di Filippo Bruschi
A seconda delle zone di diffusione del Covid (verde, rossa, arancio), i teatri francesi hanno avuto la possibilità di riaprire il 2, 15 e 22 giugno. L’incertezza precedente tale decisione, una certa vaghezza sull’obbligatorietà delle misure protettive (mascherine e spettatori separati da un metro), oltre all’arrivo dell’estate, ha fatto sì che quasi nessun programma strutturato, e tanto meno il Festival di Avignone, sarà attuabile prima di settembre, quando i teatri dovrebbero riprendere una programmazione quasi normale (almeno a giudicare dalle newsletter).
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Nell’attesa, per recuperare il tempo perduto e riabituare gli spettatori a stare in sala, l’Espace Cardin, uno delle sale facenti riferimento al Théâtre de la Ville, ha ospitato Les Veillées du Théâtre de la Ville (Le veglie del Théâtre de la Ville) una serie di brevi spettacoli succedutisi quasi senza pause dalle 16,00 del 22 giugno alle 23,00 del 24 giugno. Letture, concerti, pièces, il tutto coordinato del regista Emmanuel Demarcy-Mota.
Al centro di questa pleiade di rappresentazioni, Suite Ionesco, regia dello stesso Demarcy-Mota: una serie di passaggi delle commedie di Ionesco (Jacques ovvero la sottomissione, Delirio a due, La lezione, La cantatrice calva) cuciti insieme per creare una rapsodia ancora più crudele e bizzarra delle singole opere che la compongono. Un bello spettacolo, soprattutto per l’intensità fisica espressa degli attori (in sala oltretutto faceva caldissimo).
Mi è stato riferito che alla prima, il professore di un’imprecisata università abbia rimproverato Demarcy-Mota di non aver preferito mettere in scena dei frammenti di Artaud. Immagino si riferisse alla teoria artaudiana[i] del teatro come peste e all’eco che potrebbe avere nell’attuale situazione pandemica. Ricordiamo però che la pesteper Artaud è una sorta di liberazione, d’immersione volontaria nelle deliziose sofferenze dell’inconscio. Non mi sembra l’impatto che il Covid sta avendo sulla nostra società, che procede invece verso più leggi, più controllo e, col noto dispetto di Agamben, verso una conservazione della vita come bene al quale sacrificare libertà e pulsioni.
Una società, insomma, con sempre più integrati e sempre meno apocalittici. Se non apocalittici a forza d’integrazione.
In questo scenario Ionesco è forse più attuale di Artaud.
Di certo Ionesco non è morto. Questo non è altrettanto vero per molti altri membri del cosiddetto “teatro dell’assurdo” (definizione generica -ma a mio parere non del tutto impropria- coniata da Martin Esslin in un saggio del 1961[ii]). Cosa resta di loro? Genet davvero non fa più parte del gruppo, ormai nemmeno nei manuali più retrivi. Molti altri sono spariti dai cartelloni: non solo i francesi de souche Audiberti, Billetdoux, ma anche quelli d’adozione Adamov e Arrabal (ancora in vita). Persino Havel, malgrado la fama assunta come dissidente e politico, non è che una presenza saltuaria.
Già una ventina di anni fa, a dire il vero, si poteva stabilire che solo Beckett e Ionesco continuavano a essere rappresentati con frequenza. E penso fossero in molti a pensare che anche Ionesco prima o poi sarebbe stato inghiottito dal tempo, che il genio di Beckett sarebbe bastato a rappresentare tutto il teatro di quegli anni.
Tanto più che Ionesco ha avuto il torto di passare per un autore di destra, ironico persino verso quei sessantottini « che », preannunciava, « sarebbero diventati tutti professori » – e chissà che direbbe oggi se vedesse Daniel Cohn Bendit plaudere dietro le quinte alle manganellate della polizia macroniana.
Invece Ionesco è rimasto. Che un regista di spicco come Demarcy-Motta lo scelga per questa strana chiusura/apertura di stagione non ne è l’unica prova.
Ionesco è l’autore francese più rappresentato al mondo dopo Molière.
Ionesco è l’autore più rappresentato nei teatri parigini, soprattutto quelli piccoli e privati.
Ionesco è stato anche uno degli autori di riferimento, assieme a Cechov, di Jean-Luc Lagarce, l’ultimo scrittore di teatro francese davvero conosciuto oltre frontiera.
Le ragioni di questa resistenza ioneschiana possono essere varie. Ne isolerei due.
La prima è l’impronta vaudeivillesca della maggior parte delle opere di Ionesco. Questo conferisce loro una leggerezza che le mette al riparo da certo simbolismo un po’ greve di altri testi degli anni 50-60. Ionesco si può e forse si deve inscenare come un Feydeau, ai cento all’ora. Male che vada non vi annoierete. In realtà Ionesco è un Feydeau che ha reso esplicito il lato reificato e marionettistico ancora latente nei personaggi di Feydeau -e di cui Peter Szondi fa una brillante analisi nella sua famosa Poetica del dramma moderno[iii].
La seconda ragione è il mondo rappresentato da Ionesco, che naturalmente è il corrispettivo di questa forma brillante e reificata. Un mondo in cui i personaggi parlano per sintagmi, slogan, frasi fatte, che, senza dire nulla, fanno comunque girare la macchina della vita, sebbene tale farsa finisca spesso in tragedia. Sono personaggi posseduti dalla lingua: non quella magmatica del flusso di coscienza, bensì quella stereotipata della comunicazione sociale. Lo sviluppo dei media di massa, fino agli odierni social, non ha certo reso desueto questo mondo dominato da una lingua che non ammette dissidenze e rivolte.
Nella penetrazione della fraseologia mediatica nella nostra intimità, dunque, Ionesco è vivo.
Nel sapere di stato, Ionesco è vivo.
Nell’intolleranza dei demi-intellectuels, Ionesco è vivo.
Nel culto dell’obbedienza, Ionesco è vivo
Nella scissione tra atti e parole, Ionesco è vivo.
Prima dello spettacolo Demarcy-Mota ha tenuto un prevedibile discorso d’introduzione : “Il virus è ancora tra di noi … dei medici sono presenti in sala perché non vengano a crearsi nuovi « clusters »… per questo vi preghiamo di rispettare una distanza di sicurezza, ecc.” Mi sfugge come i medici, grazie al solo fatto di osservarci, possano prevenire nuovi focolai. Sarà come sarà. Comunque, quando si spegne la luce, siamo tutti senza mascherina, a cinquanta centimetri sia dagli umani alla nostra destra sia da quelli alla nostra sinistra, ansimando a causa dell’afa. Sì, Ionesco è vivo.
Note
[i] Antonin Artaud, « Il Teatro e la peste » (Le Théâtre et la peste, 1933), Il Teatro e il suo doppio, Einaudi, 2000.
[ii] Martin Esslin, Il Teatro dell’assurdo (The Theater of the absurd, 1961), Abete, 1990.
[iii] Peter Szondi, Teoria del dramma moderno (Theorie des modernen Dramas, 1956), Einaudi, 2000.