di Pietro Bianchi

Nella frase di lancio che capeggiava sui moltissimi manifesti che tappezzavano gli Stati Uniti quest’estate per promuovere la serie televisiva Homeland si leggeva “The nation sees a hero. She sees a threat” (ovvero “il paese lo considera un eroe. Lei lo vede come una minaccia”), con il ritratto dei volti su piani leggermente sfasati dei due protagonisti della serie: l’agente della CIA con disturbi psicotici Carrie Mathison, e l’ex-prigioniero di guerra e Sergente dei Marines Nicholas Brody. La sovrapposizione e dunque la confusione fino all’indistinzione di eroe e minaccia, di emblema della nazione Americana e di terrorista pronto a distruggerla sembra essere il filo rosso che guida la scrittura e l’intero svolgimento di questa sorprendente e intensissima serie dell’autunno televisivo americano. D’altra parte il cinema americano ci aveva già abituato da qualche anno a questa parte all’incontro del massimo di estraneità con il massimo di familiarità, di presenza minacciosa del nemico nel punto di più estrema vulnerabilità.1 Figura di questo shock è senz’altro 9/11 che secondo la celebre tesi di Slavoj Žižek2 espone il suo nocciolo traumatico non tanto dalla sua esternità inaspettata ma piuttosto dal suo opposto: il fatto che si trovasse al centro dei fantasmi inconsci dell’immaginario americano (ad esempio l’anticipazione dell’attacco alle Twin Towers nei film catastrofici). Da lì prese avvio un diffuso modello di costruzione simbolica, che ha segnato il primo decennio degli anni Duemila, incentrato sulla paranoia, sul sospetto generalizzato, sull’ambiguità perturbante persino del più prossimo e famigliare degli elementi del reale. Si potrebbe portare ad esempio una lunga serie di pellicole a cominciare del dittico La 25° Ora Inside Man di Spike Lee, se non che la realtà di quegli anni avesse degli estensori politici responsabili di questo dramma (fuor di metafora) tutt’altro che cinematografici e delle cui scelte continuiamo a subire le perduranti conseguenze.

 Coincidenza degli opposti

 Questa coincidenza degli opposti che definisce l’apparente paradossalità del nemico interno è a prima vista il tratto caratterizzante di Homeland e potremmo portare numerosi esempi a riguardo dallo svolgimento della serie. Stiamo sempre parlando di una serie che opera un costante ribaltamento delle aspettative e dove capita che il nemico vesta gli abiti più familiari e l’estraneo mostri una paradossale vicinanza. Dove ci capita di vedere il video-testamento di un attentatore suicida fatto da un soldato Sergente dei Marines; dove una ragazza americana di provincia dopo qualche anno in Arabia Saudita diventi terrorista jihadista; dove la CIA compie senza alcuna infrazione protocollare torture di vario tipo e ordina in modo deliberato bombardamenti che fanno stragi di civili iracheni mentre il più grande capo internazionale di Al Qaeda viene rappresentato come un carismatico idealista. In una delle scene più audaci dell’intera serie, nell’undicesimo episodio, Nicholas Brody il Sergente dei Marines passato ad Al Qaeda, porta i propri figli nei luoghi della guerra civile e decantando le virtù dell’eroismo militare di Joshua Chamberlain parla dell’importanza del sacrificarsi verso una causa in cui si crede. Sembrerebbe uno dei tanti momenti da televisione americana commerciale in cui si dispensa moralità a buon mercato ma le parole retoriche e scontate nella forma acquisiscono una significazione inquietante dato che vengono dalla bocca di un prossimo attentatore suicida jihadista. In molti hanno visto nella svolta autoritaria post­9/11 un tradimento dei principi sui cui si è fondato il sogno americano, ma qui abbiamo addirittura un americano che per fedeltà ai principi americani più autentici finisce per arruolarsi con Al Qaeda. Detta così non saremmo molto lontani da una compiaciuta e tutto sommato gratuita provocazione, che darebbe per una volta persino qualche ragione alle (prevedibili) accuse rivolte alla serie da Fox News. Ma crediamo al contrario che il gioco della sovrapposizione/indistinzione di buoni e cattivi, amici e nemici, patriottici e terroristi riesca a vedere solo una parte, senz’altro nota e forse nemmeno particolarmente interessante, di una serie che invece ha sorprendenti elementi di novità nei suoi tratti da dramma psicologico. La nostra tesi dunque è che Homeland non sia un diversivo sul tema del doppio, del perturbante, dell’ineliminabile ambiguità, del ribaltamento di familiarità ed estraneità, ma che piuttosto sviluppi un’altra linea narrativa che non si mette accanto alla prima ma che semmai la inverte profondamente di senso. Homeland non ha due protagonisti e due storie a volte parallele e a volte intrecciate: ne ha soltanto una, quella di Carrie Mathison (interpretata in modo straordinario da Claire Danes) e del confronto con il suo spaventoso e distruttivo oggetto del desiderio.

 La forma dell’ossessione

 Il pilot di Homeland si apre in un carcere in Iraq: l’agente della CIA Carrie Mathieson riesce ad estorcere da un prigioniero di Al Qaeda pochi minuti prima della sua condanna a morte una confessione. Non si tratta nemmeno di una vera e propria confessione, ma di una mezza frase bisbigliata nell’orecchio mentre i due vengono separati dalla guardie carcerarie: un prigioniero americano si sarebbe “convertito” e sarebbe passato nelle file di Al Qaeda; starebbe lavorando per un attacco in suolo americano per conto di Abu Nazir, l’immaginario capo terroristico che complotta un attentato planetario contro gli Stati Uniti. Proprio come quando ci fu 9/11, quel giorno in cui, ci viene detto, “tutti nella CIA non si accorsero di qualcosa”. Ma Carrie dice di non essere “tutti” e la sua ossessione per un prossimo attacco terroristico in suolo americano è pervasiva; la confessione estorta nella prigione di Bagdad è l’atto scatenate un’ossessione che non avrà momenti di pausa per tutta la durata della serie. Ma perché Carrie è disposta ad infrangere ogni protocollo, a mettere in pericolo la propria vita e la propria salute mentale per questo obiettivo? Non è una patriottica invasata, non è un’americana valorosa e senza macchia che vuole difendere il proprio paese a tutti i costi. La sua ragione è pienamente soggettiva. L’ossessione è infatti la forma del suo stare al mondo. Carrie è una psicotica, probabilmente schizofrenica (“disturbo bipolare” ci viene detto nella serie). E’ dipendente dalla clozapina, un potente antipsicotico che la mantiene sotto controllo e che assume di nascosto grazie alla fornitura sottobanco della sorella-medico. Ma da quando avviene questa confessione-scatenante all’inizio della prima puntata sembra che l’interezza della sua esistenza – dal suo lavoro fino ai suoi comportamenti sessuali – sia completamente assorbita da un unico oggetto: l’attacco di Abu Nazir e la convinzione che un ex-prigioniero americano sia passato ad Al Qaeda.

 Striscia di Moebius

La figura che sintetizza Homeland non è dunque il doppio dell’eroe/terrorista, ma il continuum: il dispiegamento di diversi livelli e registri sul medesimo piano di un’ossessione. È una figura profondamente legata alla dimensione dell’inconscio e dunque alla follia. Jacques Lacan amava raffigurare l’inconscio tramite la banda di Moebius, una figura topologica consistente in una striscia bidimensionale attorcigliata su se stessa ad 8. L’intento era quello di sottolineare come i due piani sovrapposti, il dritto e il rovescio, fossero in realtà un’illusione dato che è possibile percorrere la striscia di Moebius andando da sopra a sotto nel continuum di un piano senza tagli o interruzioni. L’inconscio non sta “sotto” come spesso si pensa: si dispiega sulla stessa superficie del conscio. Ciò che sfugge non è quello che è rimosso, ma semmai la logica che li connette3. Il personaggio di Carrie viene scritto e rappresentato dagli autori di Homeland come un continuum che non distingue qualitativamente tra la sua vita lavorativa, sessuale, politica etc. ma che è ossessionato da un unico oggetto pervasivo. È un espediente di estrema efficacia che toglie allo scatenamento psicotico quel tipico effetto di irruzione dal nulla di un homunculus folle al posto di un soggetto “normale” e che piuttosto vuole sottolineare il carattere profondamente logico dell’esperienza psicotica.

 La logica del disordine

 Non abbiamo la possibilità in queste poche pagine di analizzare in modo puntale la costruzione di una logica del disordine che sottosta all’elaborazione del personaggio di Carrie lungo le dodici puntate. Vi è tuttavia una parte che si fa figura del tutto, e sono gli opening credits della serie, dove questa organizzazione della psicosi prende le sembianze di una breve serie di associazioni: alcuni Presidenti americani (Reagan, Bush, Obama, Clinton) e i loro annunci degli attacchi terroristici degli ultimi anni (da Lockerbie, allo USS Cole, al Word Trade Center), e le immagini della giovane Carrie che mano a mano cresce e da bambina diventa adolescente fino a quel “non posso permettere che accada ancora” che vediamo nel pilot urlare contro Saul. Gli elementi politici vengono singolarizzati nella propria memoria, e vediamo l’immagine di un labirinto quasi a voler indicare l’enigma soggettivo riguardo al proprio modo per poterli organizzare. Ma sono le note jazz che accompagnano i credits, e che fanno da leit-motiv dell’intera serie, che indicano quel modo singolare di organizzazione del disordine che non è proprio soltanto di un soggetto psicotico, ma di ogni soggetto. In questo senso Homeland ha davvero il sapore di un struttura melodica jazz dove l’asimmetria destrutturata della forma musicale procede ad un livello sempre singolarizzato di invenzione con il quale saperlo abitare. Ed ecco che forse anche una psicosi dall’essere emblema della marginalizzazione della follia può diventare metafora del modo universale con cui organizziamo il disordine del nostro inconscio.

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Note

1. Rimandiamo a proposito all’eccellente volume collettaneo curato da Andrea Bellavita e Leonardo Gandini Ventuno per Undici. Fare Cinema dopo l’11 Settembre, Le Mani Editore, Recco 2008.
2. Slavoj Žižek, Benvenuti nel deserto del Reale, Meltemi, Roma 2002.
3. Una convinzione che fu già di Freud che non riduceva l’inconscio a rimozione, ma che semmai era convinto che rimosso e ritorno del rimosso facessero parte dello stesso processo.

1 thought on “L’arte dell’organizzazione della follia: “Homeland”

  1. Molto interessante questa analisi. Radicalizzandola si può dire che l’inconscio è troppo spesso usato in molte trame meno complesse di questa come espediente narrativo ortopedico, terapeutico e inevitabilmente censorio o peggio risolutivo. Perdendo così, dal punto di vista narrativo, la complessità e l’ambiguità come faro e guida o almeno possibilità.

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