cropped-CqMCH8jXYAAQXeH.jpgdi Gianluigi Rossini

Venerdì scorso aspettavo con impazienza il momento in cui avrei potuto finalmente buttarmi in un furioso binge della nuova stagione di Black Mirror, appena approdata su Netflix. Se ciò getta una luce tetra sulla mia vita sociale, non è ancora nulla rispetto alla crisi isterica che mi stava assalendo quando Netflix ha inspiegabilmente smesso di funzionare per diverse ore, a metà del terzo episodio. Mentre telefonavo al servizio clienti e contemporaneamente cercavo notizie sulle pagine social, ho trovato irraggiungibili anche Twitter, il sito del Guardian e altri. Poco dopo ho scoperto che un massiccio attacco informatico aveva buttato giù un bel pezzo di rete sulla costa orientale degli Stati Uniti, causando rallentamenti e crash fino a casa mia. L’attacco aveva avuto successo sfruttando gli elettrodomestici smart, quelli connessi alla rete, usandoli come bot malevoli. Su whatsapp, la voce incorporea di un’amica mi ha detto: «Sei in un episodio di Black Mirror, ti stiamo monitorando». Non poteva saperlo, ma nell’episodio lasciato a metà c’erano dei misteriosi “loro” che mandavano ordini via whatsapp. O forse lo sapeva benissimo?

Black Mirror, per chi non lo sapesse, è una serie TV britannica a tema più o meno fantascientifico, la cui terza stagione è uscita venerdì 21 su Netflix. Le precedenti due, più uno speciale natalizio, sono andate in onda in Gran Bretagna su Channel 4, tra il 2011 e il 2014. Si tratta di una serie antologica: ogni episodio si svolge in un mondo narrativo diverso dai precedenti con nuovi attori, personaggi e ambientazioni. Il tema unificante è una sorta di tecno-paranoia basata sul «cosa accadrebbe se»: società futuribili nelle quali nuove tecnologie, o versioni estremizzate di tecnologie esistenti, hanno cambiato profondamente la società, per lo più trasformandola in un posto da incubo. L’episodio «The Entire History of You» è forse quello che illustra meglio il concetto: in un futuro non troppo lontano è possibile impiantarsi una capsula in grado di registrare i ricordi e trasmetterli tanto sulla retina del proprietario quanto a un visore esterno. Gli amici non ti chiedono più di raccontare quella cosa che è successa, ma di fargliela vedere. Le fantasie sessuali possono essere mandate in play a piacimento, ognuno la propria, durante il rapporto. A partire da questa premessa entriamo in un mondo che non è più il nostro, ma che potrebbe esserlo ben presto. «Tales from your future», come recita lo slogan della nuova stagione.

https://www.youtube.com/watch?v=RRNYmFrfbCg

«Sembra un episodio di Black Mirror» è il «kafkiano» del nostro tempo: al di là delle supposte profezie avverate, pochi altri testi contemporanei hanno la capacità di catturare in maniera così efficace lo stato ansiogeno che deriva da uno sdoppiamento molto comune: le nuove tecnologie o, più in generale, l’ipermediazione delle nostre società fa sì che viviamo in simbiosi con dispositivi che fino a pochi anni fa non esistevano nemmeno. La loro irruzione nelle nostre viste è stata repentina, incontrollabile, apparentemente irreversibile, e nessuno ha idea di come tutto ciò ci stia cambiando. Le storie di Black Mirror sono grottesche e impossibili, ma non sappiamo fino a quando continueranno a essere tali. Uno dei punti di forza di Black Mirror, però, è che raramente sconfina nel moralismo antitecnologico: lo spirito della serie è innanzitutto satirico. Gli episodi hanno di solito un bersaglio ben preciso: l’ossessione scandalistica dei media, i talent show, il riversarsi delle nostre vite sui social. Più che fantascienza, potrebbe essere definita come satira futurologica.

Anche se viene spesso inserita nel calderone della recente età dell’oro seriale, Black Mirror andrebbe più propriamente ascritta a una tradizione televisiva molto britannica, fatta di bassa serializzazione (sette episodi in tre anni, numeri ridicoli rispetto agli standard statunitensi), commento sociale, forte autorialità. La televisione inglese vanta una lunga schiera di «TV dramatists», autori con un profilo più vicino a quello dell’artista che al professionismo degli showrunner americani. L’abbondanza di artisti e la scarsità di professionisti si è rivelato, storicamente, uno degli svantaggi della fiction televisiva europea rispetto a quella statunitense, ma è anche all’origine di stagioni gloriose: alla metà degli anni ’60, quando negli USA Dr. Kildare (NBC, 1961-66) sembrava già un grande passo avanti rispetto all’alluvione di cowboys appena defluita, in Inghilterra divampavano polemiche intorno a un articolo di Troy Kennedy Martin dal titolo Nats Go Home, che teorizzava il superamento della rappresentazione naturalistica nel drama televisivo, richiamandosi a Brecht. Sulla base di queste idee, Ken Loach e Tony Garnett inaugurarono nel 1964 l’età dell’oro del single play britannico, lavorando all’interno dell’antologia The Wensday Play (poi Play for Today) che ha sfornato vette come «Cathy Come Home», e dalla quale sono emerse personalità come Dennis Potter o Stephen Poliakoff. D’altra parte, se l’accostamento tra Black Mirror e l’americana The Twlight Zone (CBS, 1959-1964) è immediato, è anche vero che la distopia fantascientifica ha trovato in Gran Bretagna un terreno molto più fertile che negli Stati Uniti: basti pensare che uno dei primi grandi teledrammi della BBC fu The Quatermass Experiment (1953), sceneggiato dal vivo in sei episodi, con missioni spaziali e alieni mutanti che invadono la Terra.

Il TV dramatist di Black Mirror è Charlie Brooker, ideatore e sceneggiatore di quasi tutti gli episodi. Assieme a lui la produttrice Annabel Jones, con cui Brooker fa coppia fissa da molto tempo: «quando siamo nella fase in cui inventiamo le storie», ha detto, «se io rido come un matto e Annabel piange, quello è il momento in cui diciamo ‘ecco una storia in stile Black Mirror!’». Brooker è un satiro impenitente: negli anni ’90 scriveva su Pc Zone, dove oltre a recensire videogiochi teneva una rubrica di corrispondenza con i lettori in cui insultava chiunque scrivesse. Disegnava anche fumetti, e una sua striscia che prendeva di mira Tomb Rider causò enormi polemiche: rappresentava un parco divertimenti in cui i bambini potevano sfogare gli istinti violenti sugli animali, mutilandoli con seghe elettriche e forconi. Per dieci anni, dal 2000 al 2010, ha tenuto una rubrica di televisione sul Guardian, dove una volta ha scritto di voler uccidere a martellate un concorrente del Grande fratello. L’ultimo articolo della rubrica mostra bene la sua posizione di polemista satirico e poco intellettuale, ma anche la sua autocoscienza: «Non sono ma stati un vero critico […]. I veri critici sono acuti, più che offensivi; intelligenti, più che impertinenti, riflessivi, più che estroversi. Io, invece, ero interessato soprattutto a far ridere il lettore. E il modo più veloce di farlo era scrivere insulti». Tra i motivi per chiudere la rubrica c’era il fatto che lui stesso, ormai, era un personaggio televisivo, conduttore della serie Screenwipe (e poi Newswipe). Si trovava così a incontrare spesso i bersagli delle sue invettive, nella loro forma umana e tridimensionale.

Brooker non ha mai abbandonato la comedy: una delle sue recenti creazioni è A Touch of Cloth (Sky1, 2012-14), in cui il demenziale di Una pallottola spuntata viene innestato nel format cupo dei procedurali contemporanei.

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Dead Set (E4, 2008), geniale miniserie in cui un’epidemia zombie irrompe nella casa del grande fratello, è forse il momento in cui si più si equivalgono le due componenti dello stile di Brooker, la comicità volgarmente infantile e l’immaginario apocalittico.

https://www.youtube.com/watch?v=HQjq639WPiU

In questa luce diventa forse più chiaro lo spirito impertinente di «The National Anthem», il primo episodio di Black Mirror: un misterioso ricattatore ha rapito la principessa Susannah, amato membro della famiglia reale, e minaccia di ucciderla se il Primo Ministro non accetterà di avere un rapporto sessuale con un maiale, in diretta TV. Da una premessa così ridicola, l’episodio acquista un enorme impatto emotivo: da un lato ci rende complici, perché sappiamo che anche noi avremmo tenuto la televisione accesa, contrariamente all’accorato invito fatto dal presentatore dell’orrendo evento. Dall’altro, se all’inizio il racconto sembra favorire un certo disprezzo populista verso la figura del Primo Ministro, alla fine dell’episodio la sua figura emotivamente e umanamente devastata rende evidente il peso di ogni piccolo, misero voyeurismo individuale.

E dunque, a quasi due anni di distanza dall’ultima volta, com’è la nuova stagione? È terrificante, è un incubo, è ansia pura, è bellissima. Com’è normale per un’antologia, non tutti gli episodi sono allo stesso livello e almeno uno, «Man Against Fire», scade in un’allegoria troppo nitida che rovina la pur interessante premessa. È successo altre volte, secondo me con «Fifteen Million Merits», ad esempio. Ma il livello medio è molto alto: la catabasi social di «Nosedive» forse è il momento migliore, ma «Shut Up and Dance» è un upgrade riuscitissimo della corsa a perdifiato di «White Bear», «Playtest» è genuinamente spaventoso, «Hated in the Nation» è un procedurale che miracolosamente riprende e forse estende i concetti di «The National Anthem». «San Junipero», per fortuna, è un necessario momento di respiro in mezzo a questa devastazione. Quale sia il miglior episodio di Black Mirror è la tipica domanda sulla cui accapigliarsi a cena con gli amici: Brooker ha detto che si potrebbe provare a fare un profilo psicologico delle persone sulla base del loro episodio preferito. Dunque non mi dilungherò sulle mie preferenze, anche perché sarebbe difficile evitare gli spoiler.

Va rilevato invece che il passaggio da Channel 4 a Netflix ha complessivamente giovato. Netflix mette a segno un esperimento di successo, con il quale dimostra ulteriormente la lungimiranza, forza economica e potere culturale. Fino a «White Christmas», lo speciale natalizio del 2014 con John Hamm, in pochi negli USA avevano sentito parlare di Black Mirror, tanto che la serie era stata trasmessa solo da un canale della piattaforma DirectTV, senza mai raggiungere ascolti considerevoli. Allo scadere dei diritti, Netflix ha aggiunto al suo catalogo le stagioni passate e ne ha commissionata una nuova imponendo la serie all’attenzione del pubblico statunitense, per una volta secondo rispetto a quello europeo.

Brooker e Jones si sono sicuramente sforzati di dare un carattere più internazionale alle storie, il che implica anche una certa americanizzazione: la società ipersorridente e falsamente entusiasta di «Nosedive», con i suoi colori pastello, ha molto poco di British. Il «bro dude» protagonista di «Playtest» è quasi una caricatura, e anche i soldati–arma di «Man Against Fire» sono un tema tipicamente statunitense. Ma la maggiore libertà produttiva si fa sentire: i budget più elevati hanno permesso di sfornare sei episodi invece di tre, e il respiro generale è sicuramente più ampio. Non dover inserire la serie in un palinsesto significa che gli episodi possono gestire il tempo (si va dall’ora scarsa ai 90 minuti) e gli archi narrativi senza riguardi per i tempi televisivi, scanditi dalle interruzioni pubblicitarie.

Il nucleo terrificante di Black Mirror è sempre lì, più vivo che mai. Sul perché sia così spaventoso si potrebbero scrivere intere monografie, ma credo che alla base ci sia la capacità di rivelare qualcosa di profondo nella nostra miseria quotidiana, incastrata in un perfetto equilibrio tra paranoia tecnologica e realismo psicologico. La cosa mi è stata tanto più chiara la sera di venerdì quando, nell’attesa che Netflix tornasse a funzionare, ho visto un episodio di Westworld (HBO, 2016-), altra serie fantascientifica molto quotata al momento, su un parco divertimenti a tema western popolato da robot intelligenti, probabilmente in procinto di ribellarsi ai loro creatori. Da studioso dovrei evitare un simile paragone: al di là del fatto che Westworld è solo al terzo episodio, non è del tutto corretto accomunare prodotti con obiettivi molto eterogenei (una serie antologica e uno sci-fi mistery serializzato), che andrebbero valutati secondo parametri estetici differenti.

Eppure è difficile resistere: l’irritante, velleitaria epica di Westworld, che a conti fatti è solo malriuscita grandiosità melodrammatica, contrasta in maniera troppo evidente con la terrificante naturalezza dei mondi possibili di Black Mirror. Negli episodi migliori di quest’ultima non ci sono gli ambigui manovratori che popolano tanta immaginazione distopica, non c’è da nessuna parte un grande progetto che ha pervertito il mondo: il cambiamento è arrivato in automatico, passo passo, quando non è già qui e ora. Il vero centro del racconto non è la tecnologia ma la natura umana, capace di adattarsi all’incubo poco alla volta, fino a non vederlo più. È questo, credo, che spaventa più ogni altra cosa.

[Immagine: Black Mirror, la terza stagione (gm)].

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