di Edoardo Albinati

[E’ appena uscita presso Nino Aragno Editore, nella collana i domani diretta da Maria Grazia Calandrone, Andrea Cortellessa e Laura Pugno, la nuova edizione di La comunione dei beni, romanzo in versi di Edoardo Albinati pubblicato per la prima volta da Giunti nel 1995. Ne propongo un estratto. Le righe bianche che intervallano di tanto in tanto il testo, assenti nel libro di Albinati, servono a consentire una lettura più  facile a schermo].

C’erano luci bellissime. Di colpo la gente
non sembrò più strana e sorrise. Non avevi mai visto
una cascata di capelli biondi come quella, e tutto il panorama
notturno della strada, i bicchieri di birra
i lampioni esitanti come ombre fuggivano via
dagli angoli degli occhi durante l’unico bacio
dato fuori dalla finestra in maniche di camicia. Gennaio.
Il cuore arde per cose che raggelano.
Non si riesce a respirare per un mese. E dire che era
solo un bacio, la confusione tra chi sceglieva e chi
era scelto nel gioco della bottiglia. Nelle sottigliezze
perdi ossigeno. E tutto gira, gira, e non si arresta
finché non ti senti leggero come Spiderman.
Normale a diciassetteanni che le frasi di Cicerone
suonino ridicole, ma la sensazione rimane la stessa
a trent’anni o a qualsiasi età, poiché non c’è niente
di più banale della saggezza, come del resto
sostengono proprio loro, i grandi saggi
inaugurando con sublime scetticismo
i loro elenchi di massime inascoltate.

Metti la testa sott’acqua ma sta attento a non bere.
Meglio che metterla tra nuvolette decorative, se vogliamo
ridurci a ragionare sul meglio e il peggio.
Eppure ti sentivi veramente ubbidiente solo
ai desideri, che ora vanno ora vengono, e andandosene
provocano quei lunghi minuti di vuoto
che riempiresti con qualsiasi cosa, metterti
a letto alle sei e mezza oppure riempire la vasca
con uno scroscio, una musichetta pronta
a condurti da qui a lì a pagamento, come
un taxi volante, finché la notte ti fermerà.
Visitare la stanza è come arrampicarsi su una stella:
ci hai lasciato tanti di quei sassi interessanti
per la scienza del futuro che una volta appesantite le tasche
non si sa più da che parte scendere. Precipiti
e non riesci a frenare. Ecco il guaio
di studiare la sera tardi, il tempo passa, il blocco
è zeppo di appunti eppure non sai niente, hai lavorato
per niente, e devi ricominciare daccapo
usando gli stessi suoni slargati dallo sforzo
ma i libri sugli scaffali non aiutano
si sfasciano non appena li prendi in mano
per sfogliarli. Sono molto meno faticosi i mobili
da portar via nel prossimo trasloco: io prendo
questo armadio, malgrado i graffi sull’anta, tu il busto
e la credenza, ma il resto non vale neanche a venderlo a peso
persino, di certi quadri, la parte più preziosa è la cornice.
A qualcuno piacquero e adesso non piacciono più.
La continuità non era il vostro forte.
Le stanze sono quasi sgombre eppure continuano a saltare fuori
evidenze di una realtà un bel po’ diversa
sia dai progetti che dalla memoria, situandosi in un terreno
intermedio dove i fiori morti nel vaso non ci si sta a pensare su
prima di buttarli nella spazzatura. Undici ottobre 19**
è la data di domani, e dovrebbe ricordare qualcosa
accaduto tra queste mura, uno strillo di gioia
subito sommerso da una marea di certificati, vaccini, diplomi
come se tutto fosse stato ottenuto chiedendo
un regolare permesso. D’altronde chi aveva ragione
quello che ha vinto o quello che è ancora vivo
a raccontarlo? Quanto tempo deve passare
prima che si sappia chi aveva detto la cosa giusta
davanti allo specchio del bagno? C’era una nube di vapore
e macchie sospette nel lavabo, bisognava fare presto
a tamponare il sangue della rasatura. Un’impressione di realtà
può darla persino una canottiera che pizzica.

Da un pezzo non provi più la sensazione
che ti oppongano un rifiuto chiaro e netto. Ora le risposte
non le danno direttamente a te oppure
occorre decifrarle, il no vuol dire forse, il forse certamente
il sì nemmeno per sogno. Oppure la linea è disturbata
e il sì era in effetti un sì, ma bisogna urlare
fino a perdere il senno per capirlo
come accade nelle famiglie quando qualcuno esce
da mesi di cella d’isolamento, e finisce per rimpiangere
di non esserci rimasto. Quando ti liberano
sei accecato dalla luce e dagli odori
fortissimi della vita, i motori bruciano benzina
gli alberi ti agitano i rami contro, con la convinzione
che resterai impressionato dal manto di foglie nuove
eppure già leggermente sciupate, gialline, come commercianti
troppo espansivi dalle cui facce traspare
il nervosismo per la sorte delle loro merci:
e tu vorresti darti da fare perché il tempo
della commissione sembri un’eternità e alla fine
nel pacco ci siano molte più cose di quelle che hai comprato
piluccando svogliatamente tra gli scaffali
con l’ossessione di sbagliare marca, di calcolare
male il rapporto tra peso e prezzo. L’ingenuo andò
al mercato e portò solo un piccolissimo pezzetto di burro o
almeno così cominciava quella favola
illustrata da raffinati acquarelli inglesi
che facevano sembrare tutto bellissimo e triste
Lontano si sentiva piangere, in effetti.
Ma dopo un po’ ci si fa l’abitudine, si scopre che era per
finta, o peggio ancora che è normale così
e si diventa imbecilli. Spesso sono i rumori di casa a
mettere in comunicazione con ciò che i muri
faticano a separare, come se i muri crollassero per una parola
detta a voce alta, davanti ai giudici impietriti
dall’orrore e dalla pietà, rivelando sghembe enciclopedie
il kamasutra per i piccoli, la gastroenterite, l’uomo
che batte la donna, la domenica, la povera
scoperta di cose che non vorresti mai sapere
da cui non vorresti mai essere sedotto.
Per anni udiste passeggiare sul soffitto una vecchietta zoppa
sviluppando la sindrome dei marinai del Pequod
mezzi ammattiti nelle amache, poi
un giorno il picchiettio cessò. Ma non fu un sollievo
non avere più sulla testa l’irrequieta gamba di legno.

Nessuno riusciva più a chiudere occhio, e per far tornare
la pace furono inventati i colpi di tosse.
Mica era la cosa peggiore essere ammalati.
Anzi diventava un privilegio, voleva dire
riposo, carezze, letto rifatto
dopo il bagno di sudore, quell’esperienza che occorre
scordare all’istante perché sia stata viva.
Il giorno che la disperata urgenza dei bisogni infantili
non avrà più la meglio su di te, quando potrai dirti adulto
cioè protagonista di fenomeni tanto complessi
da non essere più tuoi, uniformando la tua vita
a quella di tutti, crederai di essere finalmente al sicuro, dato
che non esiste niente di tragico che non sia anche molto semplice
e tu avrai scordato persino cosa vuol dire il termine.
Tra le foto in bianco e nero e le foto a colori
si aprirà un abisso più profondo di quello che divideva
i patrizi e i plebei, al mercato, dove la varietà illude
e il rosso e il verde della frutta narcotizzano i passanti.
Man mano che si aprono nuove allettanti possibilità
il valore della terra diminuisce, diventa
meno importante, finché avremo a disposizione l’intera
gamma di nuovi modelli e sarà inutile esprimere
idee generali perché ognuno sarà orgoglioso
dei propri accessori. La musica riprodotta è talmente ricca di sfumature
da non tenere più chiaramente una sola nota
con le labbra gonfie, come era capace di fare quel trombettista
sanguinando nell’oscurità. Non lamentatevi
se non avete spazio dove tenere i giocattoli dei figli.
Non lavatevi con troppo sapone.
Non strofinate i denti solo orizzontalmente.
Dedicate alla lettura dei giornali al massimo
mezz’ora, la sera, nel silenzio, quando il fischio
del bollitore sul fuoco sarebbe insostenibile
e le notizie di guerra cominciano a somigliare
a bollette telefoniche esagerate, per via delle
interurbane fatte di nascosto. L’inverno avanza.
Il tetto va riparato al più presto o uno di questi giorni
ci cadrà in testa. Ti spiace imbucarmi queste due lettere
di protesta per il trattamento che abbiamo ricevuto
in quel maledetto ambulatorio? Lo so che non serve a niente
lo so che ti ridono dietro, ma io spero sempre che
per una magia tutto si aggiusti o almeno sia rotto ma bloccato
in un istante di splendore notturno, il raggio freddo
di Arturo che corre dietro all’Orsa, perché se così non fosse
non potrei vivere. Non ce la farei un istante
di più, te lo assicuro. Almeno la madre non fu ferita
ed essi vivono in cielo, per sempre meravigliosi.

Ed è l’unico modo di godere, godere prima
che sia troppo tardi e gli annunciati progetti
vengano annullati per mancanza di denaro, o perché uno
si è ammalato proprio all’ultimo. Ti piace dirlo
ti piace che gli altri sappiano che la pensi così.
E questo punto si potrebbe sviluppare all’infinito, chissà
quante frasi potresti registrare, col microfono piazzato
tra i cuscini, lo small talk a cui essere altamente fedeli
come le tappezzerie, il cane, le sedie
che non potresti immaginare fuori di qui, fuori da
questa casa, da questo deposito di merci che si camuffano
sotto lenzuoli bianchi come per nascondersi
dai vecchi padroni, ma sono traditi dalla forma.
Hai scelto apposta un arredamento anonimo, per non
correre il rischio di sentirti a casa tua e aprendola agli amici
chiuderla per sempre. Eppure resta inconfondibile
in questo continuo spreco di polvere e parole
che solo le pulizie riescono a sollevare
per poi lasciarle pigramente ricadere sugli oggetti
scelti da zie semisconosciute nella lista di nozze
al termine di un consulto laborioso. Lo stesso raggio
li illuminava sulle scaffalature, nello scantinato
del grossista ebreo, la prima volta che gli lanciasti
uno sguardo vuoto di intenzioni, schivando con passo cauto
e innamorato le pile di piatti alte
fino al soffitto e pensando alla sposa, al suo vestito
alla fatalità che ti aveva spinto a scendere
le scale fin lì. Tu, a scegliere vasellame! a parlarne!
Era come ridere o stare zitti. Adesso che il loro profilo
è stato registrato persino nelle mappe più grossolane, è giunta
l’ora di vender tutto e ricominciare da capo
come alla fine della lavorazione di un film
la gente si abbraccia prima di separarsi
sembra proprio la fine del mondo tanto sono tristi
ma poi ricominciano da un altro punto del mondo la stessa
vecchia cosa: guardarsi, baciarsi, amarsi, minacciarsi quando
l’amore è finito. Sei il primo uomo della storia.
Le gonne si accorciano di nuovo. Le strade sono piene
di esperienze da vivere, peccato che non puoi percorrerle tutte
ma devi attendere che vengano asfaltate. Un lavoro
che va per le lunghe, mentre tu hai fretta di lasciare la scena
e infilarti qualcosa di più pesante del vestito di lino
che andava bene per l’attraversamento del deserto. Ora
piove, tra poco nevica, domani sarà la solita giornata storica.
Bisogna cambiare i cuscini perché le piume
aggravano l’allergia a tuo figlio, e il piccolo soffre
le palpebre e la bocca si gonfiano, il respiro si fa pesante fin
quasi ad arrestarsi, e quando hai fatto tutto quello che potevi
e non sai più cosa fare nel cuore della notte, vorresti
spegnere la scena con un soffio sulla candela
perché ti dà troppo dolore, e non puoi prenderlo su di te.

 

[Immagine:Thomas Jackson, Glow Sticks no. 1 (2012), particolare].

1 thought on “La comunione dei beni

  1. Un bel testo… Resta solo un problema a monte, apparentemente accessorio, che tocca anche me: è giusto che la prosa entri nella poesia? E perché?
    Perché questo è il gusto imposto da chi ha tirato i fili, dopo il cosiddetto ermetismo o per evoluzione storica? (Ed esiste un’evoluzione storica? E il progresso è sempre finalisticamente buono?)…
    O perché questo è il libro di un poeta anche romanziere?
    E se la prosa è ormai entrata da anni in poesia, qual è lo «specifico poetico» di un testo?
    Ad ogni modo, questo testo giustifica certi miei turbamenti o sommovimenti stilistici: ma devo andare sul personale, per spiegarmi meglio…
    Nel 2000, pubblicai un primo libro con un progetto di Bellezza e con uno stile da “poeta al quadrato” (si potrebbe semplicemente dire da poeta); ma con attestazioni di poesia abbastanza lampanti, a lettori acuti, intelligenti e non prevenuti ideologicamente o invidiosi (tra l’altro, un libro, quel mio primo, che avrebbe potuto esser letto perfino come una landolfiana parodia post-moderna); ho poi “sporcato” quella tensione o aspirazione alla Bellezza, nel libro secondo, ancora inedito, con annessioni di prosastico e contaminazioni varie, sull’esempio del Pasolini ultimo (abito a Roma, da Bologna, avevo una passione per Longhi e la Storia dell’Arte, ho lavorato e posso ancora lavorare nel cinema: ho vissuto e vivo le notti romane, anche con amici gay, sono un simpatizzante di Sade, ho un rapporto molto intenso con la «madre»: direi che fosse inevitabile o destinale, l’incontro con Pasolini… Il che non vuol dire che io mi senta un Pasolini «de noantri», anzi: non ho molto da spartire con taluni suoi discepoli o epigoni; è solo un «incontro romano», più decisivo e provocante rispetto ad altri)… Nel mio libro inedito, c’è un poemetto (più breve) che ricorda molto, anche per l’autobiografismo retrospettivo e la fluidità della scrittura, questo bel testo di Albinati; nel mio caso, la materia è più bassa e permane una sinopia metrica…

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