di Alberta Basaglia
[Il libro di cui presentiamo alcuni estratti è uscito per Feltrinelli un paio di mesi fa, ed è stato scritto, assieme a Giulietta Raccanelli, da Alberta, figlia di Franca e Franco Basaglia, per provare a raccontare la vicenda epocale di cui è stata protagonista la sua famiglia, e per spiegare la chiusura dei manicomi soprattutto a chi all’epoca della “Legge 180”, nel 1978, non era ancora nato. Per costruire familiarità con delle esistenze totalmente identificatesi nella scelta – politica, culturale ed esistenziale – di restituire una possibilità di vita ai “matti”, l’autrice narra ventotto situazioni autobiografiche usando una trama fiabesca, comprensibile anche da dei bambini; in più, rappresentandosi come strana lei stessa, cioè raccontando come una lesione agli occhi l’abbia portata, fin da piccola, a protendersi sul mondo vedendolo di sghembo, Basaglia reinventa anche dall’interno della narrazione uno sguardo dinamico sulla malattia come esperienza “vivente”. Ringraziamo l’editore per il consenso alla pubblicazione (dbr)].
3. Gorizia
Gorizia era come Berlino. Il muro la attraversava, mi pare fosse rosso, una staccionata di metallo che tagliava in due la piazza Transalpina e divedeva anche il parco dell’ospedale psichiatrico dove era andato a lavorare papà. Franco risultava troppo ingombrante per la sua clinica universitaria di Padova; il suo era un lavoro di studioso che intrecciava in modo sacrilego la filosofia alla psichiatria. Più che gli inventori della scienza psichiatrica gli interessavano i filosofi della scuola di Francoforte. Più che la malattia gli interessava il malato. Fu così che l’Università riesce a sbarazzarsi di lui esiliandolo in Friuli e Gorizia acquista in blocco tutta la nostra famiglia. La periferia e la stazione ferroviaria che si affacciava sulla piazza erano Jugoslavia, il resto era l’Italia. La gente andava e veniva, aveva il lasciapassare da residente, ma siccome il muro aveva un sacco di buchi, ci si poteva passare anche attraverso. “Il contadin che vien dalla Bosnia” era di casa a Gorizia. Arrivava da Nova Goriça, dove la stella rossa e la scritta “Mi gradimo socijalizam” (Noi costruiamo il socialismo) sono rimaste sulla facciata della stazione fino al 1991.
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10. Lettera 22
Un giorno capita che sulla libreria-scrivania della mamma, la sua Olivetti carta da zucchero abbia un foglio scritto quasi per intero che spunta fuori dal rullo gommoso, essenziale appoggio per l’arrivo sulla carta dei martelletti mossi dalle dita sulla tastiera. Il carrello è a fine corsa, sul limite ultimo del margine destro del foglio. Indizio che mi segnala la fine della riga e chissà, forse anche del paragrafo. Sono lì a guardare fuori dalla finestra e mi siedo alla postazione della mamma. A destra noto una risma di carta formato A4 già fittamente occupata da paragrafi rigonfi di cancellature e di note a penna, tra una riga e l’altra. Mi dico che forse può valere la pena dare un’occhiata a uno dei risultati su carta di tutto quel pestare di tasti che aveva tanta parte nella nostra colonna sonora familiare. Inforco la lente di ingrandimento che mi accompagna sempre. Era diventata da un po’ la mia indispensabile alleata nella lettura. Becco un foglio che sta in solitudine a sinistra della macchina da scrivere. Inizio la mia lettura sghemba:
“In Italia c’è gente che non ha accettato il fatto che in un ospedale di cura si potessero distruggere, annientare e mortificare i malati, fingendo di curarli. E ha cominciato a lavorare, ma soprattutto a lavorare diversamente, cercando, per prima cosa, di eliminare ogni traccia di violenza: contenzioni, camicie di forza, reti, grate, sbarre, cancelli, chiavi, tutto ciò che chiudeva, imprigionava, segregava, fu gradualmente eliminato.
Incominciò agli inizi degli anni Sessanta in una piccola città di provincia: Gorizia, in un manicomio di 650 malati. L’ospedale costruito nei primi anni del ‘900, aveva padiglioni sparsi in un parco grande, pieno di alberi e fiori. Ma ai malati servivano poco perché quando li portavano in giardino, li legavano a un tronco d’albero o a una panchina.
Il gruppo dei medici che incominciò il lavoro, si trovò di fronte al problema di ridare dignità al malato, qualunque fosse la sua malattia, attraverso la graduale conquista della libertà di cui era stato privato, ma anche della responsabilità perduta al momento dell’internamento; e, insieme, attraverso la ricostruzione di una vita ospedaliera che fosse accettabile o perlomeno sopportabile. Ma si trovò di fronte anche al problema di ridare dignità alla propria professione e a quella dell’infermiere che, limitatesi fino ad allora alla custodia del malato, avevano un’altra responsabilità, la cura. I reparti, gradualmente aperti, furono arredati utilizzando in parte quello che già c’era, ma tentando di creare un ambiente gradevole e familiare”
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15. West End
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Al mattino uscivo dal grande edificio in mattoni rossi, incrociavo i ricchi signori in kippah che lì erano di casa, giravo a sinistra, imboccavo la settantacinquesima, raggiungevo Riverside Drive che si srotolava lungo l’Hudson tra gli alberi e i prati del parco lungo il fiume. […]
Una volta in classe, già lo sapevo, avrei trovato la buon’anima di turno che con pragmatismo tutto americano mi avrebbe detto: “Ma se non vedi, perché non metti gli occhiali?”. Lo avrei verificato anche in seguito, visto che mi sarei sciroppata tante altre volte questa stessa scena; con diversi interlocutori e in altri momenti di vita: la voce sempre con un tono impercettibilmente irritato, tipico di chi non sa rassegnarsi al fatto che, volente o nolente, io non rientrassi in una norma riconoscibile: ero quella che vedeva, ma senza occhiali e senza vedere. Un controsenso. La sottile aggressività che ho sempre sentito nell’aria mentre mi si propinavano questi rimbrotti mascherati da un sentimento di empatia, era quella di chi non è disposto a capire come può succedere una cosa simile. Come può una ragazzina (o donna, a seconda dei momenti) arrangiarsi a prescindere e trovare un modo suo, personale, per convivere con un accidente del genere. Ho sempre colto un certo disagio di fronte al mio limite. Eppure la diversità basta accettarla. Anche quando è talmente tangibile che non si può far finta che non esista, come nel caso dei matti. Basta solo riconoscere il diverso da te e non farti fagocitare dall’ansia che costringe a incasellare tutti e tutto in regole e categorie precise che pretendono di dare un ordine tranquillizzante al mondo. Visto i genitori che mi erano capitati, questa faccenda dell’accettazione del limite era cresciuta con me. […]
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20. Il telefono di notte
Capitava anche che il telefono di notte squillasse. “Chi sarà scampà?” si chiedevano i grandi: essere liberi dalle catene non significava ancora poter decidere di uscire senza essere accompagnati. A volte però non era per recuperare un matto scappato, era per abbattere qualche muro, qualche rete. Così al mattino in manicomio c’era una nuova breccia che di giorno non si sarebbe potuta aprire. Il dramma della fuga e la clandestinità delle picconate non arrivavano mai a noi piccoli. C’era piuttosto l’idea di una avventura notturna in corso. Un po’ la stessa avventura di quella notte sui tetti di Venezia nel ’44: Franco che scappava dai fascisti e finiva in galera. Un Franco che ha sempre rifiutato la retorica del partigiano, ma che non ha mai smesso di esserlo, pur non parlandone. Tornava sull’argomento solo per spiegare della sua prima entrata in manicomio: era stato come ritrovarsi negli odori e nei rumori del carcere che aveva conosciuto allora. Se si trattava di dover scovare i fuggitivi, si muovevano tutti e in genere sapevano dove cercare. Li pescavano in qualche bar, o in un angolo di cortile, a contemplare quella libertà ritrovata che dovevano ancora capire del tutto.
Non serve dare un senso a faccende che molte volte spiegazioni non hanno. E nessuno dei grandi ha mai ritenuto fosse giusto “spiegare”, semplicemente bastava vivere. Anche l’ansia che a volte si percepiva. Era nello stato delle cose. Noi bambini non ne siamo mai stati tagliati fuori, perché non esistevano cose da grandi e cose da piccoli. Eravamo tutti solo persone. Al massimo potevamo rappresentare dentro di noi, a nostro modo, realtà adulte. Per fare un esempio, prendiamo La passione secondo Matteo di Bach che il personale della Clinica Neurologica di Padova aveva regalato a papà per il trasferimento a Gorizia: ero convinta che fosse cantato e suonato dai medici e dagli infermieri del reparto, un’orchestra perfetta. Avevo ovviamente preso un bel granchio, ma quelle note le sentivo e le apprezzavo comunque. La realtà è la stessa per tutti, e non importa se la vivi a modo tuo o se fraintendi qualcosa, lei ti spetta comunque di diritto. Grande o piccolo che tu sia. Nessuno ci ha mai lasciato “di là” perché “non erano cose da bambini”. In quell’ultimo luminoso piano del palazzo della Provincia, le porte non si chiudevano, le parole ci raggiungevano sempre, da una stanza all’altra, insieme all’odore del fumo di sigaretta, al ticchettio della macchina da scrivere e agli squilli del telefono. I loro discorsi erano anche i nostri. Queste diverse presenze erano il mio quotidiano. Questa è stata per me la rivoluzione più normale del mondo.
[Immagine: Foto di Alberta Basaglia © Fondazione Franca e Franco Basaglia (dbr)].
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