di Andrea Cortellessa
[Esce oggi per Electa la nuova edizione di La vita dei dettagli di Antonella Anedda, con un’appendice dell’autrice e una postfazione di Andrea Cortellessa. Proponiamo un intervento di Cortellessa, uscito in una versione più breve sul «Sole 24 Ore», su questa pubblicazione].
È ancora fresca la ferita del Sacco di Roma, quando nel 1528 i francesi occupano Bergamo. L’episodio lo racconta Cosimo Ridolfi: nella chiesa di San Michele un soldato fra i tanti – ma dai desideri, si vede, meno banali degli altri – «s’invaghisce» di uno dei capolavori lasciati in città da Lorenzo Lotto, Le nozze mistiche di Santa Caterina; anzi, di un suo dettaglio. Oggi infatti il quadro è mutilo della parte in cui si vedeva, in lontananza, il monte Sinai. Come in un’ossessione di Thomas Bernhard quel soldato senza nome non aveva resistito, e aveva tagliato quei sessanta centimetri di tela per poi ficcarseli nella bisaccia. Ipotizza Daniel Arasse, nel suo opus magnum sul Dettaglio (1992), che l’episodio sia inventato di sana pianta, per testimoniare l’origine già cinquecentesca del genere-paesaggio (prima della sua piena autonomia, conquistata solo nel secolo successivo); ma se non è vero, è ben trovato. E infatti lo ha riportato di recente Marco Belpoliti, in Nord Nord, per illustrare il fascino rapinoso, è il caso di dire, del pittore marchigiano. Ma prima di lui lo cita Antonella Anedda nella Vita dei dettagli: dicendo di capirlo bene, quel soldato.
Più in generale, infatti, l’episodio ben definisce il cortocircuito di concentrazione, rapimento e desiderio persino violento che può scatenare quella «preghiera naturale dell’anima» che per Walter Benjamin è l’«attenzione». La strategia compositiva del piccolo, mirabile libro uscito nel 2009 da Donzelli, e ora riproposto da Electa, prevede appunto una serie di “ritagli” da immagini più o meno celebri del repertorio dell’arte (dai ritratti di Fayum a Bill Viola, passando per Giotto e Mantegna) «usando lo sguardo come coltello»: commentandoli cioè con prosimetri brevi e allusivi, a loro volta come estratti da una conversazione sempre interrotta, un mormorio endofasico e dolente. Lo straniamento così ottenuto, «una nuova consapevolezza dell’alterità misteriosa del mondo», restituisce quasi un senso di minaccia (la suspense di Hopper!). Come quello che inventò Giuliano Briganti per Roberto Longhi, e che Anedda tante volte praticò nella sua favolosa giovinezza di storica dell’arte, è sì un gioco (la premessa s’intitola Istruzioni per l’uso; le «attribuzioni», Soluzioni), ma quanto mai serio: ogni prosa all’altra rinvia sogni, ossessioni, coazioni a ripetere.
Per questo sono in numero di trentadue: come le Goldberg di Bach, variazioni su un medesimo tema. Lo sono anche i capitoli seguenti, nei quali a saggi su singole figure d’artista (straordinario quello su Mark Rothko) si alternano pagine di diario in Valchiusa sulle orme di Petrarca, Char e Jaccottet (ma anche Sereni, e Zbigniew Herbert, e Cosimo Ortesta) da una parte, e di quelle di Van Gogh (ma anche Ansel Adams e Cesare Di Liborio) dall’altra. E poi la sezione più nuova, «Collezionare perdite», che tanto ha salato il sangue ai poeti più giovani. Qui Anedda non si limita a ritagliare immagini date, ma ne compone di nuove – come già Anne Carson – fotografando le proprie stesse mani d’artefice e dipingendo collage post-surrealisti, mescolando frammenti di pagine antiche a quelli di libri a venire (come l’iconotesto poetico Salva con nome, di tre anni successivo), e seminascosto facendo il nome di un ispiratore a sorpresa, Joyce (suo l’esergo del libro), con la sua «ineluttabilità del visibile». In appendice, la trouvaille di un avantesto che anni prima, in un’inchiesta sul collezionismo promossa da Elio Grazioli, prefigurava il know how del libro: in questi, che definisce i suoi «fossili», già Anedda definiva questa pratica – à la Elizabeth Bishop, ma anche Sophie Calle – «décollectionner»: rovesciando così il desiderio di appropriazione, di quel vecchio soldato, in quella che chiama «passione di spossessamento».
Ed è questa, mi pare all’ennesima rilettura, la chiave più intima di questo capolavoro, se ce n’è uno, del primo quarto del nuovo secolo. Non solo si trova qui la chiave dell’io “espanso” che, nella poesia successiva di Anedda, per incanto risolve in «Cori» lo scisma novecentesco fra lirica e antilirica; nessun testo meglio di questo, pure, ha saputo rinnovare quello che della poesia, da Orfeo in avanti, è il tema per eccellenza: appunto la perdita dell’oggetto d’amore. Collezionarne le tracce parziali, allinearne i feticci, riconoscerne i fantasmi, elabora il lutto più lancinante e insieme, pur tremando, si riguadagna una porzione di vita possibile. Nascosto in piena luce, lo dice il titolo del libro: come da Petrarca in poi sempre è stato, la morte dell’amato si rovescia nella vita del testo. Pietosamente, crudelmente, ineluttabilmente.
Antonella Anedda, La vita dei dettagli, postfazione di Andrea Cortellessa, Electa, 2025, pagg. 199 ill. col., € 28
Il 25 maggio è stato consegnato ad Antonella Anedda il Premio Pagliarani alla carriera. Anche in questa decima edizione il premio consiste nell’opera di un artista del nostro tempo, stavolta un Amuleto della piacentina Claudia Losi. I settant’anni dell’autrice, il prossimo dicembre, saranno festeggiati anche dall’edizione francese della Vita dei dettagli e da quella brasiliana di Notti di pace occidentale. La nuova edizione del libro di Anedda è anche uno dei due «pesci d’oro» (l’altro è il saggio di Michele Dantini, Bernard Berenson e l’arte contemporanea. Storia, critica, editoria, pagg. 176 ill. col., € 28) occasionati dall’ottantesimo compleanno di Electa (cui proprio Berenson diede un impulso decisivo) coniugando il format dei «Pesci rossi» con uno dei capitoli più preziosi dell’editoria moderna, i piccoli «All’insegna del pesce d’oro» ideati nel 1936 da Giovanni Scheiwiller, poi dedicati da suo figlio Vanni ai più giudiziosi accoppiamenti che siano stati concepiti, nel Novecento, tra poesia e arte.