di Massimo Natale

 

[Jan Brokken ha da poco vinto l’edizione 2023 del Premio Chatwin. Massimo Natale l’ha incontrato in occasione dell’uscita del suo ultimo libro, La suite di Giava (Iperborea), e l’ha intervistato per LPLC].

 

MASSIMO NATALE

Comincerei con la citazione da La mia Europa di Czeslaw Milosz che apre Anime baltiche, nella quale si avverte che «schemi» e «generalizzazione» semplificano, rendono astratta la storia. Potremmo dire che per lei la letteratura è una sorta di “scienza del particolare”, un tipo di discorso che si incarica di salvare il dettaglio?

 

JAN BROKKEN

Certo, questa è la differenza tra scrivere libri di storia e scrivere letteratura. In un libro di storia, o in un libro scientifico o sociologico, per esempio, c’è di solito un tema che viene illustrato attraverso degli esempi. In letteratura si parte al contrario da qualche esempio, che può raccontarci quel che c’è alle sue spalle: una grande idea, un’ideologia, un’immagine della storia. In letteratura non c’è mai niente da provare, da dimostrare. Quando comincio un viaggio, quando comincio una storia, non voglio mai dimostrare qualcosa, non ho una teoria in testa o un’idea già fissata. Quando ho scritto Il giardino dei Cosacchi – il mio libro su Dostoevskij – mi chiedevano se è un libro nato dalla simpatia o dall’antipatia per questo grande scrittore: non è né l’uno né l’altro. Avevo ricevuto delle lettere dalla famiglia di Alexander Von Wrangel, risalenti al periodo della prigionia di Dostoevskij in Siberia, mentre il suo amico era tornato a San Pietroburgo. Sono partito da lì e tutto quel che ho scoperto l’ho messo nel mio libro: non avevo, appunto, nulla da dimostrare. Qualcuno mi diceva che gli avvenimenti del libro non mettevano in buona luce Dostoevskij. Io ho semplicemente raccontato una grande storia di amicizia, non mi sono messo nella posizione di chi giudica sul bene e sul male. Ho seguito le tracce di qualcosa che avevo cominciato a dissotterrare.

 

MN

Da questo punto di vista La suite di Giava, il suo ultimo libro, non presenta una condizione del tutto nuova (anche nel Giardino dei Cosacchi si parla di un sentimento, di un’intimità, di un’amicizia appunto). Però stavolta la storia la riguarda molto da vicino, dato che la protagonista è sua madre: cambia dunque anche il suo rapporto con la materia narrata. È più difficile narrare qualcosa che la tocca così direttamente, oppure è un aiuto?

 

JB

Se avessi trovato qualcosa di molto sgradevole sui miei genitori sarebbe stato in effetti difficile scrivere questo libro. Anche in questo caso sono partito dalle lettere di mia madre, ma le avevo già lette, non c’erano cose che mi avevano scioccato. È stato semplicemente un grande dono poter immaginare com’era mia madre prima di me, prima della mia vita. Ho scoperto che era una persona molto più vitale di come l’ho conosciuta io, molto più ricca, più energica, più felice. È stata una bella sorpresa. Ho anche scoperto che i miei genitori si sono molto amati, e credo che nascere da una coppia che si è profondamente amata ti lasci un segno. Mi sono chiesto, in ogni caso, se dovevo raccontare tutto, e alla fine sì, ci ho messo tutto. Ci sono dei lati che non mi piacciono nei miei genitori, soprattutto la loro attitudine verso di me dopo la guerra, come una specie di ombra. Diciamo che se avessi scoperto, per esempio, che mio padre aveva idee politiche sbagliate o che mia madre aveva subito il fascino del nazionalsocialismo – in effetti a quel tempo la ventata nazionalsocialista poteva arrivare fino alle colonie, dove avevano vissuto i miei – penso che in quel caso non avrei scritto il libro.

 

MN

I suoi genitori hanno conosciuto il dolore, la grande tragedia della guerra mondiale. Lei e la sua generazione venite invece dopo la tragedia, in un periodo in cui l’Europa sembrava andare verso il progresso, verso il meglio. Guardando a quel che accade ed è accaduto in questi nostri anni, cosa pensa di quella che sembra un’inversione di rotta della storia occidentale? Guarda con maggiore pessimismo alla storia umana e al futuro prossimo?

 

JB

Sì. Ho scritto diversi libri che riguardano la storia del Novecento fino ad anni molto vicini a noi, spaziando dal Baltico alla Russia all’Europa. Penso che non abbiamo imparato niente dalla storia. Quando vedo per esempio – qualunque ne sia la ragione – che l’antisemitismo riemerge in maniera prepotente, possiamo davvero affermare che il passato non ci ha insegnato nulla. Possiamo criticare Israele, certo, ma che la situazione attuale dia immediatamente luogo a un’ondata antisemita – la chiusura delle scuole ebraiche a Amsterdam, l’attacco a una sinagoga di Berlino o l’assalto a un aereo proveniente da Israele in un aeroporto in Daghestan – è davvero angosciante.

 

MN

Lei è uno scrittore di storia, di volti, di aneddoti. E di luoghi. Con la grande ondata di digitalizzazione che è seguita alla pandemia, con il generale accorciarsi delle distanze fisiche, cosa resta dell’«anima delle città»? Le differenze sono destinate a scomparire o i luoghi conserveranno comunque una loro anima inalienabile?

 

JB

Penso che i luoghi restino importanti, con le loro differenze. Ciò vale per esempio per i Paesi baltici, o per l’Italia. Qui i luoghi sono molto più importanti che altrove. In Italia le città sembrano ancora delle città-stato. Ho viaggiato molto in Italia, ho scritto su questo paese. Ai miei occhi, per fare un esempio, Bologna e Verona sono completamente diverse, a cominciare dalla loro mentalità. Quelle italiane sono delle vere e proprie repubbliche cittadine: Venezia, Verona, Vicenza, Bergamo, Genova…mentalità differenti, percezioni differenti, storie differenti. Ed è difficile riunirle all’insegna di qualcosa di comune, di “italiano”. Lo si vede anche nella cultura del cibo. Quando sono arrivato a Verona ho detto a qualcuno che avevo mangiato magnificamente a Bergamo. «Non è possibile», mi è stato risposto, «si mangia meglio qui», con un’aria di grande gravità. In Olanda resta sempre vero che fra Amsterdam, L’Aia e Rotterdam – le città dominanti – le distanze non si cancellano. Amsterdam o Rotterdam non sono, e credo non saranno mai, la stessa cosa. A Rotterdam si pensa anzitutto al guadagno, al commercio, c’è un forte interesse di natura squisitamente economica. Amsterdam è città di inclinazione più colta, aperta, fatta di culture lontane che si sono confuse e mescolate. Il più grande filosofo olandese era un ebreo sefardita, Spinoza. In Russia la differenza fra Mosca e San Pietroburgo è tuttora enorme. L’anima dei luoghi resta incancellabile. C’è qualcosa, un fondo che resta intatto, come la terra dalla quale crescono gli alberi.

 

MN

Questa differenza resta anche un tratto distintivo “europeo” in confronto al resto del mondo?

 

JB

L’Europa è la sua stessa diversità, è sempre stato così. Mi hanno proposto di partecipare a un libro collettivo, intitolato Le grand tour, nel quale è stato chiesto a ventisette scrittori di varia provenienza di scrivere qualcosa che avesse a che fare con l’Europa, dai più diversi punti di vista. Ne sono uscite ventisette storie completamente differenti. Per esempio, le storie che abbiamo scritto io o il collega belga o altri nordici sono molto più ottimiste, più gioiose. Sono racconti molto più positivi di quelli dei paesi del Sud dell’Europa, o dei paesi dell’Est, che attraversano evidentemente un momento particolare, di grandi dubbi: si domandano implicitamente, credo, in che fase della storia siamo. Tutte le storie dell’Europa dell’Est sono più malinconiche, marcate dal comunismo, da Stalin, o dal nazismo: si ha l’impressione che quei paesi non siano ancora liberi da quel giogo, dal fantasma di quel passato. E rimanendo all’Est, penso a Milan Kundera, alla sua idea che la bellezza dell’Europa sia proprio la sua diversità. Certo, ci sono anche le cose in comune: qualcosa di assolutamente fondamentale, qualcosa che riguarda gli ultimi settantacinque anni, dopo che il continente è stato distrutto da due guerre orribili. La storia di Europa è del resto da sempre una storia di guerra, che comincia almeno nel diciassettesimo secolo, con la guerra dei Trent’anni, con le peggiori guerre religiose in Germania e nel Nord. Da quel punto di partenza siamo riusciti a arrivare alla creazione di un’Europa democratica: è comunque un grande passo avanti. Le diversità, in ogni caso, restano. Se creiamo un’Europa tutta uguale, in cui nulla più cambia se siamo italiani o se siamo olandesi, ci ritroveremo davanti alla fine di Europa. Tutto diventerà un unico McDonald.

 

MN

Questo McDonald globale mi fa pensare a una pagina di un altro suo libro, Bagliori a San Pietroburgo, nella quale si trova a bere un caffè in un Burger King, una specie di immagine sintetica del capitalismo contemporaneo. Nella pagina precedente, invece, si legge che «L’ortodossia è in primo luogo amore per la bellezza»…

 

JB

È un’idea molto russa, che l’ortodossia conduca alla bellezza…

 

MN

E in quelle stesse pagine riflette anche sull’idea di Russia, su Vladimir Putin che “va verso est”, che “si stacca”, insomma, dall’Europa centrale.

 

JB

In quel Burger King io e il mio interlocutore parliamo di Puškin. Che ci sia un Burger King non vuol dire che la società debba diventare completamente commerciale, vuota, un grande fast food: mi piace pensare che esista il Burger King, ma che dentro ci si possa parlare anche di Puškin.

Quanto a Putin, speravo che la Russia andasse nella direzione della bellezza, dopo il comunismo e dopo un periodo di mafia e corruzione (gli anni Novanta, anni nei quali vigeva già la legge del più forte). Speravo che Putin potesse abbracciare, appunto, un’idea ortodossa di bellezza. Niente di tutto questo: Putin trova nell’ortodossia l’appiglio ideale per la sua idea di Russland über alles, non so come altro dirlo…È stata una grande delusione. Conosco molto bene San Pietroburgo, la città da cui Putin ha cominciato: rimane una città molto aperta verso l’Europa, come del resto è sempre stata nella sua intera storia. Putin è stato sindaco di San Pietroburgo…l’ultima volta che ci sono stato, stavano costruendo l’edificio centrale di Gazprom, la società più ricca di Russia: una torre di 470 metri, proprio al centro di San Pietroburgo. La popolazione si è rivoltata e hanno dovuto ascoltarla, la torre non l’hanno collocata nel centro storico ma fuori dalla città. Ma era un segno, e intanto l’ufficio principale della società era a Mosca. In dieci anni tutto è cambiato: Putin andava sempre a Vladivostok, cercava sostegno in tutta la Russia, così come in Turchia. Tutto il male è cominciato con la guerra in Siria, è lì che Putin ha imboccato una direzione davvero catastrofica, poi è arrivata l’annessione della Crimea, e poi l’Ucraina. Volevo che la Russia diventasse una parte d’Europa. Quando scrivevo Bagliori a San Pietroburgo coltivavo ancora questa speranza, ma la storia è andata in direzione brutalmente contraria. Ora la Russia ha perso tutto. Quando ho scritto Nella casa del pianista il protagonista, Youri Egorov, poteva dichiarare di adorare la Russia, poteva dire di sentirsi profondamente russo e al contempo profondamente antisovietico. Oggi queste parole non sono più possibili.

 

MN

Tornando a La suite di Giava, in esergo al libro c’è una citazione da Austerlitz di Sebald. Ha un rapporto speciale con Sebald, lo ama, si ispira a lui, magari lo ha incontrato?

 

JB

No, non l’ho mai incontrato. Ma ero molto impressionato da quel che stava tentando di fare: la sua scrittura è una sorta di fantasia sulla storia, per esempio in Austerlitz appunto. Creare libri immaginari e allo stesso tempo storici, era un’idea che mi piaceva molto, così come sento molto mia la sensazione che i morti tornino continuamente da noi, in diversi modi. Quando ho letto Sebald, comunque, ho pensato che era la strada che volevo prendere anch’io. Lo si vede anche in Anime baltiche, che ho costruito organicamente, capitolo per capitolo, attorno all’ipotesi, per esempio, che la storia della Lettonia si possa raccontarla molto bene anche attraverso la storia di un libraio di Riga, Jānis Roze, una figura che ha giocato un ruolo fondamentale nello sviluppo culturale e linguistico di quell’area. L’idea che la storia sia fatta solo di grandi teorie o di grandi guerre la rende molto astratta, diventa difficile percepire quel che accadeva veramente: in questo modo non entriamo davvero dentro la storia. Attraverso il dettaglio ci si può riuscire, mentre l’idea totale uccide tutto, uccide le eccezioni, le sfumature. Un dettaglio può raccontare molto di più.

 

MN

Anche la presenza delle immagini nel racconto e l’amore per la musica (penso a un titolo di Sebald come Moments musicaux) vi avvicinano.

 

JB

Non ho letto i saggi di Moments musicaux. Ho però visto una biografia di Sebald uscita di recente, che è davvero rivelatrice, perché ci spiega che Sebald ha letteralmente inventato molte delle sue storie, anche quelle legate alla guerra: sembra che le abbia deformate parecchio, e del resto la storia della sua famiglia e del suo milieu di formazione sono del tutto ordinarie, se non addirittura noiose: il suo côté tragico ha dovuto in qualche modo crearlo. Il mio editore olandese, che era un grande amante di Sebald, ha avuto la sensazione di essere stato quasi imbrogliato.

MN

Restando alla musica, che è chiaramente una presenza fondamentale e continua nei suoi libri: ha un rapporto diretto con l’esperienza musicale?

 

JB

Sì, suono il pianoforte. Anche i miei fratelli e mia madre suonavano il piano, mio padre era l’unico in casa a non suonare uno strumento. Mio fratello maggiore suonava anche il trombone, amava il jazz. Il pianoforte lo avevamo a casa, potevamo fare esercizio per alcune ore: io, che ero il più piccolo, quando ero alla scuola primaria arrivavo a casa prima degli altri, quindi potevo esercitarmi dalle 3.30 alle 4.30. Mio fratello tornava a casa dal liceo di Rotterdam, e suonava alle 4.30; poi alle 5.30 era il turno dell’altro mio fratello. Mia madre invece suonava dopo cena. Era un rito che si ripeteva tutti i giorni.

 

MN

C’è un dettaglio o un ricordo legato alla musica che mi vuole raccontare?

 

JB

Mi addormentavo tutte le sere con Schubert. La mia camera non era lontana dalla sala. Mia madre suonava Schubert. E Bach.

Conservo sempre un ricordo molto importante, che spiega, credo, la centralità della musica nella mia scrittura. Quando avevo undici anni, c’è stato un movimento di protesta contro mio padre, che dopo la guerra era diventato pastore in un villaggio vicino a Rotterdam, un villaggio agricolo. Mio padre studiava le altre religioni, l’Islam e l’induismo per esempio, era un uomo molto aperto. Cominciava spesso le sue orazioni, la domenica, ricordando che la Bibbia è un libro orientale. I contadini olandesi erano infastiditi, avrebbero voluto sentirlo parlare di un dio severo, duro, il dio cui bisogna obbedire. Mio padre diceva anche che la Bibbia è nata nel deserto, come il Corano, ma non volevano sentirselo dire. Lui era un liberale, i contadini erano protestanti, calvinisti, conservatori. Le critiche su mio padre crescevano, e il movimento voleva che il pastore cambiasse, fosse sostituito.

Una sera circondarono la nostra casa, cantando i loro canti religiosi protestanti, accompagnandoli con le trombe. Avevano delle torce accese. Noi bambini avevamo una grande paura, temevamo che la situazione precipitasse e che gettassero una torcia dentro le finestre, che volessero bruciare la casa. C’era un’atmosfera da pogrom. Anche mio fratello più grande, che aveva già quasi vent’anni, era molto impaurito, così come mia madre. Mio padre allora ci disse di tirare le tende, di cambiare posto e di andare a mangiare in un’altra sala, dove non ci vedevano. Ci fece spegnere la luce, accendere la radio e ascoltare la musica. Alla radio – ricordo bene che era sabato sera – trasmettevano il Concours Chopin di Varsavia: era il 1960. Mio padre ci invitò a stare attenti alla musica e al concorso, e a dare un voto ai concorrenti.  Ascoltavamo tutti con attenzione: avevo solo undici anni ma suonavo anch’io, già da un po’. Ci trovammo tutti d’accordo su chi dovesse vincere…e il vincitore fu in effetti Maurizio Pollini.

Quarant’anni dopo feci una lettura in Italia, e al ritorno presi un aereo da Milano a Amsterdam. Ero seduto sul lato corridoio. Sull’altro lato c’era Pollini, che aveva diciott’anni quando vinse il Concours Chopin, e ora cominciava ad avere i capelli grigi. Pensai che volevo ringraziare quell’uomo, che aveva salvato la mia giovinezza: aveva salvato l’idea che malgrado tutto, malgrado quegli uomini che urlavano, la bellezza esisteva. Nonostante l’intolleranza, esisteva la dolcezza. Così ho cominciato a parlargli, a spiegargli tutto, ma ero talmente emozionato, stando vicino a lui, che non riuscivo letteralmente a trovare le parole. Lui mi guardò, mi disse che anche se non avevo parole aveva capito, in qualche modo, che la musica – e la sua musica – era stata molto importante per me, in un certo momento della mia vita. Sì, in quel momento della mia vita Pollini e la sua musica avevano salvato la mia giovinezza e quella dei miei fratelli. È la potenza della musica, che ci indica sempre il cammino verso ciò che è umano.

 

MN

E la musica italiana e la cultura italiana? Ci sono altri nomi a cui è particolarmente legato?

 

JB

Certo, e scriverò ancora molto sull’Italia. Dopo L’anima delle città, per esempio, ho scritto un’altra raccolta che non è ancora uscita, ma è pronta, nella quale ci sono altre figure della cultura italiana. Del resto la mia opera è piuttosto ampia, ho scritto quattro libri sull’Africa non ancora tradotti, ho scritto sull’America latina, sulla storia dei Paesi Bassi. Sono stato scoperto piuttosto tardi all’estero, e ora si tratta di fare delle scelte editoriali. Emilia Lodigiani – la fondatrice di Iperborea, che mi ha lanciato – mi diceva di voler pubblicare tutti i miei libri, ma era incerta sui libri di argomento italiano. Mi disse che gli stranieri che scrivono sull’Italia faticano ad essere amati, riconosciuti. Ne L’anima delle città c’è un capitolo su Morandi e Bologna, ma prima avevo pubblicato questa storia in una sede non italiana, nel catalogo bilingue (olandese-inglese) di una mostra morandiana. Poi ho passato il catalogo a Emilia, che trovò bella la storia bolognese, e decise di pubblicarla. Ho scritto anche su Donizetti e Bergamo, e ci torno molto spesso. E una storia l’ho dedicata a Venezia e Bellini (a un libraio veneziano e a Bellini). Quando è apparso il racconto sono stato invitato a Venezia per un festival, poi Emilia me lo ha fatto pubblicare sul «Corriere della sera», ma spero che lo recupereremo per un libro futuro. Ho l’impressione, comunque, che la mia opera vada sempre meglio in Italia. Per esempio, a Cagliari, dopo aver letto il mio ritratto della madre di Calvino, Eva, erano davvero molto contenti: «scrivono tutti sul Nord, o su Roma, o su Firenze – mi dicevano – mai su di noi!». La stessa cosa è successa a Bologna o a Bergamo. E sto scrivendo ancora un’altra storia su Bergamo, e due su Venezia.

 

MN

C’è una città che le manca, che vuole visitare?

 

JB

Ci sono molte città che avrei voluto conoscere meglio, certo. In Cina per esempio sono stato molto presto, nel 1983, l’ho girata tutta in treno, uno dei più bei viaggi che ho fatto, e anche uno dei più difficili…mi piacerebbe tornarci. Se c’è un posto, invece, dove non mi sento a mio agio, perché sono diventati un tale cliché, sono gli Stati Uniti. Ogni cosa che ci trovo è stata già raccontata mille volte da altri. Non scopro niente, non mi sento a mio agio in questa cultura, che trovo un po’ pacchiana.

 

MN

In una sua pagina New York è descritta come una città senza pietà…

 

JB

Sì, è crudele. Mi viene in mente proprio la storia di Boris Raiskin (l’ho raccontata ne L’anima delle città), musicista e poeta che scappa da Leningrado e cerca rifugio dentro un’altra cultura, diventando un ebreo newyorkese, ma ne resta traumatizzato, e infine si toglie la vita. Ho fatto questo incontro nel 1980, quarant’anni fa. Allo stesso tempo quel racconto è anche un canto per New York, per com’era nel 1980. Ma da allora è molto cambiata, dopo l’11 settembre soprattutto. È dura, rumorosa, sporca, molto indifferente. La scena artistica di allora non esiste più. Io andavo nel caffè dove Woody Allen suonava il clarinetto, e ogni tanto passava anche Diane Keaton a mangiare qualcosa…

 

MN

«I luoghi che in un modo o nell’altro ti attirano hanno sempre qualcosa a che fare con un’esperienza precedente»: lo scrive in uno dei racconti de L’anima delle città. Forse il suo disamore per gli Stati Uniti ha in qualche a che fare con questo, con il viaggio come esperienza di ritorno, di riconoscimento di qualcosa. A New York e negli Stati Uniti questo riconoscimento è più difficile, per un europeo?

 

JB

Io cerco sempre un legame col passato, sì. La storia di Raiskin dice anche questo. E ci dice che non si fugge il passato, le sue ferite non guariscono mai. In ogni caso, è comprensibile che si possa desiderare di andare in una città così internazionale e cosmopolita. Però in generale quando voglio scrivere su una città io ho anche voglia di abitarci. E non ho mai avuto voglia di abitare a New York. È un segno.

 

MN

Nei suoi libri si incontrano abbastanza spesso le case degli scrittori, a volte anche la scrivania (penso a quella di Dostoevskij). Scrive molto anche in viaggio? E la sua scrivania, com’è?

 

JB

Sì, scrivo molto in viaggio, a mano: ho sempre un quaderno con me, e una Montblanc con cui prendo appunti. Ho un’ottantina di questi quaderni, e li scelgo di colore diverso per distinguerli e riconoscerli.

Quanto a casa mia, abito a Amsterdam, in un edificio costruito nel 1760, su un canale. Ci vivo da quasi cinquant’anni. Per l’estate invece ho una casa in Francia, sulla costa atlantica. Ho il mio tavolo e, di fronte, il mio pianoforte. In mezzo, tra i due, c’è una sedia mobile, con le rotelle, che uso per lavorare. Mi metto a scrivere, ma quando non mi viene niente mi giro, scivolo con la sedia verso il piano, suono. Mi aiuta a trovare delle soluzioni. E poi ricomincio a scrivere…

 

MN

Mi sembra un’immagine perfetta per chiudere.

 

JB

Sì, musica e scrittura. E mi accompagna sempre il suono dell’oceano. Giorno e notte.

1 thought on “Una scienza del particolare. Intervista a Jan Brokken

  1. A me piace molto Brokken e ho letto tutti i suoi libri tradotti da Iperborea. “Anime baltiche” rimane il più intenso e interessante. Spero che presto arrivino in Italia anche quelli che ha scritto sull’America Latina. Il più bello per ora è “Jungle Rudy”, ambientato in una regione del Venezuela. Speravo che nell’intervista venisse citato anche “I giusti”, uno dei suoi testi più sconvolgenti…

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