di Gabriele Pedullà

[Esce oggi in libreria Lame (Einaudi), primo romanzo di Gabriele Pedullà, che nel 2009 aveva pubblicato, sempre da Einaudi, la raccolta di racconti Lo Spagnolo senza sforzo.
Lame racconta la storia di due “ragazzi di mezza età”, Ruggiero e Olimpia, e del loro incontro con una compagnia di pattinatori dilettanti che ogni fine settimana si dà appuntamento al Pincio di Roma (la “Chiesa”). I due brani che seguono, collocati in chiusura dei capitoli cinque e sette, affrontano uno dei temi del libro: il rapporto tra proliferazione delle immagini, memoria e nostalgia del presente].

Sul principio generale, però, si trovavano entrambi d’accordissimo con Bess: se la Chiesa voleva continuare a crescere, gli scatti di Olimpia erano essenziali. Anche sul lavoro, d’altronde, il capo glielo ripeteva sempre: – Se non lo fotografi, non è successo –. Difficile dargli torto su una cosa come questa. Ma non era da lui che Olimpia e Ruggiero avevano appreso quella che entrambi consideravano una verità triviale. Semplicemente, non c’era nulla che avessero da apprendere in proposito. Lo sapevano da sempre, loro e i loro coetanei (se non lo fotografi, non è successo: certo), ma allo stesso tempo avevano la sicurezza di non averlo mai saputo con tanta precisione come da quando tutti i telefonini erano venduti con una macchina fotografica incorporata e, insomma, non era più come quando, a quindici anni, Olimpia aveva iniziato a fare i primi esperimenti con le focali lunghe su un vecchio ordigno della guerra fredda ancora targato DDR messole in mano da uno zio. Niente più pellicola, tanto per incominciare (niente più limiti agli scatti). E poi il fatto stesso di avere la macchina sempre a disposizione. Questo secondo aspetto era ancora più importante, se possibile. Usami, dài: usami (visto che mi hai comprato, visto che mi hai pagato e che non costa nulla). Non era semplice resistere a un richiamo del genere. E in fondo perché, poi? Come i loro amici, Ruggiero e Olimpia avevano cominciato a scattare foto col telefonino per gioco, per noia, per sfida, per emulazione: o perché tutti le dicevano che lei aveva un occhio speciale e allora tanto valeva che. In questi casi non c’era mai penuria di ottime ragioni. Uno squarcio di quella Roma bellissima, che dopo tanti anni ancora li sapeva emozionare. La vergogna dei cassonetti pieni e della spazzatura rovesciata in strada. Un autoscatto con i colleghi durante la pausa pranzo. Il soriano così tenero della vicina (ma erano solo degli esempi casuali).

Lo stesso impulso irresistibile trascinava anche Ruggiero e gli altri, che, pure, non possedevano il fiuto di Olimpia per il dettaglio insolito. Fotografavano, fotografavano sempre, fotografavano tutto, ma più che altro tutti fotografavano (era questo il punto, ormai non c’era più nessuno che non lo facesse). Interrogati in proposito, avrebbero faticato a spiegare come, soltanto qualche anno prima, c’era stato un tempo in cui la loro giornata non esigeva quelle immagini per assumere la giusta consistenza, quando il mondo era stato a fuoco senza bisogno che qualcuno lo inquadrasse prima nell’obiettivo. Ma ovviamente, per fortuna, non capitava spesso di sentirsi rivolgere domande così sciocche. Ora era diverso, semplicemente (ora era molto meglio). Caricavano e scaricavano le foto più e più volte nello stesso pomeriggio: dal cellulare al portatile, dalla scrivania del computer di lavoro alla pagina Facebook. O, come avevano imparato presto a dire, le condividevano: con una espressione non meno nuova dei loro cellulari, e che li faceva sentire sempre potenzialmente connessi a milioni di amici dispersi per il mondo (anche Ruggiero). Fatto! Le foto erano on-line. E poi ricominciavano, ma senza scordarsi di verificare prima se qualcuno aveva per caso lasciato un commento positivo (e soprattutto senza trascurare di lasciarne a loro volta sulle pagine dei loro numerosi amici, dal momento che – sapevano anche questo – l’amicizia è per prima cosa questione di reciprocità e costanza).

Così adesso, quando Olimpia e Ruggiero si apprestano a dormire, nel grande letto matrimoniale sovrastato dall’austero armadio a muro di design giapponese (il loro armadio minimalissimo, come piace dire a Ruggiero), giusto un attimo prima di spegnere la luce e di sprofondare assieme nell’ovattata tenebra domestica, non mancano mai di ripercorrere la giornata appena trascorsa, controllare che sia lì, in tutti i suoi snodi decisivi così come li hanno immortalati e li ricorderanno all’infinito (un’insalata più scenografica del solito, una vignetta satirica trovata in rete e rilanciata da un lontano conoscente, quel tramonto incredibile, i baffi marroni di lui o di lei, subito dopo una cioccolata calda), ognuno attaccato al proprio cellulare, scorrendo le foto scattate, postate e ricevute nelle ore precedenti, ma soprattutto quando la giornata è stata particolarmente anonima e priva di sorprese.

In questi momenti, all’improvviso, la comunità del Pincio torna a far sentire i suoi effetti benefici anche a diversi giorni di distanza, come un farmaco a rilascio ritardato (le cento o duecento immagini che finiscono sul sito ogni domenica: perfette per conciliare il sonno). Se lo scopo è questo, allora non serve nemmeno l’occhio di Olimpia. Ci sono. Ci siamo. È tutto a posto. Poi un silenzioso sospiro di sollievo: anche oggi. Ruggiero e Olimpia possono dormire serenamente.

Il Pincio era perfetto pure per questo.

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Nei giorni successivi Ruggiero si era dovuto opporre con tutte le sue forze per evitare che Olimpia caricasse una scansione delle foto di allora sulle cornici elettroniche che presidiavano i due lati opposti del salotto. Che idea assurda! Ma d’altra parte conosceva bene la passione di Olimpia per quei fedeli custodi della memoria digitale e il suo impegno affinché ogni frammento delle loro vite si depositasse in quei parallelepipedi simmetrici. Ne andava persino fiero: erano state il suo regalo per il loro quinto anniversario. Conosceva i gusti di Olimpia, che erano anche i suoi gusti, e nella scelta aveva prestato attenzione ai minimi dettagli. Disegno elementare, senza fronzoli. Rivestimento in legno chiaro (meno comune) in modo che la cornice non spiccasse troppo nei vuoti studiatamente procurati della stanza. Dimensioni contenute (perché ormai provavano ad appiopparti dei modelli che assomigliavano piuttosto a piccoli televisori), ma non al punto che facessero fatica a godersi le foto dal divano.

Non erano particolari trascurabili. D’altra parte, diceva Olimpia, nulla permetteva di raccontare la storia della borghesia italiana quanto le costanti trasfigurazioni delle cornici del salotto. Ne sapeva qualcosa, lei. Nella casa di campagna le cornici dei nonni: pesanti sin dal marrone scuro (noce, probabilmente: anzi senza alcun dubbio, giacché ai loro tempi in Italia ancora non si erano diffusi il nome e il concetto del tanganica), ma pesanti specialmente per quegli orribili svolazzi in massello che senza volerlo suggerivano le vampe di una fiamma inestinguibile, associando legioni di zii, prozii e cugini alle anime dei penitenti in Purgatorio. Sui mobili dell’appartamento dei genitori semplici cornici in argento o, alternativamente, dai colori acidi, verde e arancione soprattutto (queste ultime le più antiche, in plastica, coetanee delle foto con Olimpia bambina sul litorale di Sabaudia). E infine le loro cornici digitali: invisibili (quasi invisibili), concepite apposta per non dare nell’occhio e per valorizzare le immagini che alla pressione di un pulsante si sarebbero animate per loro sullo schermo. Presenti-assenti o assenti-presenti. Come concludeva sempre Olimpia in questi casi, era l’evoluzione della specie (anche se non si capiva mai se, con questa frase, alludesse alla tecnologia, alla propria famiglia o all’intera borghesia italiana).

Pure da quelle cornici dipendeva l’inconfondibile sensazione di conforto che quel salotto sapeva trasmettere a Ruggiero e Olimpia. Il passato, il meglio del loro passato, ma come bene domestico e perennemente accessibile: i due schermi simmetrici erano lì per questo. La cadenza delle immagini, poi, poteva essere regolata a piacimento, e loro avevano optato per un ritmo lento: più adatto per le sere a casa e i sabati pomeriggio di relax domestico, che, di fatto, erano gli unici momenti in cui la stanza veniva abitata per davvero e le due cornici avevano finalmente qualcuno da cullare. Amavano ricevere gli amici a casa e preparare piatti molto elaborati ai quali Ruggiero si dedicava per parecchie ore, oltre ogni ragionevolezza, e in quelle occasioni le fotografie in movimento facevano anch’esse parte dell’elaboratissima scenografia con cui accogliere gli ospiti da quando il cibo e le competizioni culinarie erano diventate l’estremo rifugio delle amicizie più logore. Prima di sedersi a tavola o al momento dei superalcolici, nel limbo del salotto, capitava non di rado che qualcuno si riconoscesse, con Olimpia, con Ruggiero, o magari tutti e due, al mare o sulla neve (ma poteva benissimo essere una trattoria del centro), come indovinavano con facilità dal modo in cui, per un istante, l’occhio dell’amico di turno sembrava accendersi di una luce più vivida all’affacciarsi inaspettato del proprio stesso volto nella superficie liquida dei due schermi simmetrici. Ma anche quando erano da soli, con la loro semplice presenza le due cornici animate assolvevano egregiamente il loro compito di portare un po’ di vita in quegli spazi deliberatamente algidi, dove erano ammessi solo colori chiari e il bianco gareggiava al massimo col beige e con il grigio cenere. Così, quando a Olimpia capitava di lavorare da casa, e si sistemava nel salotto, dopo un paio di giorni Ruggiero aveva l’impressione che, per contagio, anche la sua pelle andasse facendosi più lattea e più diafana del solito.

Lì, ma lì soltanto, nel piccolo rettangolo circoscritto dalla intelaiatura d’acero, i toni sgargianti e le tinte vivaci del turchese e del carminio erano bene accetti e risultavano anzi persino esaltati dalla retroilluminazione dello schermo rispetto alla resa su carta delle stesse foto. Erano le loro vacanze, i loro amici, i loro anniversari (nonostante da qualche tempo Ruggiero si intestardisse a fotografare pure i piatti che gli erano riusciti particolarmente bene). Le Terme di Caracalla durante la stagione all’aperto dell’Opera di Roma. Un pomeriggio di acquisti all’outlet di Castel Romano. Fratelli e genitori. E ora, sempre più spesso, i volti dei compagni di giochi conosciuti al Pincio: Bess perennemente trincerato dietro agli occhiali neri, Morgan col suo sorriso killer, Rino che emerge da un mancato scontro facendo l’occhiolino in direzione dell’obiettivo, Angie cotonata e sempre più incredibilmente anni Ottanta, di nuovo Morgan che prova una figura in compagnia di Fata Turchina, Foxy avvinta a uno dei tanti busti risorgimentali ai bordi della pista… I loro nuovi amici.

C’era decisamente qualcosa di ipnotico in quel compendio di undici anni di vita assieme. In questo anche gli effetti visivi della cornice risultavano di grande aiuto. A volte la fotografia si ingrandiva leggermente con un movimento diagonale che ne sottolineava l’intrinseco dinamismo. Altre volte, invece, lo zoom andava indietro, e l’immagine si apriva e si allargava facendo emergere una parte dello scatto inizialmente rimasta fuori quadro. Erano le soluzioni più rilassanti (piano avanti e piano indietro), e dunque le preferite da Olimpia e da Ruggiero. In altre occasioni però lasciavano che la scheda elettronica della cornice attingesse casualmente all’ampio assortimento di dissolvenze per cui era stata progettata. In questi casi le immagini erano destinate a esplodere sotto i loro occhi in una sorta di pioggia di coriandoli (l’effetto di gran lunga più sgraziato) oppure a scomparire in un vortice che le risucchiava dal centro dello schermo, avresti detto a imitazione dello scarico di un lavandino (brutto: brutto anche questo). Ma non mancavano nemmeno soluzioni deliberatamente arcaizzanti, da film muto, come lo scorrere di una tendina nera da destra a sinistra o da sinistra a destra, o il chiudersi dell’obiettivo: a stringere la foto in un ovale sempre più piccolo, un attimo prima che il riquadro si facesse nero. Quella oscurità però non durava mai a lungo. Un istante ancora (ancora una frazione di secondo), ed ecco comparire sullo schermo un’altra immagine. E poi di nuovo. E poi di nuovo ancora, con un ennesimo frammento di passato in cerca di resurrezione digitale.

Ruggiero amava le loro cornici simmetriche disposte ai due estremi della stanza almeno quanto Olimpia (non le avrebbe mai regalato qualcosa da mettere in salotto che non piacesse altrettanto a lui). Le immagini emergevano dal nero, per qualche secondo sembravano animarsi davanti ai loro occhi (lo zoom avanti o indietro) e subito sprofondavano nel buio artificiale per fare posto a quella successiva. Sfuggenti anche quando credevi di averle finalmente catturate; imprendibili anche quando ti sembravano a portata di mano. Per questo, davanti alle loro cornici, il lutto di una nuova perdita finiva per sovrapporsi inevitabilmente al piacere del ritrovamento e della riconquista. Andavano, venivano. E, per ogni immagine che si dissolveva, Ruggiero e Olimpia provavano all’unisono qualcosa come una fitta impercettibile alla bocca dello stomaco (ma dicevano bocca dello stomaco tanto per dire, dal momento che sarebbe stato impossibile collocare con esattezza l’azione di quella lama sottile che a ogni nuovo distacco tornava a trapassarli, dolcemente). Soprattutto, non c’erano mai drammi in questi addii: quello che stavano perdendo, quello che avevano perduto, sarebbe ritornato nel giro di tre ore al massimo. Nel chiuso del salotto, infatti, niente era irreversibile. Con dodici foto al minuto, e settecentoventi in un’ora, prima di cena l’intero ciclo sarebbe giunto a compimento: compresa l’immagine che si era inabissata qualche secondo prima. Sarebbe riapparsa. Eccola che riappariva. Ne potevano essere sicuri. E, forti di una simile certezza, era particolarmente irresistibile aspettarla per il resto del pomeriggio.

Coccolati dalle tinte chiare del salotto Ruggiero e Olimpia riescono anche a immaginare più facilmente la grande famiglia patriarcale che un giorno formeranno assieme. Non è complicato. Con l’aiuto delle forme minimaliste e dei colori chiari, nella luce che si riflette sul vetro della cornice ancora spenta riconoscono senza sforzo i lineamenti dei figli e dei nipoti che prima o poi verranno a portare una ventata di disordine in questo santuario del candore e del silenzio. Basta concentrarsi un poco. Allora possono cogliere persino con qualche precisione l’immagine di Olimpia con la pancia inverosimilmente gonfia, i braccialetti azzurri ai polsi dei gemelli, la festa dei cinque anni con i palloncini colorati, lo zoo (la gabbia con le tigri e la città delle scimmie, soprattutto), il fine settimana a Eurodisney e le inesorabili vacanze al mare, la terza figlia con le ginocchia sempre sbucciate, comunione cresima maturità patente laurea (per tutti e tre), le feste di matrimonio, sobrie ed eleganti come sanno essere Ruggiero e Olimpia, i primi nipotini, già incredibilmente numerosi e destinati a moltiplicarsi ancora.

In simili momenti, davanti ai riflessi della lampada di design finlandese che prendono vita nella cornice spenta, Ruggiero e Olimpia non hanno nemmeno più paura di invecchiare.

[Immagine: Feng Li, ISU Grand Prix Of Figure Skating 2012 ]

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