di Gilda Policastro
Esuli, rubrica a cura di Gilda Policastro
[Con questa conversazione con Stefano Jossa inauguriamo la rubrica Esuli, in cui Gilda Policastro dialogherà con intellettuali italiani espatriati].
Poco spazio, nella tivù italiana, per la cultura: è un mantra antico, la cui rinnovata attualità si deve al ruolo sempre più marginale, a parte le note eccezioni, che occupano gli scrittori nella società dello spettacolo e dei social network, con sparute occasioni in cui è richiesta la loro opinione fuori dalla nicchia, dal circuito dei festival e delle presentazioni o dalle cerchie degli happy few. Gli scrittori non commerciali, s’intende. Lo scrittore, come il panda, è il marginale di cui fregiarsi come ospite speciale e straordinario, in un contesto baraccone che non lo prevede come interlocutore principale. È il caso ad esempio della trasmissione di Raitre Linea Notte, dedicata all’approfondimento dei fatti del giorno, con ospiti che vanno dai politici agli economisti ai giornalisti. E poi c’è lui, il per l’appunto scrittore, in un angolo, che presenta il suo ultimo libro. La trasmissione inizia intorno alla mezzanotte e dura un’ora, lo scrittore interviene alle 00.54, solitamente. Dice due parole che quasi sempre sfumano, mentre scorrono i titoli di coda. Con delle eccezioni. Una di queste è Stefano Jossa, che in una puntata (l’ennesima) dedicata all’attuale governo dei Cinquestelle e della Lega, prende la parola nello spazio deputato alla presentazione del suo ultimo saggio (La più bella del mondo, uscito per Einaudi), ma lo fa intervenendo a chiosa di un intervento sulla politica, profittandone opportunamente per introdurre il tema della lingua, di cui è l’esperto in puntata. Stefano Jossa è Reader di Letteratura italiana alla Royal Holloway University of London dal 2008. In Italia ha insegnato a lungo presso un noto liceo romano, ha avuto incarichi prestigiosi presso diverse università, ha un curriculum spaventoso, ha perso 13 concorsi universitari.
Mi viene in mente che in una puntata della stessa trasmissione, dedicata in quel caso a Giulio Regeni, Romano Luperini, già Professore Ordinario di Letteratura italiana contemporanea e autore di diversi romanzi, obiettò a un allora ministro in quota Pd che le cosiddette opportunità offerte “ai nostri giovani” di muoversi liberamente per ragioni di ricerca e di studio al di là dei confini nazionali si producessero in ragione di condizioni materiali interne a dir poco sfavorevoli allo studio e alla ricerca, e che quindi di costrizione e di necessità, più che di opportunità, si dovesse parlare nella gran parte dei casi (al netto di Regeni, che aveva delle ragioni obiettive per volersi spostare). «In Italia non si riesce a studiare, i miei migliori allievi se ne sono andati chi in Inghilterra, chi in Francia, chi addirittura in Corea», concludeva Luperini. Che tra l’altro della sottoscritta è stato tutor durante gli anni del Dottorato e che alla sottoscritta ha sempre rimproverato l’attaccamento insensato all’Italia. Ma torniamo a Jossa: memore della sua proverbiale anticarriera in Italia («vuoi fare la fine di Jossa», mi si rimprovera quando partecipo ai concorsi, invariabilmente spacciati per “il concorso di”, in barba al bando pubblico e nazionale), ritrovandolo professore, saggista affermato, addirittura abile anchorman, mi pare non sia una gran brutta fine, tutt’altro. E per fortuna non si è trasformato in uno di quei “baronazzi” (così un docente universitario, autoironicamente, qualche anno fa) che non ti perdonano una recensione non propriamente favorevole a un loro libro. Nella fattispecie ritenni, ai tempi dell’Italia letteraria (saggio di Jossa uscito per il Mulino), poco generoso il suo riferimento alla Neoavanguardia come stagione di soli documenti e teoria a scapito dei testi (“allegati”, li chiamava Pampaloni), ovvero la Neoavanguardia vista dalla specola dei suoi detrattori. A sua volta Jossa mi imputò di aver recensito, di quel libro, una sola pagina e così siamo rimasti in rapporti direi cordiali. O almeno, ha accettato un confronto aperto e libero sull’Italia vista da Londra. Politica, economia, società, cultura, letteratura, lingua. E sì, anche il tema dolente: l’università.
Jossa, come stai e cosa ci facevi a Raitre? E, soprattutto, perché sei andato a Londra: esilio, cervello in fuga o libera scelta?
Cosa ci facessi a Rai3, ti confesso, ancora non lo so bene. Un amico, che è un grande scrittore, Emanuele Trevi, mi ha detto che si è divertito molto a studiare la mia espressione durante la puntata, che, a suo parere, era quella di uno che si guardava intorno un po’ spaesato e molto incuriosito, chiedendosi, appunto, cosa ci facesse lì. In effetti, come dicevi tu, il mio ruolo era quello di una marchetta, se si può dire così: plurima, tra l’altro, perché Rai3 faceva una marchetta per l’editore per pubblicizzare il libro e io per me stesso per lo stesso motivo. Il nesso tra il tema della serata, la politica, e quello del libro, la lingua, era inesistente. L’intellettuale serviva solo da tappezzeria di sfondo del salotto borghese, nel quale ormai, diktat televisivo, si parla solo di politica – e si sa che la chiacchiera politica è centrale nella formazione dell’identità borghese. Lì però mi è venuta all’improvviso un’illuminazione: parlare di politica della lingua, nel tentativo di creare un ponte tra i due argomenti. Far vedere i rapporti di forza tra le lingue, decostruendo come avevano parlato i miei interlocutori (che erano, nell’occasione, Mario Sechi e Udo Gumpert). Un italiano imbevuto d’inglese e un tedesco imbevuto di latino: bel paradosso, no? Con ciò non mi sarò certo guadagnato uno spazio nell’empireo della politica in tivù, ma almeno mi sono ribellato al ruolo di tappezzeria: la questione è però tutta qui, cioè nel fatto che l’intellettuale non è più, mi dispiace per te, lo scrittore, ma il giornalista televisivo e chi da lui viene intervistato. Il mezzo, insomma, è il messaggio, ma anche il massaggio all’ego dell’intervistato che viene assurto nell’olimpo del mezzo stesso. Finché non si rompe il cortocircuito politica-media non sarà possibile pensare a un modello alternativo: fin troppo facile è l’esempio di Saviano, che è passato da scrittore a guru grazie alla presenza mediatica, senza entrare, per ora, nei motivi specifici di questo passaggio. Spaesato come in televisione ero all’università, per venire all’altra parte della tua domanda: me ne sono andato a Londra perché ero stufo di non sapere come collocarmi al mondo. Insegnavo a scuola (al liceo Mamiani di Roma, dopo aver attraversato altre scuole, da Secondigliano fino ai licei del centro di Napoli e Roma), ma al tempo stesso lavoravo all’università, facendo ricerca e collezionando borse di studio. Avevo cominciato a partecipare a dei concorsi per un posto (dodici volte, mi pare, per un posto di ricercatore e una sola per un posto di professore associato). A quel tempo c’erano ancora prove, punteggi e graduatorie: su dodici volte almeno otto ero arrivato secondo, due o tre volte ricevendo pure una lettera scritta o una spiegazione personale che “non si poteva fare diversamente”. Ora, se mi avessero detto esplicitamente che la ricerca e l’insegnamento universitari non facevano per me, mi sarei messo l’animo in pace e avrei continuato a fare l’insegnante di scuola. Purtroppo mi era sempre stato detto, invece, che avrei potuto: se o ma. Allora ho cominciato a fare domanda per posti in Gran Bretagna, dove al quarto tentativo mi è andata bene. Non so se per merito o per fortuna, visto che, come diceva Max Weber, il posto universitario dipende più dalla fortuna che dal merito; ma certo è che, a quel tempo, in Gran Bretagna ancora si provava ad accogliere chi sembrava particolarmente adatto a un lavoro accademico, senza considerare protettori e cordate. L’esito è stato tuttavia devastante: imparare una lingua nuova, integrarsi in un mondo professionale estraneo e adattarsi a una cultura diversa senza averne fatto un’esperienza diretta prima è stato come andare in televisione da intellettuale. Questo senso di estraneità a tutto ciò che faccio, però, potrebbe diventare una forza, perché il critico, a mio giudizio, si deve aggirare nella terra che esplora come uno straniero anziché uno di casa: come ha scritto Edward Said, è un principiante chi resta fermo alla sua terra; forte colui che considera ogni terra alla stregua di quella in cui è nato; ma perfetto è solo colui al quale il mondo intero appare come una terra straniera.
Potrei rincalzare con un verso del da me molto amato De Angelis: «la terra appartiene a chi l’ha abbandonata», uno dei suoi bellissimi paradossi. Che ci aiuta a introdurre, insieme al Said da te citato, il tema dell’espatrio, della migrazione e ancor prima quello a te caro dell’identità e della lingua. L’identità italiana si fonda soprattutto sulla tradizione letteraria, l’unico nostro prodotto di esportazione insieme alla moda, anche se poi all’estero, ma qui potrai dirlo meglio di me, di fatto studiano Dante e se va bene Pasolini (o se va male Elena Ferrante). Tenendo da parte il discorso emergenziale di chi emigra per gravissime necessità storiche ed economiche, e stando alle nostre condizioni di privilegio, che tale resta, anche nelle condizioni di maggior disastro nazionale, la scelta di vivere studiando la letteratura, per chi studia, dunque, la nostra letteratura, e soprattutto per chi lavora (visto che hai avuto la bontà di ricordare che scrivo, di primo o secondo o “nessun” mestiere, alla fine) con la lingua e con la scrittura, l’espatrio può essere un arricchimento ma anche una perdita irrimediabile, a me pare. Parlando con alcune poetesse delle difficoltà materiali in cui versano le ultime generazioni, una di noi, la più giovane, ha introdotto questo aspetto a cui non avevo mai pensato: andare all’estero, viverci, “strutturarsi”, come si dice, in un contesto di tipo formativo e culturale, significherebbe rinunciare, almeno per un lungo periodo (ne hai parlato tu stesso, a proposito delle difficoltà di inserimento), a quegli aspetti di profondità di pensiero e di brillantezza che solo la tua lingua d’origine, fatalmente, ti garantisce di estroflettere e condividere. “Se posso essere eccellente in Italia, perché devo andare a fare la mediocre in Inghilterra o in America?” diceva in modo un po’ tranciante, ma credo molto schietto alla fine, l’amica trentenne. Sei d’accordo, con questo aspetto? (Non mi sei parso meno brillante del solito, in tivù, a dire il vero, però non ti ho mai sentito parlare col Trevi inglese, che non so chi possa essere).
Chissà chi è il Trevi inglese, in effetti. Ali Smith? O Rachel Cusk? Ma non le ho mai incontrate, purtroppo. Né credo che questi paragoni abbiano senso, se non come gioco di quei salotti borghesi che alla fine frequentiamo anche noi, bene o male. Ma qui i due piani della nostra conversazione s’incrociano: “se posso essere eccellente all’università, perché devo andare a fare il mediocre in televisione?”, potrei replicare alla tua amica (che forse alla televisione non è interessata, però, mettendo così in crisi il mio piccolo castello di carte). Il punto è questo, tuttavia: piuttosto che partire da inutili posizioni di forza, avere il coraggio di mettersi in gioco. Rivendicare la struttura, eppure decostruirla, renderla mobile, farla piegare senza spezzarla, come il giunco nell’immagine dantesca. Certo che andare altrove significa perdere le certezze e le forze acquisite col lavoro di una vita! Arbasino ha detto una volta che andare all’estero ha senso per chiunque tranne per chi lavora con la lingua: perché la lingua è più casa di altre case, un luogo dell’anima che coinvolge il nostro vissuto emotivo oltre a quello intellettuale e professionale. Del resto i percorsi sono del tutto casuali nella vita: pensa cosa sarebbe stato Joyce senza andare all’estero e cosa Gadda se ci fosse andato. I due scrittori linguisticamente più inventivi del Novecento, spesso paragonati dai critici più recenti, hanno due percorsi diametralmente opposti. Questo per dire che non ci sono regole e i percorsi sono soggettivi. Si perde e si acquista. Sul piano personale. Su quello sociale, invece, il discorso che va fatto è politico: cosa perde e cosa acquista la comunità da cui si emigra o in cui si immigra. In questo caso forse sì, la prima perde un’eccellenza e la seconda acquista un mediocre. A meno che la struttura non sia più forte, alla fine, del puro star bene in un contesto e riveli una capacità di sopravvivenza che sarebbe rimasta inverificata senza l’esperienza della destrutturazione. Con l’espatrio, forse meglio il dispatrio, come diceva Meneghello, si acquista certamente un punto di vista doppio, che chi resta dove si è strutturato non può conoscere: a meno che, appunto, non si rimetta continuamente in gioco, come il critico dovrebbe sempre fare, secondo me. Ma se è un universitario anziché indipendente, a farlo, lo sappiamo, si gioca la pelle, o la carriera.
Joyce e Gadda, esempi perfettamente calzanti, aggiungiamo il Beckett perfettamente bilingue e avremo una terna ben fraschiana, nel senso di tre autori prediletti da un nostro autorevolissimo critico e teorico della letteratura, Gabriele Frasca: tra le altre cose, scrittore, traduttore di Beckett e suo precoce corrispondente, come ha di recente svelato in un’intervista al Mattino. In un contesto accademico italiano la monografia di Frasca dedicata a Gadda, Un quanto di erotia. Gadda con Freud e Schrödinger, già vincitrice dell’Edimburgh Gadda Prize, è stata liquidata come “infausta”, così come la curatela di quattro opere di Beckett, comprensiva di saggi interpretativi, è stata ridimensionata ad “attività traduttoria”. Dunque, è proprio il contrario di quel che dicevo prima, alla fine: nemo propheta acceptus est in patria sua e le eccellenze da noi scarsamente riconosciute devono aspettarsi i giusti tributi e riconoscimento del merito da altri contesti, non italofoni e italocentrici? A te, ad esempio, com’è andata (se non ti è troppo gravoso ricostruirlo)?
La storia è molto semplice. Mi sono laureato a Napoli con un professore, Giancarlo Mazzacurati, sotto la cui guida ho continuato a lavorare anche negli anni del dottorato, che ho svolto a Pisa, mentre lui era ancora a Napoli (a Pisa si sarebbe trasferito dopo la fine del mio dottorato). Mazzacurati era un grande maestro, ispiratore di entusiasmi letterari ed energie intellettuali, basta vedere la scuola che ha prodotto, senza marchi, con enorme varietà di esiti, da Roberto Esposito a Clotilde Bertoni, passando per Matteo Palumbo, Arturo Mazzarella e Valeria Giannetti: un maestro che era molto poco protettore, però, tanto più per chi, più giovane, ha dovuto fare i conti con la sua scomparsa. Mazzacurati è morto nel 1995, a soli 59 anni, e chi aveva lavorato con lui è diventato accademicamente orfano, soprattutto se aveva solo trent’anni, età a cui, com’è noto, nell’Università si è giovanissimi: nell’Università italiana, si sa, non c’è spazio per i cani sciolti, perché contano solo l’appartenenza e la genealogia. Non ai cani, ma ai lupi era dedicato fra l’altro, se ricordo bene, il primo libro del già nominato Trevi, Istruzioni per l’uso del lupo (ma Trevi avrebbe poi scritto anche I cani del nulla), che segnava il suo distacco da un’università-esamificio, erudita, boriosa e noiosa. La metafora canina è probabilmente la più adatta a esprimere la cultura universitaria del nostro tempo, con le sue logiche del branco e le sue passioni per i guinzagli. La descrizione più bella di questo mondo, fatto di persone che si parlano all’orecchio, che si muovono strisciando nei corridoi e che si risentono per qualsiasi riferimento alla loro attività culturale, l’ha fatta oltre cent’anni fa Benedetto Croce nel suo libro su Il caso Gentile e la disonestà nella vita universitaria italiana; ma questo libro, stranamente, non è mai stato ristampato, nonostante la furia di riedizioni e commenti crociani. Eppure non molto mi sembra cambiato da allora, senza nulla togliere al valore intellettuale e pedagogico dei tantissimi che in quell’affresco giustamente non si possono riconoscere: ma la questione è di metodo, naturalmente, mica di singoli individui. Metodo, appunto, che svantaggia chi non appartiene, soprattutto da quando l’Università si è radicata negli umori locali, perdendo di vista il suo stesso nome, che punta all’universalità della cultura anziché al municipalismo. Mi ricordo che proprio Mazzacurati intervenne polemicamente in uno dei suoi ultimi scritti contro l’ipotesi di vincolare ancora di più l’Università al territorio, come se familismo, nepotismo e corruzione non fossero i mali storici della gestione della cosa pubblica in Italia. E ricordava i tempi in cui un padovano, il suo professore di laurea, Giuseppe Toffanin, poteva giungere a Napoli e un siciliano, il suo professore oltre la laurea, Salvatore Battaglia, accoglierne l’eredità. Io mi sono trovato storicamente proprio nel transito tra l’Università delle idee e l’Università dei progetti, l’Università dello Stato e l’Università delle autonomie, col risultato che quello che poteva essere un vantaggio, aver studiato in due luoghi diversi per laurea e dottorato, diventava immediatamente uno svantaggio, perché non avevo percorsi e trafile interni. Ammetto tuttavia che nella mia vicenda molto ha giocato il mio pessimo carattere, intransigente e superbo, la mia indisponibilità ai compromessi e la mia convinzione di essere un genio, la prima fortunatamente in gran parte superata, la seconda drammaticamente ancora irrisolta… Immagino che tu voglia anche qualche aneddoto piccante, che è facile raccontare, ma chi non ne ha in questo piccolo mondo? Mi ricordo di un concorso per un posto di ricercatore in un’Università del Sud, con un candidato vincitore (sempre stabilito prima, non c’è neppure bisogno di dirlo) che aveva meno titoli di almeno altri due candidati destinati alla sconfitta: al momento dell’estrazione del titolo per la seconda prova (allora si svolgevano due prove, un tema di carattere generale e un commento a un testo), di fronte alla lettura del testo sorteggiato, un passo della Gerusalemme Liberata, non riuscì a trattenersi e si lasciò sfuggire, ad alta voce: “Cazzo, mi avevano detto Manzoni!”. L’Adelchi di Manzoni era effettivamente in una delle altre buste, ma qualcosa forse non aveva funzionato. Vinse lo stesso, grazie al punteggio della prova orale, col quale scavalcò gli altri due che alla valutazione dei titoli e alle prove scritte avevano avuto di più. Un’altra volta il professore che presiedeva la commissione, alla lettura del regolamento del concorso, una formalità obbligatoria a garanzia della correttezza delle procedure, ci comunicò che avrebbe fatto come gli pareva perché a garantire la validità del concorso c’era lui e bastava lui. Lo stesso professore alla prova orale mi chiese: “Lo sa che non si va ai concorsi che non sono fatti apposta per lei?”; ma si rabbonì subito alla mia risposta: “Lo so, ma sono venuto per conoscere lei”. Pensa che la sua arroganza mi ha fatto comunque più simpatia delle trame nell’ombra di tanti altri commissari che si scambiavano favori o ubbidivano a chi li proteggeva. Suppongo però che siamo in migliaia ad avere aneddoti simili e Nicola Gardini qualche anno fa ha schiaffeggiato queste storie con la sua autofiction I baroni. Alla fine sono stato fortunato e ringrazio tutti coloro che non mi hanno fatto vincere: spinto da sconfitte mai troppo nette da portarmi verso un’altra strada, ho cominciato a candidarmi a posti all’estero, finché, al quarto o quinto tentativo, come ho detto, ce l’ho fatta. Se ce l’abbia fatta perché ero il più bravo a quel concorso oppure perché le condizioni hanno giocato in mio favore, non saprei dirlo. Del resto è possibile sempre che ci siano concorsi con concentrazione di bravi e concorsi con concentrazione di mediocri: il caso gioca la sua parte e la gioca sempre bene. L’unica cosa che mi sentirei di dire è che nell’Università inglese esiste una deontologia professionale che spesso appiattisce, ma garantisce anche che non si possa scendere mai sotto un livello di qualità standardizzata: se l’Università sia un luogo di genialità stravagante o di amministrazione quotidiana, è scelta che oggi s’impone e dovrà indirizzare le politiche future.
Quando parlavi di Croce mi è venuto in mente Andrea Inglese, si parva licet, che nel suo romanzo Parigi è un desiderio dedica delle pagine direi plastiche ai riti e alle convenzioni para-accademiche, trovando l’immagine delle «scarpe da bara» a descrivere certi habitus e condotte particolarmente conformi a standard di decoro e di rappresentanza che si presume siano graditi a un mondo che potremmo definire veteroborghese (e che, in realtà, faccio un po’ di fatica a identificare con l’università attuale, in cui dopo il pensionamento massivo dei nostri maestri, i docenti cominciano a essere tuoi coetanei o miei). Di Inglese, oltre alla sua intensa attività di poeta e traduttore a partire dal Gruppo Gammm, nei primi anni Zero, attività fondamentale per la penetrazione di alcuni autori di area franco-americana che hanno svecchiato la concezione e le pratiche della poesia recente in Italia, ricordo proprio certe sue improbabili magliette in occasioni pubbliche ufficiali (tipo premi letterari), a tacere di una parrucca bionda e riccia, durante un dibattito o convegno, diversi anni fa. Forse questa domanda riguarda più me che te, ma visto che parlavi di “brutto carattere”, pensi che valga tutt’ora (il memoir di Inglese è retrodatato a un quindicennio fa) l’equivoco per cui l’habitus, inteso in senso esteso ai comportamenti extra-professionali, sia il de cuius, l’eredità mai rifiutata di un mondo ormai desueto? A me, come ad altri che scrivono fiction, ad esempio, è stato detto più volte che questo non è ben visto dall’Università (di cui si parla, in ipostasi, sempre come di una vecchia signora bacchettona e scarsamente autoironica e non come di un contesto di cui fanno parte, alla fine, persone vive con cui condividiamo esperienze e abbiamo rapporti reali, concreti, nella nostra vita intellettuale). D’altra parte i casi che abbiamo citato, Inglese e Gardini, sono comunque casi di espatri o dispatri, come tu preferisci dire, più o meno fortunati: restando in Italia, per come la vedi da fuori, è ormai possibile e anzi atteso e gradito essere indipendenti, anticonvenzionali, magari averci pure un pessimo carattere e però, da studiosi qualificati, accedere secondo i propri meriti e titoli ai ruoli previsti dal cursus, con le t-shirt invece che con le scarpe da funerale?
L’immagine e il merito sono due discorsi molto diversi. Nel primo caso credo che i pregiudizi riguardino più in generale la società italiana, ma penso anche che passi in avanti siano stati fatti da molto tempo: costumi sessuali e scelte estetiche non dovrebbero essere più sotto scrutinio, a patto che non interferiscano con la decenza, il senso del pudore e altre menate simili, perché lo spazio pubblico è pur sempre uno spazio istituzionale, cioè proprietà collettiva, e soggetta a un sentire comune, anziché luogo dell’affermazione individuale e dell’arbitrio del singolo. Questo equilibrio tra genialità soggettiva e servizio alla collettività è probabilmente la difficoltà più grande di un’università che oggi tende a diventare uno specchio della società capitalistica, con le sue microcelebrities, da un lato, e i suoi burocrati aziendalisti, dall’altro: chi viene schiacciato è proprio chi pensa con la sua testa e non fa massa, perché le celebrities altro non sono che leader in funzione della massa dei consumatori (di cultura come di beni). La comunità degli intelligenti, necessariamente aristocratica e autoidentificata, purtroppo, è ciò che si sta perdendo, purtroppo. La questione del merito, che è legata a quella della competenza accademica, è molto più seria, perché “merito” (come “bellezza”) è concetto evanescente e soggettivo, purtroppo, ancora, il terzo in tre frasi. Io credo che si debba partire da una riconsiderazione dell’intelligenza accanto alla competenza, perché per troppo tempo, a causa di un malinteso paradigma scientista, si sono valorizzate solo le “competenze”, che sono in fondo equivalenti a quello che quando andavo a scuola si chiamava nozionismo: un insieme di dati e conoscenze senza rielaborazione critica, analisi e sintesi. Un po’ come nei dibattiti televisivi che vedono protagonisti giornalisti e politici che sciorinano dati senza la minima disponibilità (e forse capacità) a ragionarci su, a pensare alternative, a metterli in contesto e guardarli da altre prospettive. Tra discorso universitario e dibattito pubblico si è prodotta, da questo punto di vista, una sinergia che probabilmente non è casuale. Umberto Eco, il campione della memoria, citava spesso un racconto di Borges il cui protagonista ricordava tutto, ma era alla fine solo sopraffatto dalla sua memoria, senza riuscire a farne uso, perché la memoria funzionante è quella che seleziona. Oggi sembra invece che si debba sapere tutto a memoria senza nessuna capacità di ragionamento. Per quanto difficile sia apprezzare l’intelligenza in un concorso, bisognerebbe almeno ripartire dalla capacità di creare connessioni, dalla disponibilità a guardare da più punti di vista e dal continuo andirivieni tra dettaglio e sfondo. Più sei esperto di una cosa sola, più sei vincolato al tuo expertise e perciò meno indipendente.
Ed ecco perché mi sei diventato storico della lingua, dopo essere stato studioso della cultura, della tradizione letteraria, e di singoli autori come Ariosto, con non so più quante monografie, tutte uscite in sedi più che prestigiose, stando ai criteri di valutazione nostrani. Adesso “di cosa ti occupi”, come si dice nel gergo accademico? A Londra come si fa ricerca? Qualche tempo fa una giovane aspirate ricercatrice lamentava, dell’università inglese, l’eccessivo ripiegamento sulle competenze a petto di un’università come la nostra che rimane, nelle discipline umanistiche, ancorata a un sapere di base teorico, libero dai vincoli rispetto alle possibili applicazioni pratiche e dall’ossessione degli sbocchi professionali, a differenza di quanto hai appena sostenuto. Forse parliamo però di due livelli diversi: lei, di quello formativo, noi della selezione dei docenti, che è tema scottante in questa fase storica. Tu che oggi sei Professore a Londra, cosa consigli a chi come me ci prova invano, in Italia, dalla prima tornata abilitativa (2014)? Insistere, emigrare, buttare la t-shirt, restituire l’idoneità, rinunciare alla brillantezza, amputarsi il (brutto) carattere o cos’altro. Insomma, come si fa, la fine di Jossa?
Veramente questa fine non la consiglio a nessuno! Ognuno fa la sua, di fine, per fortuna. Lo sguardo da fuori, come mi piace dire, mi ha portato certamente il grande vantaggio di non dover fare i conti con certe regole accademiche che a volte sono restrittive e frustranti. Naturalmente regole simili esistono anche nell’Università inglese, che non è certo l’Eldorado. Andarsene porta comunque devastazione, la devastazione produce ferite e “piaga per allentar d’arco non sana”. Il finale salvifico del libro di Gardini, ad esempio, non lo condivido. Il vantaggio di persone come noi, compresi Gardini e Inglese da te nominato più su, è quello di avere due punti di vista che s’incrociano continuamente; ma l’assenza di appartenenza è un vantaggio solo intellettuale, perché se ne pagano le conseguenze in termini di esclusione e isolamento sul piano accademico. È un po’ come quando torno a Napoli, dove, siccome non ho accento napoletano, che in verità, chissà per quale strano caso, non ho mai avuto, vengo apostrofato col più classico dei “Parla come t’ha fatto mammeta”, che è il più radicale marchio d’estraneità che si possa ricevere lì. Insomma, parlare un po’ al di sopra, o al di sotto, della linea mediana determina problemi, certo. Pasolini chiedeva alla lingua dello scrittore di muoversi su e giù, sempre al di sopra o al di sotto della linea mediana, in un tempo in cui Calvino lavorava per il raggiungimento di una presunta oggettività da trasfomare in perfetta traducibilità. È di questo che mi sono occupato nell’ultimo libro, dove non pretendo affatto di fare lo storico della lingua o il linguista, che non sono, ma di ragionare sulla lingua come esperienza, che tutti facciamo, indipendentemente, appunto dalle competenze: esperienza intesa come pratica della lingua, che non si può ridurre all’erudizione storica, alle istruzioni per l’uso o alle battute per farsi una risata. Proprio perciò, secondo me, parlare di lingua vorrà dire sempre parlare di letteratura, che è dove la lingua trova la sua espressione più creativa e formalizzata. Ma anche parlare di letteratura vorrà dire sempre parlare di lingua, perché è la lingua il materiale con cui lavora chi si occupa di letteratura, sia scrittore o critico o editore o redattore. M’interessava perciò far stridere la lingua con i suoi usi più sperimentali, come in certe deformazioni poetiche (le parolacce di Belli o le citazioni di Battiato), con le sue strumentalizzazioni ideologiche, come nei discorsi dei politici (dai dibattiti in tivù sul dialetto napoletano agli errori di grammatica dei nostri governanti), o con le sue banalizzazioni quotidiane ai confini dell’umorismo, come negli slogan da stadio (come quando i tifosi della fiorentina si opponevano a quelli del Como perché “noi colle femmine, voi co’ maschi”). Di consigli per gli altri, però, non ne ho, purtroppo. Ti ricordi il professore di medicina del film La meglio gioventù, che esorta lo studente ad andare all’estero per non trovarselo più di fronte e non sentirsi messo in discussione dal puro, biologico passare del tempo? “Qualsiasi cosa decida vada a studiare a Londra, a Parigi, vada in America se ha la possibilità, ma lasci questo paese. L’Italia è un paese da distruggere, un posto bello e inutile, destinato a morire.” Quando lo studente gli chiede perché lui non vada via, la risposta è disarmante: “Come perchè? Mio caro, io sono uno dei dinosauri da distruggere.” Sembra autocoscienza e invito al futuro, invece è presidio del territorio e difesa del potere: i dinosauri non vogliono estinguersi e invitano all’esilio chi può distruggerli. Ricostruire la comunità sulla base di nessi d’intelligenza anziché d’interesse? È un sogno troppo idealistico per poter essere anche solo sognato: proviamo allora ad aprire un dibattito, ridefinire la funziona dell’Università nella sua missione sociale, come diceva Ortega y Gasset in un bellissimo saggio, e ripartire dalla sua identità intellettuale, come diceva Fichte in un altro bellissimo saggio? Alla fine, forse, chi lavora in un luogo dovrebbe anche esserne capace di parlarne e rifletterci su: un po’ di meta-università, che non porti dritti alla meta, ma trasporti fuori dal campo. Si vede che vivo a Londra da quasi dieci anni: una metafora rugbystica per parlare del lavoro di ricerca e didattica. Il punto però è questo: una volta entrato nell’Università non hai risolto niente (a parte lo stipendio, che non è poco). Devi guadagnartelo ogni giorno (soprattutto dove sei minacciato tutti i giorni di licenziamento, perché il contratto non è un vitalizio) e fare i conti con la sua dimensione fagocitante (perché è un’istituzione anziché un Nobel e risponde a principi organizzativi anziché garantire la libertà assoluta). Che l’istituzione sia borghese nell’età dell’egemonia della borghesia non si discute, ma la borghesia non è solo omologazione, conformismo e opportunismo: è, per storia e tradizione, anche lavoro, onestà e impegno. Ripartiamo da qui?
[Immagine: Royal Holloway University of London].
Esuli, rubrica a cura di Gilda Policastro
Dalla mia posizione forse non invidiabile, e certamente poco comprensibile ai più, di autoesiliata da 10 anni in Bulgaria (sì, quel paese balcanico già membro dell’UE da un decennio, ma ancora invisibile agli “europei”) vorrei dire due parole sull’intervista appena letta.
Non è che ci stiamo prendendo un po’ in giro? Ovvero, non è che continuiamo a masturbarci allegramente pur di tirar giù due parole (senza cose, purtroppo)?
Da un lato, apprezzo l’ammirabile sforzo di creare un dibattito importante e interessante, dedicato a temi scottanti (i concorsi truccati, chiamiamoli con il loro nome) e dolenti (per chi ancora non ha smesso di credere nella giustizia, il che è positivo).
Dall’altro però, perdonatemi, non apprezzo: a) la continua reticenza; b) la cecità.
Sulla reticenza: è inutile fare tanti discorsi infarciti di citazioni, anglicismi, latinismi, gaddismi e andreainglesismi, se non si è in grado, alla fine, di dire il nome chi ci ha fornito il tema della bella conversazione. Gli intellettuali tutti – e non intendo solo chi lavora o vorrebbe lavorare nelle università, ma tutti coloro i quali vivono del proprio lavoro intellettuale e creano-usano-diffondono cultura, come gli insegnanti delle scuole, i traduttori, i redattori, i correttori di bozze, i registi, gli attori, i musicisti, i poeti… – hanno il dovere di essere espliciti. E sapete perché? Perché un’intervista come quella che ho appena letto, se non è seguita da un’azione concreta, se si limita solo alle parole che descrivono cose (o stati di cose), ottiene l’unico risultato di rinfocolare la rabbia o di crearne in chi non ne aveva. Mi immagino come se la riderebbe ora quel professore che ha detto “Lo sa che non si va ai concorsi che non sono fatti apposta per lei?”. Se la riderebbe tranquillo perché a lui e a tutti quelli come lui non possono fare nulla. Tutti si lamentano, ma per paura e pigrizia omettono i particolari più importanti e si limitano a far salotto.
Sul punto b), la cecità: il discorso sarebbe troppo lungo, perciò mi limito alle seguenti osservazioni (meditate a lungo, da più di un decennio, dal terzo piano di una massiccia palazzina d’epoca socialista, a Sofia). Chi ha scelto di restare in Italia o chi ha scelto di trasferirsi all’estero in paesi dell’Europa occidentale o in continenti produttori di un certo reddito procapite, non vede e non si interessa a ciò che gli è più vicino, geograficamente e culturalmente. Non lo vede forse perché è troppo occupato a non perdere di vista il proprio status sociale e culturale. Parlo in particolare dei Balcani, ma potrei ampliare il discorso a tutti i paesi di cui, dalla Slovenia in là, si evita sistematicamente di parlare. Che cosa c’entra questo con il baronato nelle università e con l’emigrazione dei cervelli? C’entra eccome. Perché è una questione di mentalità. Non piace a nessuno la corruzione negli ambienti universitari, è deprorevole. Vorremmo che fosse debellata. Stiamo prendendo delle misure concrete al riguardo (visto che, tra l’altro, i nomi non vogliamo farli)? Per aspirare a un cambiamento è necessario iniziare a vedere il mondo in un altro modo, entrare in un’ottica inclusiva, farsi più umili o, basterebbe anche, un po’ più oggettivi. Invece io vedo e sento che sotto sotto i vari intellettualoidi insoddisfatti e lamentosi non vorrebbero altro che diventare loro stessi quei baroni-dinosauri e/o esser seduti al posto dei sedicenti giornalisti Rai e imbastire loro una vera trasmissione.
Con la cultura non si mangia, disse quello. Non sono d’accordo. In Italia ci si mangia, altroché! È in Bulgaria che ci si può morir di fame, perché lo stipendio di un ricercatore universitario varia da 220 a 280 euro al mese presso l’università più prestigiosa del paese, l’università di Sofia “S. Clemente di Ohrida” (a Sofia oggi, per vivere decentemente, sarebbero necessari almeno 600 euro al mese). Ci sono Poeti, intellettuali e insegnanti che qui vivono in miseria. Perché in Italia in nessun programma culturale o di attualità non se ne parla in modo serio e approfondito? Il problema della Bulgaria (e questo è uno dei più gravi, a parer mio) può presto diventare il problema dell’Italia. Non solo per la tendenza generalizzata alla svalutazione della cultura e del ruolo dell’istruzione. Le paure oggi istigate dai gretti politici nostrani e oltreoceano hanno ottima risonanza su un popolo (uso la parola nel modo più neutrale possibile) sempre più timoroso di perdere i propri privilegi economici e CULTURALI. Pur crogiolandosi nell’ignoranza, la maggioranza della popolazione continua a glorificarsi della ricchissima italica cultura.
Cosa propongo? Ripartiamo dalla cultura, da una sua ridefinizione, dall’inclusione. Se continuate a non vedere nemmeno con la coda dell’occhio i paesi a est di Trieste, come pretendete di insegnare qualcosa alle generazioni di giovani e a quelle che devono ancora venire in un mondo sempre più aperto e caotico? Insegnatelo pure l’Ariosto (l’ho insegnato anch’io, per quanto possa sembrarvi strano, e l’ho davvero amato), ma allungate lo sguardo, fatevi curiosi e assaggiate le Ж, le Б, le Г е le Щ del cirillico: ossia l’alfabeto bulgaro, non russo! San Cirillo (Costantino), il creatore dell’alfabeto glagolitico – primo alfabeto degli slavi – da cui è in seguito nato il cirillico, è sepolto a Roma nella chiesa di S. Clemente. Io ricomincerei da un’Europa grande, unita e paritaria a cui solo la cultura, quella di tutti, può dare nuova vita, nuovi valori, nuove idee.
Alessandra Bertuccelli, ricercatrice di letteratura italiana presso l’università di Sofia, ancora per due settimane, e traduttrice dal bulgaro.
Nelle prossime puntate sarebbe bello leggere anche dell’esperienza del ricercatore italiano all’estero (qui evocata solo nell’ultima domanda) e non solo delle turpitudini dell’università italiana (che purtroppo conosciamo già).
“ Giovedì 4 marzo 2004 – Ripenso a Tabucchi, ma soprattutto a quelli che lo prendono in giro. Tanto per fare gli spiritosi, diciamolo, tanto per scrivere qualcosa anche loro, per una specie di rabbia, di invidia, di malevolenza puerile – cioè, per dirla in due parole, perché fanno i giornalisti. Io, invece, che pure sono anche io di quelli che vogliono scrivere, stamani scrivo che l’esilio, cioè l’andare via da dove si stava, cioè il non stare dove si vorrebbe stare, cioè lo stare lontani invece che vicini, a ciò che si conosce, a ciò che si ama, anche se lo si ama in una maniera strana, perché altrimenti, forse, non avremmo mai deciso di abbandonarlo, ammesso poi che l’abbiamo deciso, perché, forse, è soltanto successo, e ancora non sappiamo come e perché, l’esilio – non posso che chiamarlo così, anche se, dopotutto, mi sembra una parola un po’ troppo grossa, solenne, melodrammatica – è una cosa dolorosa, triste, e, soprattutto, strana. Il mio esilio, ad esempio. Quando è cominciato, esattamente? Non è facile rispondere, perché può anche succedere che si cominci ad andare via senza accorgersene, distratti da una strana euforia, coinvolti in una specie di libertà. Dico così perché, in realtà, che si tratti, invece che di una vera felicità, dell’inizio di una lunga disgrazia, l’abbiamo saputo subito – non ci siamo piaciuti fin dall’inizio, dico dell’« avventura », non ci sono piaciuti i baldanzosi gesti, la faccia accesa, l’esagerata vitalità di quel personaggio che è sorto in noi all’improvviso, facendoci improvvisamente diversi, repentinamente felici, come se avessimo vinto qualcosa, come se fosse cominciato qualcosa di troppo nuovo per essere vero, come se tutto quello che eravamo stati, di colpo dovesse solo sparire, essere dimenticato, cacciato alle spalle, in un passato senza residui. Perché, ecco, abbiamo avuto qualche dubbio, fin dall’inizio, su questo strano inizio: abbiamo sempre saputo che, qualunque cosa fosse, era, innanzitutto, una fine. Cioè una morte. Anzi, l’inizio di una morte. La morte: non è facile averci a che fare, non è facile viverla. Perché, come l’esilio, è soprattutto una cosa strana. Non si sa mai, esattamente, perché si muore – così come non si sa mai perché si va via. Poi, dopo – andati, morti -, si continua a pensarci. Abbiamo ancora del tempo per farlo, quasi tutta la vita, prima di non poterlo fare davvero più. (C’è poi da dire anche che Tabucchi, più che un esule, è un toscano, più che un vecchio, è un Vecchiano) “.
“… a fronte di tutti i nostri sforzi per ottenere che la coincidenza del punto di partenza e del punto d’arrivo sia anche la ripetizione della nostra antica vita, a fronte dello scacco di ogni ringiovanimento e del miraggio di qualsiasi forma d’innocenza, disperando dei miracoli, l’uomo si mette a cantare.”
Vladimir Jankélévitch, L’irréversible et la nostalgie, Flammarion, Paris. 1974. p. 375
Cari commentatori, credo che la parola spetti all’ospite, ma approfitto di questi primi spunti per una precisazione sulla rubrica che con questo pezzo inauguro. Un’idea embrionale di Esuli si intravedeva già in un pezzo della vecchia serie del sito, nella mia conversazione con Fabio Rocchi (disponibile qui: http://www.leparoleelecose.it/?p=29817), passato dall’essere dottorando in Italianistica presso l’Università di Siena alla ristorazione in Albania. Il trait d’union tra i due pezzi non è solo la condizione di espatrio (più o meno volontario) dei due intervistati, ma l’occasione del ”ritrovamento” casuale (televisivo, in entrambi i casi) di persone conosciute nel mio percorso di studi, a varie altezze. Donde la deroga al ”lei” obbligatorio nel genere intervista, oltre alla lunghezza inconsueta delle domande (non propriamente interviste, dunque, ma dialoghi, cioè incontri e scambi). Si tratta, per così dire, di Vite parallele o Vite che sono la mia (titolo di altra mia passata rubrica su altro sito): esperienze affini o comunque vissute con lo stesso spirito, più battagliero, nel caso di Rocchi, più riflessivo, nel caso di Jossa (anche in ragione del pur minimo scarto generazionale). Ma sarò felice di allargare lo sguardo ad altri contesti e realtà e questa serie me ne darà senz’altro modo: avevo già in cantiere una conversazione con un ricercatore in Bosnia (è abbastanza a (sud)est di Trieste, Alessandra?), ma mi stanno arrivando molti messaggi tra cui quello di un professore associato a Pechino, desideroso di condividere la sua esperienza. Perciò, il discorso è appena cominciato, non pensavo certo di esaurirlo con uno o due pezzi. Quale discorso, però? Il mio, il nostro (so di poter parlare anche per Jossa, in questo caso, perché ne abbiamo discusso a lungo, a latere) non è un j’accuse: il sito non ci pare la sede adatta per ”fare i nomi” o celebrare ”processi”, e non sempre si chiama viltà la sottrazione alla pratica dello scandalismo o della vendetta a mezzo stampa. Non è questo, ribadisco, lo spirito che ci anima. Condivido con Stefano e con altri il desiderio di raccontare esperienze comuni, se non analoghe o sovrapponibili, e di ricavare da questo confronto aperto a tutti un’idea diversa, alternativa a quella del ”successo” neoliberista (perdonatemi la ”fusarata”). Siamo qui per confrontarci con serenità e non per parlare dei ”concorsi truccati”: anche perché personalmente resto convinta che le tare siano nel sistema e non nel singolo caso, ragion per cui lo stigma sul ”nome” risulta non solo inutile ma proprio fuorviante, se si vuole alzare lo sguardo dall’ombelico e dal rasoterra. Resto comunque disponibile allo scambio, alle sollecitazioni e ai rilievi, nel rispetto dei modi e dei toni che il sito richiede a tutti, redattori e commentatori. Grazie.
Cara Gilda, cari commentatori e cari lettori, non vorrei esser stata fraintesa. L’intento del discorso mi è ben chiaro – con il mio commento non intendevo tacciare di viltà nessuno, né tantomeno snaturare questo spazio di condivisione. Sono d’accordo sulla necessità di scambiare opinioni ed esperienze, anzi, sono felicissima che questa rubrica finalmente esista. Sono la prima a detestare pettegolezzi, scandali e via dicendo. Per me però fare i nomi non è questione di gossip. La chiamerei responsabilità civile. Se in Italia, ed è la verità per nulla rassicurante, è il sistema ad essere malato e non il singolo, ci devono esseri dei motivi. Uno di essi, se mi permettete, è proprio la diffusissima attitudine del singolo cittadino a lasciar correre. Ma non è questa la sede per mettere sotto processo cittadini e istituzioni. Scusate, mi ero lasciata prendere dalla rabbia, invece di godermi l’intervista. Aspetto con ansia la prossima (va bene anche solo a est di Trieste). Grazie.
Alessandra, il suo commento è già una seconda, o terza, puntata della rubrica! Grazie per le osservazioni, sia quelle critiche sia quelle propositive: a proposito delle prime mi limito a dire che secondo me le denunce vanno fatte alla magistratura piuttosto che sui blog. L’obiettivo non era l’ennesima giaculatoria contro i mali dell’università italiana, della quale non ho mai fatto parte, quindi non mi permetterei mai, ma, come ha già spiegato Gilda, una riflessione più estesa e distesa sulle sue funzioni e i suoi obiettivi, guardando al futuro anziché al passato. A partire da un’esperienza personale come la mia, perché, primo, a Gilda, bontà sua, è sembrata interessante, forse paradigmatica delle vicende di una generazione, dei suoi fallimenti e dei suoi successi, delle sue ignavie e dei suoi compromessi, delle sue sfide e dei suoi accomodamenti; secondo, questo lo dico io, perché è abbastanza borderline da non determinare un facile pro o contro. C’interessava, a entrambi credo, aprire una discussione più larga su selezione, merito, metodo, definizioni, obiettivi, ecc., che sono poi ciò di cui parla lei nella seconda parte. Il tutto raccontando un’esperienza, perché così ci piace, perché siamo stufi di proclami manifesti e appelli, perché al centro dei discorsi ci siano le persone anziché i vari anvur, ref, pof, tav, tari e tasi. Mi sembra che lei abbia raccolto benissimo la sfida.
Ai tempi della Cool Britannia, Jossa si sarebbe entusiasmato ma gia’ dieci anni fa si capiva che avrebbe infine vinto la Little England, visto che il multiculturalismo era solo di facciata e che tantissime citta’ erano gia’ divise in ghetti etnicamente omogenei ed oggi oramai impenetrabili, come altrove in Occidente oggi stanno avanzando populismi e nazionalismi. Jossa, Le e’ arrivata la letterina del settled status? Piu’ in generale, quanto sa di sale lo pane altrui?
Dopo venticinque anni di USA, rispondo alla domanda de Il Fu GiusCo: si beve tanta acqua e ci si fa l’abitudine. Se poi si diventa cittadini regolari del paese ospitante, ci vuole ancora più acqua.
Leggo con ritardo, ma ho apprezzato il titolo della rubrica e l’impostazione dialogica divagante. Certo, da “esule”, espatriato, o quel che volete voi, mi sembra chiaro che uno degli elementi chiave in questa faccenda sia il mancato o avvenuto riscatto dell’esule. L’espatrio, come ricorda Jossa, ha sempre un costo, anche quando è “privilegiato”, sia dal punto di vista delle condizioni di partenza (capitale familiare, economico e cultural) sia dal punto delle condizioni di arrivo (una professione prestigiosa, simbolicamente e/o economicamente). E quindi implica un contenzioso aperto con il proprio paese d’origine. Ma questo è uno solo degli aspetti, cosi come i guasti del sistema universitario italiano sono solo una delle occasioni e motivazioni di dispatrio. Altri sono i temi interessanti, il primo dei quali è il rapporto che questo esercito di esuli ha nei confronti della propria cultura d’origine, sapendo che, nella sola Europa, gli esuli sono ormai numericamente rilevanti: greci che vivono in Germania, tedeschi che vivono in Spagna, rumeni che vivono in Francia, Italiani che vivono in Polonia, e cosi via. Questa condizione generale credo che sia abbastanza inedita storicamente, e mi chiedo che cosa possa sedimentare.
Cio’ rende, sia detto en passant, un po’ anacronistiche le notazioni del Giusco, a cui uno potrebbe sempre rispondere: quanto sa di merda il pane di casa sua? Ripeto: nonostante i costi “biografici” che l’espatrio implica – esilio mi sembra davvero parola spropositata e troppo solenne per molte delle esperienze che conosco -, come potrebbero raccogliersi i vantaggi di chi gode di una visuale duplice, a cavallo tra due culture? Questa visuale, infatti, a me sembra davvero un privilegio, anche se spesso “virtuale”…
In ogni caso invito Gilda Policastro a perseverare diabolicamente…
> quanto sa di merda il pane di casa sua?
ciao, avendo io stesso fatto cinque anni da expat, mi pare che il
> come potrebbero raccogliersi i vantaggi di chi gode di una visuale duplice, a cavallo tra le due culture?
dipenda molto da che intendi per vantaggi: se lo sono il firmare petizioni per Battisti credendolo innocente perseguitato da uno Stato carogna o fare gli anti-nuclearisti da nazioni che si approvvigionano fra il 30% ed il 70% di nucleare, forse la visuale duplice e’ in effetti un inforcare gli occhiali al contrario?
Diciamo allora che l’expat di questo inizio nuovo secolo vive probabilmente una forzata ma non forzosa sospensione identitaria che ne fa spesso un ottimo letterato o professionista o ecc. ecc. ma altrettanto spesso un poco lucido attivista.