mentre quando si parla di rivedersi dopo cinque minuti mi viene da sorridere: perché non posso fare a meno di pensare che la filosofia dell’insciallà tenda a sottrarre alla ragione umana il compito che le è proprio. Se c’è una cosa in cui mi sento “occidentale”, come si dice, cioè sostanzialmente greco e latino, è questa: quisque faber fortunae suae, ciascuno è artefice della propria sorte. E come si è artefici della propria sorte? Nella nostra tradizione culturale, lo si è facendo diagnosi razionali dei bisogni e dei desideri, ipotizzando razionalmente terapie per curare i mali e piani per realizzare gli intenti, soppesando a lume di ragione le possibilità di successo delle nostre stesse ipotesi. Si può fallire, ci si può ingannare, ma per noi questa è la via. Non sono migliore di Ahmed (che difatti ha saputo varcare il mare, mentre io per mia fortuna non so se ne sarei capace): ho solo letto Ippocrate, Tucidide e Aristotele; e ho letto Tommaso, Alberto e Dante, che dinanzi ai misteri della fede esclamava “matto è chi spera che nostra ragione / possa trascorrer l’infinita via / che tiene una sustanzia in tre persone”, ma di fronte a un progetto di riforma delle cose umane non avrebbe risposto se Dio vuole neppure al papa (anzi, tantomeno a lui). Li ho letti e ormai non posso più tornare indietro.
Ecco, alla fine dei conti, al nocciolo della questione, credo sia per questo che la sedicente Buona Scuola non avrà mai dagli insegnanti la risposta che i suoi creatori desiderano, e che a corrispettivo di tanta bontà (che ingratitudine!) perfino si stupiscono di non ricevere: perché l’unica risposta benevola e sincera che dalle nostre aule potremmo proferire è insciallà. Diamo ai dirigenti un po’ di danaro da distribuire alla fine dell’anno a qualche docente da loro prescelto, così gli insegnanti, sapendo che il merito è valorizzato, lavoreranno di più e meglio: veramente quello che in vent’anni di insegnamento ho imparato sui dirigenti, sui docenti e sulla scuola mi dice che questo stimolo non si otterrà, e che al contrario si rischia di invelenire l’ambiente di lavoro; comunque insciallà. Obblighiamo tutti gli studenti liceali dai sedici anni in su all’alternanza scuola-lavoro, così dopo una quindicina d’anni (bisogna essere ottimisti) lo troveranno più facilmente, il lavoro: stento a vedere il benché minimo nesso tra le due cose, ma insciallà. Cambiamo la formazione universitaria dei docenti sostituendo il biennio della laurea specialistica e disciplinare con un biennio pedagogico-didattico interdisciplinare, così avremo docenti più bravi: mah, finora si pensava che chi studia una disciplina per insegnarla al prossimo dovesse apprenderla meglio, non peggio di chi la studia per qualsiasi altra professione, comunque auguri e insciallà. Assegniamo agli istituti migliaia di docenti “di potenziamento” privi di ore di lezione curricolare, perché potenziare è cosa buona: per carità, più sarà meglio di meno, però risulta che uno dei problemi della scuola italiana non sia il piccolo numero delle cose che si studiano, ma spesso il suo opposto; e un docente è tale se ha degli allievi che possa chiamare suoi; ma via, se dio vuole funzionerà. Sostituiamo la titolarità dei docenti negli istituti con liste territoriali, da cui i dirigenti attingano ogni triennio consultando i loro portfolii pubblicati in chiaro in un portale online ed incrociandoli sagacemente con le specifiche esigenze del Piano Triennale dell’Offerta Formativa (qui vien proprio da sorridere): l’esperienza della scuola e degli uomini mi dice che un sistema del genere da un lato indebolirà la libertà, l’autorevolezza e la serenità dei docenti di valore, dall’altro accrescerà l’impulso al servilismo e al disimpegno nei docenti che valgano poco, senza che in ogni caso gli studenti ne ricevano il benché minimo vantaggio: ma in fondo, dai, perché no? E, soprattutto, continuiamo a puntare sulla competizione tra gli istituti, perché la competizione è la spinta più potente al miglioramento in tutti i campi dell’umana società: a dir la verità, da quando si è cominciato a mettere le scuole in competizione una con l’altra abbiamo assistito solo a una continua spinta all’ipocrisia e alla vanità nel procacciamento degli iscritti, mentre le attività didattiche serie hanno lasciato la scena a iniziative ed eventi scelti in ragione della loro visibilità: ma chi può dirlo, all’improvviso potrebbe funzionare, no, se dio vuole?
Così è, se vi piace, la politica scolastica in Italia. Idee che, se fossero espresse alla buona in una cena tra amici, forse persino nei ristoranti di Arcore e Rignano, non troverebbero più credito e attenzione di quelli che si concede per pura cortesia a interlocutori poco informati e chiacchieroni, assurgono a Principî di Riforme.
Auguri, signor ministro, auguri di buon lavoro e di prospero successo: da Lei, si legge, la Buona Scuola attende un nuovo impulso. Sono sicuro che non mi sentirò rispondere insciallà. Vede, una buona volta vorremmo poter smettere anche noi.
[Immagine: Matteo Renzi davanti alla lavagna]
Neppure una virgola da aggiungere. Bravo. Bisognerebbe solo chiedere ad Ahmed come si dice nella sua lingua ” Dio ci salvi”.
Caro Rebuffat, lei ha letto troppo Aristotele e compagnia bella.
Purtroppo le forze in campo non sono realtà da una parte e uomini-fabri dall’altra, perché tutto è stato sostituito da feticci: la scuola non è la scuola, ma la sua descrizione di terzo o quarto grado per mezzo di prove standardizzate e “rilevazioni dei bisogni” e apologhi moralizzanti à la Gian Antonio Stella; la trasformazione del reale non è trasformazione del reale, ma “progetti di riforma” dallo squisito spirito medievale (chi era, sant’Anselmo, che si ossessionava su quale fosse la parola della formula di transustanziazione in cui il pane diventava corpo di Cristo, i nomina diventavano res e dal linguaggio si accedeva all’ontologia?).
Solo i “riformisti” di ogni declinazione politica sono ancora convinti che tutto ciò abbia a che fare con la realtà (quella di me e lei che entriamo in classe). Dunque scambieranno anche la sua intelligente divagazione per realtà, anzi per quella detestata specie di realtà che si chiama “la solita lagna italiana”, pensando che la colpa sia del suo dito che indica la luna.
Auguri e in bocca al lupo a scuola
P. S. L’ultima volta che avevo sentito parlare della formazione postlaurea dei docenti mi risultava che la laurea specialistica sarebbe stata ancora disciplinare e che la formazione professionalizzante sarebbe arrivata solo con l’anno di tirocinio successivo. Dunque hanno cambiato idea? Andrò a verificare.
La mia paura, che vedremo presto i “post-docenti”, esperti di ingegneria didattica e curricolare, più poveri culturalmente, si rafforza. E non è un rimpianto sul bel tempo andato: già oggi la cultura dei docenti non basta ad affrontare la complessità del sapere. Ci vorrebbe una bella trasformazione dei saperi, e invece si pensa di cambiare aggiungendo additivi.
Non una parola di questo post mi trova d’accordo. L’importaNTE è CREARE UNA CAPAcità di giudizio critico negli alunni, sviluppare l’intuito e la capacità di collegamento e di ricerca che serve a sviluppare visioni più creative e universali, o meglio cosmopolite. Tenendo conto conto che la classe è formata da immigrati e non solo da adolescenti borghesi , da persone con disabilità , che pure posseggono una sensibilità acuta e con-prensiva. E’ chiaro che la classe deve essere formata da non più di 20 alunni, che devono anche acquisire gli esempi e i temi di un’educazione di genere. Altrimenti formeremo dei caratteri squilibrati, poco critici, poco appassionati alla cultura e ai temi che li appassionano,
, con personalità frustrate e represse. Le potenzialità vanno sviluppate tutte generando entusiasmo e voglia di esplorare territori della cultura e della conoscenza , che, invece, in altre situazioni attirano e coinvolgono i giovani. Niente mance per il docenti che ottengono buoni risultati, ma stipendi adeguati per l’eggiornamento, la fequentazioni di cinema, eventi e performance letterarie e teatrali, frequentazioni di luoghi di manifestazioni scientifiche e di ricerca. Non dobbiamo creare una selezione tra i docenti che si adeguano alla volontà del preside o del carrierista -opportunista di turno. (continua)
A proposito dello sviluppo della creatività, del pensiero critico, e della ricerca per associazioni d’indagine di temi che si vanno sviluppando, fino ad ottenere una provvisoria sistemazione diacronica, faccio riferimento al libro:
David W. Johnson, Roger T. Johnson ed Edythe J. Holubec, Apprendimento cooperativo in classe. Migliorare il clima emotivo e il rendimento, Erickson 2015. La valutazione e il merito non sono aboliti, ma fanno parte di un processo di responsabilizzazione e di consapevolezza, piuttosto che di un’imposizione arbitraria. Lo scopo fondamentale di un’educazione democratica e non burocratica dovrebbe infatti essere la formazione di invidui capaci di un’autonomia di pensiero, eticamente responsabili e collaborativi nella relazione con gli altri e con l’ambiente, consapevoli e fiduciosi delle proprie risorse, con una mentalità il più possibile aperta e creativa (creatività intesa non solo in una prospettiva artistica o espressiva, ma come capacità di dare molteplici e originali risposte ai problemi). Concetti basilari che non sono neanch’essi nuovi nella storia della pedagogia, già promossi e riproposti nel corso del Novecento, in contesti e con orientamenti diversi, da pionieri come Dewey, Montessori, Steiner, Freinet, Makiguchi, Neill e altri, ma ignorati o marginalizzati dalle isituzioni formative.
Scusa, Gaetano, ma hai letto con attenzione il post? Sostiene le stesse tue tesi- e le mie- beffeggiando con tono ironico i decreti.
Forse il miglior articolo che ho letto sulla scuola. Penso che sarebbe anche ora di far cadere la maschera e dire che molte riforme scolastiche, esattamente come le politiche sociali (ed è ben logico), non hanno lo scopo di creare persone più forti di fronte al mondo del lavoro, anzi. Se tutte le riforme sociali del post-thatcherismo mirano a creare un 10% -a volte meno- sempre più ricco e un 90% -a volte di più-tendenzialmente più povero, perché la scuola dovrebbe fare il contrario ? In quest’ottica le riforme scolastiche, non solo quelle italiane, appaiono perfettamente logiche; nell’ottica contraria, senza dubbio no.
1) La delega appena approvata della Legge 107/2015 (la “Buona scuola”) non prevede affatto un biennio specialistico pedagogico-disciplinare dopo la laurea triennale, ma un concorso dopo la laurea specialistica nella propria disciplina, e poi un triennio di formazione sulla e nella scuola.
2) I docenti di potenziamento non sono “privi di ore curricolari”: nell’organico dell’autonomia i docenti sono tutti uguali, e tutti partecipano a tutte le attività, curricolari e non; se una scuola non riesce a farlo e lascia dei docenti senza ore curricolari è colpa del dirigente scolastico e del collegio docenti, e sarebbe anche illegale, sanzionabile dal Miur.
3) La titolarità dei docenti su ambiti territoriali ha avuto un ruolo ben marginale, tanto nelle assunzioni quanto nei trasferimenti, e la avrà ancora di meno, visto l’ultimo accordo tra Miur e sindacati.
Queste sono precisazioni di fatto.
Quanto alle valutazioni.
Non vedo nel testo nessun argomento contro l’alternanza scuola-lavoro nei licei, ma solo l’affermazione che farlo non serve. Invece io penso che l’alternanza spinga gli studenti dei licei a confrontarsi con realtà e esigenze diverse, e possa costringere anche la didattica dei licei a cambiare stile. Se si ha il coraggio di pensare che la didattica si fa anche in modi diversi dallo schema rigido lezione frontale-verifica, l’alternanza è una possibilità; inoltre, certo non permette di “trovare un lavoro”, ma di orientarsi forse sì.
La titolarità su ambito territoriale invece che su sede risponde all’esigenza di permettere alla scuole di scegliere il proprio personale: proprio in questo giro di assunzioni e trasferimenti moltissime scuole si sono lamentate di avere ricevuto docenti inadeguati alla loro offerta formativa, ma questo è derivato in gran parte dall’uso ancora massiccio delle graduatorie.
Il bonus per la valorizzazione del merito è uno strumento inadeguato, è vero. Ma i docenti si oppongono a qualsiasi idea di carriera dei docenti, che sarebbe il modo migliore per riconoscere il merito senza aprire a discriminazioni arbitrarie.
Io direi che questo pezzo si ascrive al genere millenario della “lamento dell’insegnante”.
@ Mauro.
«In una società che si attiene rigidamente la dogma del progresso, nessun altro termine più di nostalgia può avere tanta efficacia per demolire l’opposizione ideologica.
Nel 1914 un editorialista di Nation attaccava quanti asserivano che la produzione di massa degradasse l’operaio, ricordando loro che l’industria moderna comportava “una progressiva diminuzione delle ore lavorative” e creava “più vaste opportunità di svago, di divertimento e di sviluppo spirituale”. La critica del sistema delle fabbriche, quindi, si fondava sulla “vecchia illusione dell’Età dell’Oro, sul rifiuto di capire che per “le grandi masse”, la vita nel Medioevo – così spesso invocata come termine di paragone – consisteva solo in una “fatica oppressiva e brutale”.
Nel 1932 John Dewey attaccava “la nostalgia idealizzante” di coloro che desideravano ritornare all’organizzazione tradizionale degli studi classici. La nostalgia aveva raggiunto lo status di insulto politico di prim’ordine. L’attacco alla nostalgia, così, è servito a distogliere l’attenzione da problemi ben più seri. Di fatto, con quell’argomento si può confutare qualsiasi critica della società moderna» (Christopher Lasch, Il paradiso in terra. Il progresso e la sua critica)
@ Mauro e tutti
Sull’alternanza scuola-lavoro. Nel mio scienze umane due settimane di tirocinio si facevano già da anni, in quarta: scuole elementari, biblioteche, ospizi per anziani, ecc…
L’estensione a tutto il triennio è novità di quest’anno ed è perciò impossibile ancora da valutare, specie per quanto riguarda la soddisfazione degli studenti.
Io ho avuto modo di parlare con qualche ex ormai maturato della loro esperienza in quarta e abbiamo parlato della nuova alternanza “estesa”. Non sono mancate le perplessità, del genere “due settimane già eran tante, alla fine della seconda settimana ormai quanto potevamo vedere e imparare l’avevamo visto e imparato. Che senso ha farlo per tre anni?”
Rebuffat mette in evidenza un aspetto a mio avviso assolutamente vero: che il legame tra queste esperienze e, non dico l’ottenimento di un lavoro, ma lo sviluppo di qualche capacità utile al lavoro è supposta più che realizzata, taumaturgia più che azione pratica. Il giudizio di questi miei ex allievi (che certo non saranno un campione statistico soddisfacente) è congruente. Dunque ci sono alcune domande che dovremmo farci.
Ha senso fare tutte quelle ore di alternanza nei licei, dove lo sbocco lavorativo, la specializzazione, vengono molto dopo?
Ha ancora senso una formazione liceale di fatto ancora legata all’idea della paideia (che ha poco e nulla a che vedere con la lezione frontale o quanto sono vecchi al classico ecc…,che sono i miti polemici con i quali si liquida la paideia con uno sbuffar di gote contro gli umanisti)?
Le scuole sono messe nelle condizioni, per risorse e organigrammi, di creare quella sinergia tra interno ed esterno, fare e sapere, cui accenni tu? Ti prego, non ripetermi che se non ci si riesce la colpa è delle scuole che non sanno organizzarsi, perché non abbiamo corpi intermedi, né il potenziamento (sai che nella mia scuola la vicepreside non ha nemmeno diritto al semiesonero? Proviamo a darle una mano ma siamo alla nevrastenia collettiva. Credimi). Io ci ho anche provato a “organizzare” qualcosa e ne sono uscito minato nella salute. Tocca rintanarsi in classe per sopravvivere, a volte, a fare quello che si sa fare: io non so creare sinergie fra il mio sapere e l’esperienza di alternanza dei miei allievi. Mi spiace.
Queste sono domande concretissime, problemi reali. Che ci sia un clima di pessimismo nella narrazione della scuola è vero, e non fa bene, specie a chi ci lavora, che spesso lo subisce ma anche lo produce.
Però mi piacerebbe anche che, invece di liquidarlo, ci si domandasse almeno una volta se questi lamenti non abbiano anche delle ragioni dalla parte loro, nascano da una stanchezza professionale storicamente contingente e palpabilissima, non creata dagli insegnanti ma dalla politica, e dal fatto, non contingente, che la scuola è un’istituzione che è caricata di richieste enormi, quasi miracolistiche, e che noi spesso ci crediamo, di essere chiamati a salvare le sorti della democrazia e dell’umanità con il sapere e l’educazione.
Con una forma mentis così sognatrice, ovvio che la realtà spesso ferisca.
Mi piacerebbe che tutto ciò lo si considerasse, invece di liquidarlo come “il lamento dell’insegnante”
Già, situazione trista.
Se poi Ahmed e i suoi compaesani Mohammed, Ali Babà e compagnia “bella” hanno attraversato il mare per riversarsi qua, forse è anche perché il loro “Insciallà” non è poi così geniale, né in Africa né altrove.
Tanto meno in Italia, dove dovrebbe aver vigore ben altra profondità storica e legislativa che la pinocchiesca Buona scuola renziana. Ma in verità il declino dell’istituzione incomincia dalla riforma Berlinguer e, a quanto pare, non si è ancora finito di precipitare.
Saluti.
PS: l’unico “Insciallà” realmente significativo e illuminante ritengo sia l’omonimo libro di Oriana. Ottima lettura da proporre alle multirazziali classi odierne.
Perfetta riflessione, condivisibile in ogni suo aspetto. Tutti i danni sono cominciati con l’autonomia e la riforma Berlinguer, in venti anni non siamo riusciti a modificarla, anzi ogni governo ha fatto peggio.
Vedi, mauro piras, oggi scrivere è diventato solo uno strumento di allenamento estetico per supportare ideologie o per allenare la propria sofisticazione.
Per carità bravo a scrivere il primo pezzo anche se estremizzi l’Islam, ma del resto scrivere richiede semplificazioni (anche se è una semplificazione a livello di ISIS quella che fai).
Poi la seconda parte invece come dice Mauro Piras infatti che ben ha letto a differenza mia ciò di cui parliamo qui, fa notare il solito atteggiamento giornalettistico che hanno tutti gli ultimi storyteller-giornalisti che ormai spopolano da Al Jazeera english a New York times e poi che nel nostro stivale hanno fatto una scuola (buona ci metto la mano sul fuoco non è stata) tanto che potrebbero insegnare a tutti.
Si potremmo insegnare a tutti come su cuce a regola d’arte un vestito di “fango” su persone, cose senza che queste siano tali. Potremmo insegnare come abbiamo rovinato il paese con l’assenza forzata dal sistema di potere dei giornalisti che sono semplici MUEZZIN che ripetono ciò che il Corano (Islam perdonami è solo una metafora) dai loro minareti ciò che i padroni o le ideologie (sono la “stessa cosa”) chiedono di scrivere.
Il punto qual’è. Sono d’accordo che con il crowdsourcing fatto seriamente senza ideologia e ce ne sono una marea di esempi anche funzionati in italia, dalla formazione di management interdisciplinari, ai camper ambulanti crew dell’architetto Renzo Piano, al piano di Piacentini che vede proprio l’aggregazione crowdsourcing di tutti i migliori da tanti posti da tanti luoghi ed esperienze anche fallimentari.
Il punto è che in Italia prendiamo alla “lettera tutto” sappiamo tutto di tutto e sappiamo fare finta di fare finta di fare finta di fare finta … di ogni cosa.
Non sappiamo fare squadra, tanto siamo ammestrati culturalmente a NIMBY, piu di ogni altro Islamico (escludendo qualche eccezione). Loro certamente hanno il senso dello stare insieme, altro che introduzione architettata (bravo comunque) su cui basi tutto il pezzo, altro che!
Lavorare insieme e sopratutto IMPARARE DALLE ISTITUZIONI GRECHE che se si vuole riformare si deve sperimentare, simulare (come fa ad esempio Lab Gov – in italia – o fa anche Demos Helsinki in finlandia e tanti altri) provare per INNOVARE.
Innovare significa sbagliare ma provare.
E poi te lo dice Mauro Piras, anzi Italiani che non siete altro e avete rotto: IMPARATE A CAPIRE CHE OLTRE A FARE SQUADRA (una sfida della complessità con tante opportunità pure) che per parlare e criticare …
BISOGNA PROPORRE UN PROGETTO O UN ALTERNATIVA (almeno 1).
Oggi scriviamo senza provare a essere meglio di altri o senza esserlo, facciamo solo finta di essere meglio degli altri e proviamo a vincere.
Pensavo che su Parole le cose ci fossero solo buoni pezzi ed invece come tutti, del resto è umano, ci sono delle fregnacce pazzesche.
Vincere non è lo scopo, specialmente nel giornalismo diventato hooliganismo ormai. Lo scopo è diventare migliori.
Grazie comunque per il pezzo, ma beccati tutto e tutti i “criticoni” alla Micromega, Tomaso Montanari e co. (lo dico giusto per fare degli esempi di Italia che non va), tutti questi che fanno pure bene (varie cose) ma poi UN PROGETTO ALTERNATIVO QUANDO PARLANO LO PROPONGONO, qualcosa poi che sia trasparentemente valutabile come migliore di ciò che criticano, gente da “il Manifesto”… dai su… l’Italia deve cambiare mentalità, l’Italia piccola… quella che ancora parla di destra e di Sinistra… un ‘Italia vecchia (già quando nasce – vedi giovani con capelli bianchi).
Un po’ di dettagli, per far capire a chi non sta nella scuola cosa sta succedendo nei fatti.
Piccolo liceo di perifefia, cintura torinese, utenza medio-bassa. Le 200 ore di scuola lavoro devono pur essere svolte, ma il famoso ‘territorio’ non offre granchè: qui più che altro le fabbriche chiudono e delocalizzano, botteghe artigiane mica ce ne sono, Torino è vicinissima ma i suoi musei biblioteche eccetera sono già stati presi di mira dai più vicini e blasonati licei cittadini Che si fa? La legge è talmente vaga che si fa quel che si può: si inventa. Nella fattispecie: i vari dipartimenti – le materie, insomma – dedicano qualche ora curricolare (= del mattino) a svolgere attività in qualche modo attinenti.
Per esempio, io insegno italiano. Quattro ore alla settimana. Dovrò dedicare otto ore alla scuola lavoro: insegnare a scrivere un curriculum, insegnare come si affronta un colloquio di lavoro.
In altre parole: io devo perdere due settimane di programma, mezzo mese (è tantissimo, mezzo mese!!!) per parlare di curriculum e dire che al colloquio di lavoro non si va in bermuda. Sono OBBLIGATA a farlo, non c’ è verso. Come mi ha detto la preside, chi non è capace di mettersi in gioco sulla scuola lavoro “è fuori” (che in tempi di chiamata diretta degli insegnanti non è un modo di dire, ma una minaccia), perchè le scuole saranno valutate su questo. In queste due settimane in quarta avrei potuto farci stare, per esempio, due canti di Dante, una digressione sul melodramma barocco e sul teatro di corte, una riflessione sulla nascita del concetto di razza, sul postcolonialismo, o mille altre cose che conosco, che voglio e devo insegnare, che fanno parte del mio mestiere, che hanno dignità intellettuale. Invece non le farò, perché il tempo a scuola non è estensibile all’infinito: se parli del curriculum non parli più del teatro barocco.
Il che significa che al ministero e alla ministra che ha scritto la riforma i contenuti che la scuola dovrebbe trasmettere sono del tutto indifferenti. Lo sprezzo per le discipline, la loro logica interna, il tempo che pure ci vuole, per insegnare qualcosa, è così esplicito e palese che lascia disarmati. Una zavorra umanistica e nozionistica, immagino. Le soft skills non vengono mica potenziate, dal melodramma barocco. Andare a lavorare da Zara (altra possibilità prevista e praticata), invece, le soft skills le potenzia, eccome. In altre parole, i genitori di adolescenti sappiano, se per caso non avevano colto, che mandano i figli nella scuola pubblica non perchè siano formati dalla cultura letteraria e scientifica, ma perchè vengano mandati da Zara (o McDonald’s, per dire) a imparare la competizione e il conformismo, che poi è la traduzione italiana delle altisonanti soft skills di cui parlano i vari documenti sulla scuola. Consideriamo anche che la scuola lavoro è ormai la materia con più ore curricolari; e che (fresca notizia) sarà materia centrale dell’esame di stato, elevata a una dignità francamente intollerabile.
Tout se tient: se l’idea è quella di fare del paese un serbatoio di mano d’opera, più o meno qualificata, ipercompetitiva (a livello di ogni singolo lavoratore, così i costi si comprimono ulteriormente), un carnaio a disposizione delle scorrerie delle varie multinazionali europee e americane, perché non insegnare da subito come si deve vivere in questo “paradiso” del capitalismo post moderno? E questi pare proprio che siano gli indirizzi di politica economica (e chiamiamola così) di questa sinistrina ordoliberista. Ma poi, cara curra, com’è che faceva la canzone cantata da Fo, Iannacci e Gaber? “E sempre allegri bisogna stare / che il nostro piangere fa male al Re (et cetera et cetera…)”
200 ore sono sicuramente troppe. Sistemare centinaia di studenti per 200 ore ciascuno di stage in tre anni è impresa ciclopica, davvero troppo per chi, poi, di mestiere farebbe l’insegnante, come ben sottolinea lacurra. Va bene la flessibilità mentale, la formazione permanente dei docenti… ma l’insegnante sa fare certe cose, e non altre. Le altre si possono imparare, ma l’insegnante non entra facilmente in una dimensione ulteriore rispetto a quella intellettuale (la disciplina che padroneggia e insegna) e sociale/affettiva (la relazione che satbilisce con decine e decine di alunni diversi – nonché con le loro famiglie – ogni anno).
Mi ricordo, però, che l’opposizione sindacale a questo eccesso è stata debolissima. E anche le proteste degli insegnanti convergevano essenzialmente in un punto: la questione del preside/sceriffo. Tanti altri aspetti della legge non erano nemmeno noti a tanti insegnanti. Temo che anche questo non fosse stato preso nella giusta considerazione.
Ora ci svegliamo in un incubo. Prendiamo bene le misure almeno ora che la frittata è fatta. Traiamo qualche utile conclusione, e magari lottiamo per dei correttivi. Documentando il danno, senza isterie.
Proposta: alternanza scuola/difesa personale.
In duecento ore si imparano i rudimenti del maneggio di un’arma da fuoco (pistola, carabina, fucile d’assalto). Non si diventa tiratori esperti, specialmente nel tiro dinamico, ma almeno si impara a non spararsi in un piede e forse anche a colpire il bersaglio. Non c’è alcuna differenza di capacità tra maschi e femmine (furono donne tiratori scelti leggendari). L’insegnamento può essere delegato alle FFAA e svolto negli appositi poligoni di tiro militari, eventualmente utilizzando come istruttori i quadri della riserva. Gli insegnanti che lo desiderassero potrebbero partecipare all’addestramento (vivamente consigliato).
Difficile negare l’utilità pratica della competenza in oggetto, anche per eventuali prospettive future di lavoro, specie al Sud.