di Natascia Tosel

 

Il tono di voce con cui l’hostess mi fa notare che il documento che le sto porgendo ha tutta l’aria di una tessera di iscrizione ad un cineforum locale e che in ogni caso non è valido come documento per l’espatrio è fin troppo indulgente nei confronti della mia goffa disattenzione. Nel tentativo di riparare con la massima rapidità al mio errore, apro il portafoglio e ne estraggo un pot-pourri di tessere e documenti – il badge dell’università in cui lavoro, la tessera di iscrizione al CAI (Club Alpino Italiano), quella di socia Arci e di altri circoli culturali della zona, il documento di iscrizione a una società sportiva dilettantistica, la tessera del cineforum dell’anno precedente che avrei dovuto buttare mesi fa. Tra questi compare, finalmente, anche la mia carta d’identità. La esibisco all’hostess con l’accompagnamento di doverose scuse, mentre con l’altra mano tengo stretto quello strano ensemble di tessere che, lo so bene, non sono valide come documento d’identità. Eppure, mi chiedo, davvero il documento d’identificazione rilasciatomi dallo Stato italiano esaurisce e monopolizza la mia identità – giuridica e sociale? Questa non è in fondo delineata con maggior nitidezza (anche) da quel pot-pourri di tessere che raccontano i gruppi, le associazioni, gli ambienti che frequento e le esperienze a cui partecipo? Il pilota del mio volo annuncia il probabile passaggio dell’aeromobile attraverso una serie di turbolenze causate dal maltempo e questo mi catapulta in una realtà materialissima (ho paura di volare) in cui la mia domanda rimane inevasa.

 

Tuttavia, con mia somma sorpresa, quella domanda ricompare – ad altezze speculative decisamente più elevate di quanto il disordine di tessere contenute nel mio portafoglio potesse consentire di raggiungere – quando mi ritrovo tra le mani, pochi giorni dopo, l’ultimo libro pubblicato dal filosofo politico Mirko Alagna, dall’avvincente titolo A duello! Pluralismo (giuridico) e conflitto in Max Weber (Quodlibet, 2024). “Con mia somma sorpresa”, dicevo, perché chiunque abbia una benché minima familiarità, sia pure su manuali da liceo, con il pensiero di Max Weber – a cui le riflessioni di Alagna sono dedicate – lo ricorderà per la sua celeberrima definizione dello Stato come quell’ente che, all’interno di un determinato territorio, rivendica con successo il monopolio dell’uso legittimo della forza fisica. Uno Stato, insomma, che sembra inteso da Weber come figura monolitica e compatta, esito ultimo di un processo di razionalizzazione di cui è espressione anche il diritto formale, su cui lo Stato esercita completa egemonia. Per farla breve, una lettura consolidata dell’opera weberiana tende a equiparare la sopraricordata definizione di Stato con l’immagine di un Leviatano in buone condizioni di salute, unico garante e produttore di un ordinamento che possa dirsi giuridico (e, dunque, unico capace di riconoscermi come soggetto giuridico e di rilasciarmi un documento che lo attesti: la mia carta d’identità).

 

Eppure, la lettura che Alagna propone di Weber – focalizzandosi in particolare sugli scritti L’economia e gli ordinamenti e Le condizioni evolutive del diritto (quest’ultimo storicamente noto come Sociologia del diritto) – complica e non di poco l’assunto. Mi costringe, infatti, a pensare altrimenti non tanto la risposta alla mia domanda, quanto la domanda stessa. Weber, infatti, guardando al palcoscenico del diritto, vede sì, secondo Alagna, uno Stato-Leviatano, che però – aggiunge – ha “i piedi di argilla” (p. 63).  Questo significa, innanzitutto, che lo Stato non si erge su un terreno stabile e ben cementato, bensì su un suolo sconnesso o – come scrive Alagna – “grumoso”. Detto altrimenti, lo Stato non è solo e ben piantato sul palcoscenico del diritto; certo ne è innegabilmente il protagonista, ma non – qui la differenza è decisiva – il monologhista. Altri attori si affacciano e si alternano (sempre storicamente) su quel palcoscenico che, nello sociologia del diritto weberiana, finisce per risultare piuttosto affollato. Unioni, associazioni, gruppi sportivi, società scientifiche, sette, club, sindacati, chiese: una congerie di attori, tutti potenzialmente in grado di affiancare lo Stato sul palcoscenico, ossia di produrre ordinamenti giuridici o – per essere ancora più tranchant – di creare diritto.

 

“Potenzialmente”, dice Weber, perché il diritto non deve sciogliersi come neve al sole del sociale, non deve, cioè, essere confuso con qualsiasi espressione di regolarità che esercita una pressione normativa sul sociale, come potrebbero essere le abitudini o i costumi. Diritto si dà solo quando vi è un “apparato coattivo”, ossia un gruppo di qualunque tipo o natura che si dedica a imporre l’ordinamento mediante dei mezzi coercitivi (che possono essere sia fisici che psichici). Tale definizione può forse sorprendere in prima battuta, se si pensa a un’associazione sportiva o culturale, ma quelle tessere nel mio portafoglio – a ben guardare – non sono proprio il segno tangibile della presenza di un tale apparato coercitivo? Non indicano forse che la mia appartenenza volontaria a quelle associazioni è soggetta al rispetto di determinate regole e codici di condotta (l’ordinamento del gruppo), pena la mia esclusione dal gruppo stesso?

 

Se ogni gruppo, per giuridificarsi, deve dotarsi di un apparato coattivo, che permetta di delimitare, distinguere, differenziare e selezionare chi ne fa parte e anche espungerne chi ne trasgredisce l’ordinamento, allora lo Stato, pur egemone dei mezzi coercitivi fisici, difficilmente potrà credere alla sua auto-narrazione leviatanica. Non solo non ha il monopolio del diritto, ma quando usa quest’ultimo lo fa spesso per organizzare, comporre, stabilizzare le pressioni che premono da vari punti del campo sociale, e non solo per comandare. È proprio di fronte al sociale “grumoso”, che si concreta in una pluralità di ordinamenti giuridici, che lo Stato mostra i suoi piedi di argilla: la grumosità del terreno su cui si innalza lo obbliga a cercare continuamente l’equilibrio per reggersi in piedi. Ciò significa, per lo Stato, relazionarsi ad una pluralità di unioni e istituzioni, i cui ordinamenti possono entrare in relazioni eterogenee con quello statale: conflitti, tensioni, composizioni, armonie, battaglie, accordi, alleanze, tra diverse agenzie giuridiche affollano questo scenario. A riprova della sua non onnipotenza, anche qualora lo Stato tenti di strappare alle associazioni la loro forza di regolazione e di impadronirsi dei loro mezzi coattivi, non è detto che vi riesca. Alagna lo dimostra chiaramente, a partire dalla scelta del titolo del suo testo: il duello, infatti, è l’esempio con cui Weber allude alla possibilità che lo Stato non solo non riesca ad ostacolare un’associazione che prescrive forme di condotta da esso esplicitamente vietate, bensì che una tale associazione, proprio in forza della capacità di trazione del suo ordinamento, riesca a penetrare all’interno dello Stato (è il caso dell’ordinamento cavalleresco, il cui codice, i cui mezzi e persino alcuni suoi apparati, come la corte d’onore, sono sopravvissuti all’interno dello Stato, ad esempio nell’esercito e nelle corporazioni studentesche).

 

Che cosa hanno a che fare, dunque, questa ontologia “grumosa” del sociale e questo pluralismo di ordinamenti giuridici descritti da Weber, con la mia banalissima distrazione in aeroporto e il mio interrogarmi su che cosa costituisce la mia identità giuridica? A mio avviso, la relazione è perlomeno duplice e non coincide in ogni caso con una risposta, perché – quel che più salta agli occhi – è che la mia domanda era particolarmente malposta. Il testo di Alagna ne favorisce semmai una duplice riarticolazione, che – questa sì – acquista un rilievo per comprendere la molteplicità dei mondi normativi e giuridici che abitiamo e le modalità sempre plurali con cui li attraversiamo quotidianamente.

 

Da un lato, ciò che dirime non è che cosa mi definisce giuridicamente, ma piuttosto: che cosa mi dà accesso al palcoscenico del diritto? Dalle analisi di A duello! emerge una risposta tutt’altro che monocromatica. Certo non è solo il rapporto di un individuo con lo Stato (leggi: la mia carta d’identità), né solo la sua appartenenza a unioni e istituzioni di varia natura (leggi: le tessere presenti alla rinfusa nel mio portafoglio), né infine la semplice somma delle due cose. È piuttosto il rapporto che ogni “tessera” intrattiene, da un lato, con lo Stato (ossia la relazione che ciascun ordinamento giuridico ha con quello statale, che – come detto – può essere di armonia, di confitto, di sovversione, di assimilazione) e, dall’altro, con la pluralità degli altri ordinamenti. Ciò significa che per descrivere il palcoscenico del diritto, e comprendere come vi abbiamo accesso, dobbiamo essere disposti ad una teoreticamente onerosa operazione di mappatura dei pezzi di mondo che ciascuna associazione ritaglia attraverso il suo giuridificarsi (ossia gli ambienti, le persone, le regole che seleziona e delimita come proprie) e guardare in che rapporto sta con altri pezzi di mondo sagomati da altri gruppi e associazioni: si toccano, si intersecano, si compongono, oppure non si incontrano affatto, o addirittura confliggono? È a quest’altezza che si giocano i posti che ciascuna e ciascuno di noi occupa sul palcoscenico del diritto: non ci troviamo là sopra – come avrà modo di dire Weber guardando alla democrazia americana – come “un mucchio di sabbia di individui tra loro sconnessi”, ma come “un intrico di sette, unioni, club altamente esclusivi, sorti tuttavia in modo assolutamente libero, nei quali e attorni ai quali si muove la vita sociale vera e propria dell’individuo” (p. 69). In altre parole, il palcoscenico non è solo affollato, ma anche intricatissimo e particolarmente mobile; soprattutto, non è un posto per individui atomizzati e sconnessi.

 

In secondo luogo, si diceva, la mia iniziale e malposta domanda può trovare – attraverso la sociologia del diritto weberiana ricostruita da Alagna – una seconda, fertile riarticolazione: non solo come abbiamo accesso al palcoscenico del diritto, ma anche che tipo di performances si possono dare su un tale palcoscenico? Se non stiamo sul palco in quanto individui atomizzati, bensì come consociati, che ruoli vi possiamo interpretare? Come scrive Alagna: “Il focus non può essere il ‘soggetto’ del diritto, ma l’uso che ogni ‘soggetto’ decide di farne” (p. 40). Anche in questo caso, la risposta che emerge è plurale: il diritto si offre non solo ad una pluralità di attori, ma anche ad una pluralità di usi che vanno dall’essere strumento di imposizione esterna, a tecnica di auto-organizzazione dei gruppi, ad arma di lotta fino a metodo di composizione e stabilizzazione. Tecnici, impositori, compositori, giudici, tessitori, disturbatori: vi è spazio per una varietà di ruoli “giuridici”.

 

Tuttavia, vi è un monito che emerge dal libro di Alagna e che – a me pare – risuona in maniera preponderante con l’attualità che viviamo. Vi è spazio per una pluralità di ruoli, con due eccezioni: non ci sono né angeli né demoni sul palcoscenico del diritto perché, semplicemente, non vi è posto per maschere monocromatiche. L’assoluto monopolio dello Stato sul blasone del diritto è contraddetto dai suoi piedi d’argilla che lo costringono a ricercare continuamente l’equilibrio; così il “demone” sovrano fa uso del diritto non solo per comandare, obbligare e punire, ma anche per mediare, alleare, incorporare, differenziare. D’altra parte, l’uso del diritto da parte di attori non statuali, come le unioni e i gruppi, non deve essere facilmente assunto come sinonimo di creazione di uno spazio di libertà. Spesso, vi sono gruppi in cui il controllo orizzontale tra pari è più severo e l’uso di strumenti coercitivi più inflessibile di quanto operato dallo Stato: anche le unioni esercitano forme di esclusione, espulsione, distinzione – spesso violente per chi le subisce, perché coincidono con la perdita di un pezzo di mondo. Pertanto, a priori, non si possono identificare né angeli né demoni sul palcoscenico del diritto, ma una pluralità di ordinamenti che co-esistono, ora incontrandosi, ora scontrandosi e contrapponendosi, ora tollerandosi o addirittura alleandosi: il diritto si pluralizza in ognuna di queste attività.

 

Quello che il testo di Alagna, via Weber, ci invita a fare, però, è non cadere in una fin troppo semplice polarizzazione: ascrivere ai pezzi di mondo (ordinamenti normativi e giuridici) che abitiamo qualità agiografiche, e di contro demonizzare quelli che non incontrano il nostro favore ed evitiamo o vorremo evitare (incluso lo Stato). Piuttosto, si tratterebbe di ricordarci sempre – in quanto consociati – che il pericolo più grande non viene dall’incontrarsi/scontrarsi sul palcoscenico del diritto, ma dal disertare quello stesso palcoscenico. Fuor di metafora, significa – come Alagna scrive brillantemente nelle ultime pagine del libro – non lasciarci atomizzare socialmente come individui, ma continuare a fare e disfare gruppi, unioni ed associazioni che siano portatrici di diritto e – va da sé – di aspirazioni politiche che pretendano di essere risolte all’altezza dello Stato, così da evitare di lasciare a quest’ultimo il monopolio della “politicità”. Insomma, il monito è chiaro e, mi sembra, particolarmente urgente: non lasciare che lo Stato diventi quello che ha sempre sperato di essere, un Leviatano d’acciaio. Lo si può fare solo mantenendo il terreno su cui si erge sufficientemente sconnesso, grumoso, plurale e perciò stesso dissestato, da costringerlo a equilibri sempre precari, anche qualora gli venisse la tentazione – tutt’altro che irrealistica oggi – di indossare delle scarpe pesanti e dalle suole rigide.

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