di Andrea Cortellessa
Jolanda Insana è morta otto anni fa, poco prima di compierne ottanta. E vuole una superstizione, che di solito ci azzecca, che siano i dieci anni successivi alla scomparsa di un autore a decidere una volta per tutte della sua fortuna postuma. Quanto mai opportuna allora, prima che sia troppo tardi, questa ricca antologia della poetessa nata nel ’37 a Messina e ivi laureatasi in Lettere classiche (le si devono versioni, fra gli altri, di Saffo, Plauto, Lucrezio e Andrea Cappellano), ma dal ’68 trasferitasi a Roma. La cura la più appassionata delle sue giovani studiose, Anna Mauceri, mentre una maestra come Maria Antonietta Grignani tratteggia, rapida quanto incisiva, i caratteri decisamente singolari di questa personalità poetica.
Oltre a una quantità di versi antichi, precedenti all’esordio, e seriori, successivi al postumo Cronologia delle lesioni, il libro recupera diverse prose dell’autrice, rare o del tutto inedite, come si capisce preziose per la sua poetica ma non prive di pregio anche di per sé; rispetto al collected che si curò la stessa Insana da Garzanti, nel 2007, cade invece la, pure preziosa, antologia critica. Vi rileggo un bel pezzo di Emanuele Trevi sulla Tagliola del disamore (2005), che descrive la casa in cui abitava Jolanda: nella strada nel centro di Roma dove ha sede il Conservatorio di Santa Cecilia. Me la ricordo bene anch’io, come ricordo il dettaglio che aveva colpito l’autore di Senza verso: «appesi a delle cordicelle con delle mollette, come le banconote appena stampate nei film dei falsari, i testi che compongono questo bellissimo libro di poesia aspettavano un ultimo ritocco». A me quell’allestimento ricordava piuttosto le stampe fotografiche di un altro film, Blow up di Antonioni, tanto più che quando l’ho visto io non era adibito alle bozze di un libro ma ai disegni e ai dipinti ai quali Insana dedicava estri non dilettantistici. Ma soprattutto il ricordo di Trevi me ne ha richiamato un altro, del quale non ho fatto purtroppo esperienza diretta: quel «teatro della memoria» “citava” quello a suo tempo allestito, nella sua casa pure romana, dal grande conterraneo Stefano D’Arrigo con le ben più numerose bozze del suo interminabile Horcynus Orca: a strati multicolori come quelli della giovane discepola. L’antro di Via dei Greci non era quello di una Pizia, bensì di un’ammaliante stregona della lingua.
Insàn in arabo – lo ricordava Antonella Anedda recensendo L’occhio dormiente nel 1997 – significa «creatura vivente». E, volendo definire la postura di Insana, la potremmo davvero rubricare sotto il cartellino del «creaturale» (di auerbachiana memoria). Solo che, quando un poeta oggi si richiama a questo registro, se ne fa alibi d’un efferato intenerimento se non del bamboleggiamento più cioccolatinesco (lo slittamento moderno della categoria si deve al peggior Pasolini, e soprattutto ai versi di Elsa Morante: ancorché incolpevoli della colluvie di poetese che impazza sui maledetti social). Laddove per Auerbach era questa, invece, la postura di poeti tutt’altro che teneri: come quelli dell’Antico Testamento, Francesco d’Assisi e lo stesso Dante. Diceva l’altro grande filologo che salò il sangue a Pasolini, Gianfranco Contini, che se in generale «sembra accertato che non si fa poesia coi “bons sentiments”» può viceversa accadere che «le funzioni di musa siano delegate al rancore»: facendo i nomi di Dante, appunto, e di Gadda.
Fece alzare qualche sopracciglio Giovanni Raboni (doveva essere lui l’anonimo presentatore dell’esordio Sciarra amara, nel ’77 sui «Quaderni della Fenice» di Guanda; Insana gli restò sempre devota) ascrivendo la giovane siciliana «alla grandiosa “funzione Gadda” isolata una volta per tutte da Gianfranco Contini»: perché se questo concetto – massima “istituzione critica”, a volerne citare una sola, del Novecento italiano – ha avuto grande (e a volte sin troppo generosa) fortuna in ambito narrativo, quasi mai lo si menziona invece in poesia. Con ogni probabilità perché qui, malgrado tutte le infrazioni moderne, resta tutto sommato egemone – specie ai piani bassi – quel monolinguismo (e monotonalismo) che sempre Contini, nel nome di Petrarca («Petrarca Petrarca / quanti guai», si lamenta Insana nei Fendenti fonici dell’82), contrapponeva al plurilinguismo della «funzione» di suo conio. Alle cui origini poneva l’incantevole «Contrasto» di Cielo d’Alcamo, siciliano del Duecento, col quale la poesia d’amore in volgare nasce, per così dire, avanti lettera anti-petrarchesca: non solo plurilingue, ma scandalosamente plurivoca. È a questo archetipo che si pensa, in effetti, rileggendo Sciarra amara: dove il crudo lessema dialettale evoca la lava incandescente della «sciara» ma, con la liquida geminata, indica in effetti una controversia amorosa trascesa nel rancore evocato da Contini, se non nello «sgradevole» attribuito a questa poesia da Franco Cordelli (chissà se tanti anni dopo si sarà ricordato della «Sottile sostanza» nel capolavoro di Insana, L’occhio dormiente, intitolando un suo bellissimo libro La sostanza sottile): paragonando a quelle «ostili ai sovrani» di Tersite, nell’Iliade, le memorabili parole “civili” di Insana («il padrone grida / a me tutti i microfoni»).
«Mi arrabbio, dunque sono», enuncia così Insana il proprio cogito (nel Collettame dell’85); e pensando alla serie omoteleuta di certi suoi titoli, La clausura dell’87 e La stortura del 2002, si sospetta a suo palinsesto la «rancura» del Dante “petroso” del Purgatorio: dove vale «angoscia, oppressione». È questa la radice comune ai percorsi ricchi e strani di Insana: oppressa dall’«ambienza bugiarda», come la chiamava Gadda, di tempi irrespirabili come quelli vissuti da lei (e da noi); ma, prima ancora, da una corporalità anti-graziosa e tutt’altro che improntata alla jouissance. Le interminabili disgrazie odontoiatriche da lei spesso ricordate, che ne sgretolarono l’aspetto in un bradisismo di rughe, segnano a dito un’«infermità del corpo» che, scriveva Raboni, è «infermità della nazione, anzi del pianeta». Mai narcisa, questa poesia è collettiva (gnomica, se non civile) anche quando, o proprio quando, parte dalla microfisica di un molare fuori posto. Per questo può valere in effetti la categoria del creaturale: se è vero che si deve a questa creatura ispida e indocile l’ultima voce capace di chiamare, la catastrofe che tutti ci accomuna, «sora nostra morte corporale».
Jolanda Insana, A schiere le parole. Poesie scelte con prose e versi inediti, a cura di Anna Mauceri, prefazione di Maria Antonietta Grignani, Marcos y Marcos 2024, pagg. 502, € 24
[Una versione più breve di questo articolo è uscita sulla «Domenica» del «Sole 24 ore»].