di Stefano Carrai
[E’ appena uscito per le Edizioni della Normale di Pisa L’autografo di ‘A mia moglie’ e altri studi di filologia e critica sabianadi Stefano Carrai. Presentiamo un estratto dell’introduzione].
Il primo saggio del libro illustra l’importanza di un finora ignoto autografo di A mia moglie, poesia considerata fino ad una certa altezza di tempo quasi emblematica della poetica sabiana. L’apparato allestito da Giordano Castellani per la sua esemplare edizione critica del primo Canzoniere di Saba non registra – in merito a questa poesia – varianti che risalgano più indietro della prima pubblicazione del testo, originariamente accolto entro la silloge Poesie uscita con la data 1911 (ma in realtà alla fine del 1910). L’evoluzione successiva dei versi si può seguire, nel lavoro di Castellani, da quella prima redazione a stampa verso l’autografo del Canzoniere trascritto da Saba nel 1919 e subito costellato di correzioni, ora alla Biblioteca Civica Attilio Hortis di Trieste (RP Ms. 1-18), e poi fino alla versione ritoccata per l’antologia Poeti d’oggi di Papini e Pancrazi, apparsa da Vallecchi nel 1920, per giungere da ultimo all’approdo, appunto, del Canzoniere stampato nel 1921 a Trieste con il marchio della Libreria Antica e Moderna. La storia successiva del componimento si può desumere invece dall’edizione critica del Canzoniere definitivo procurata da Giuseppe Bonura. Lo stadio aurorale e instaurativo del testo era rimasto ignoto e irreperibile al prezioso lavoro di Castellani perché l’autografo che lo testimonia era uscito dall’archivio sabiano, come ora possiamo verificare, all’inizio del 1966. La figlia del poeta, Linuccia, lo aveva donato infatti all’amica Anita Pittoni, benemerita dell’editoria sabiana, per la collezione di cimeli di letteratura triestina che ella aveva cominciato a raccogliere fin dal 1963 come dotazione del centro studi intitolato alla memoria di Giani Stuparich, di cui era stata a lungo la compagna. La Biblioteca Nazionale Centrale di Roma lo ha acquisito qualche anno fa attraverso la libreria antiquaria triestina Drogheria 28 di Simone Volpato. Si tratta di quattro fogli di carta da computisteria scritti solo sul recto e si constata facilmente che un quinto foglio è andato perduto per il fatto che mancano i quattro versi finali del componimento. I fogli sono peraltro accompagnati da una lettera dattiloscritta di Linuccia Saba alla Pittoni stessa, da Roma, datata 22 gennaio 1966, che è del massimo interesse in quanto parla del retroscena di quel testo.
Rispetto a quanto dichiarato dal poeta in Storia e cronistoria del Canzoniere, vengono confermate l’impazienza dell’autore e la sua pretesa di leggere immediatamente la poesia alla moglie appena tornata a casa dal suo giro di spese in città; e viene confermato il disappunto di lei al sentirsi paragonare a degli animali domestici, originato in parte probabilmente da un larvato disagio che cominciava a insinuarsi in lei per la non facile relazione matrimoniale con quell’uomo certo tutt’altro che convenzionale. Egli intendeva evidentemente tessere un alto elogio di lei e delle donne in generale, più istintive e dunque meno costruite – nell’idea di Saba più genuine – nei loro comportamenti, ma si capisce che affermarlo attraverso quel tipo di similitudini creasse piuttosto sconcerto che compiacimento.
Ciò che delle affermazioni di Saba non viene confermato invece nelle parole di Linuccia, anzi risulta smentito, è quella relativa alla composizione come in trance di un testo nato già perfetto, che non avrebbe avuto «mai bisogno di ritocchi o varianti». Si trattava evidentemente di una mistificazione del poeta perché Linuccia nella lettera alla Pittoni ci informa invece che alle rimostranze di Lina questi intervenne eccome, ovvero «si mise subito al lavoro e cambiò molti versi», salvo rifiutarsi poi – di fronte alla persistente insoddisfazione della moglie – di protrarre ulteriormente la riscrittura e troncare ogni discussione con la perentoria sentenza: «I doni dei poeti non si rifiutano!». In pieno accordo con queste informazioni ricavabili dalla lettera di Linuccia, l’esame del ritrovato autografo rivela in effetti un lavoro variantistico di notevole entità e di grande interesse.
Ben due strofe, la seconda e la terza, erano nate in maniera assai diversa da come le conosciamo e Saba, dopo averle cassate completamente, le riscrisse di sana pianta sul margine sinistro del foglio, evidentemente nell’intento di ovviare al disappunto della moglie. Dopo il paragone iniziale con la pollastra – che per il poeta aveva valori reconditi, ma che per Lina non poteva suonare lusinghiero – nella versione pubblicata a stampa si ha quello con la giovenca, tuttavia ora veniamo a sapere che inizialmente essa era una meno letteraria vitella.
Più importante ancora il rifacimento della terza strofa testimoniato dall’autografo, dal momento che essa si applica all’immagine ispiratrice dell’intera poesia, per ammissione dell’autore stesso nel brano di Storia e cronistoria, cioè alla vicinanza della cagna distesa al suolo che appoggia il muso sulle ginocchia del poeta in segno di dedizione e affetto, e dunque al paragone con la moglie generatore del meccanismo testuale. La versione primigenia mostra che la coppia di sentimenti individuati dal poeta nello sguardo della cagna era inizialmente dolcezza e ardire, non dolcezza e ferocia, come risulta invece dalla variante sostitutiva, scritta sul margine sinistro dell’autografo e passata poi nella versione a stampa. Notevole inoltre è che qui sia scomparso il paragone originario del cuore, del corpo flessibile e degli occhi della cagna con i corrispettivi di Lina, mentre il sentimento connotativo di entrambe, la gelosia, scivola dal centro al finale della strofa con conseguente ingresso a metà, e dunque in particolare rilievo, del motivo della dedizione dell’animale verso la padrona.
L’altra strofa di cui l’autografo ci fa conoscere la versione primigenia è la quinta e penultima, dedicata al paragone con la rondine. Della originaria sequenza di sedici versi che risulta dall’autografo, all’altezza della stampa di Poesie Saba avrebbe espunto, considerandoli evidentemente ripetitivi e prolissi, gli otto centrali dove si insisteva sulla fedeltà di Lina di contro alla migrazione della rondine, lasciando solo i primi quattro e gli ultimi quattro, ovvero dimezzando la lunghezza del brano con il risultato di renderlo non solo più conciso, ma soprattutto più rapido nel focalizzare l’attenzione del lettore sull’effetto palingenetico dell’ingresso di Lina nella vita del poeta.
Nonostante queste macrovarianti, bisogna dire che l’autografo non ha nulla del primissimo getto, sembra anzi una prima copia in pulito, anche se trasformata subito, a seguito delle rimostranze di Lina, in esemplare di lavoro. Le medesime macrovarianti del resto nulla mutano dell’andamento sacrale – marcato dal procedimento anaforico ed evidenziato anche sul piano grafico dall’inchiostro rosso con cui sono scritti tutti i pronomi Tu ad inizio di strofa – in sintonia con quanto Saba stesso scriveva di A mia moglie in Storia e cronistoria del Canzoniere e cioè che ricorda «una poesia “religiosa”».
Gli altri saggi del libro analizzano in successione: il diverso atteggiamento di Svevo e di Saba verso la psicoanalisi, l’uno favorevole fino a rasentare il fanatismo, l’altro avverso al punto di porla sotto la lente sarcastica del racconto nella Coscienza di Zeno; il riferimento alla poesia dantesca da parte di Saba e di altri poeti dell’irredentismo triestino; il rapporto fra la poesia di Saba e quella di Giotti in margine al Piccolo canzoniere in dialetto triestino di quest’ultimo; lo snodo fondamentale costituito per lo sviluppo della poetica di Saba dall’anno 1917, fra esperienze di retrovia e varia sperimentazione in poesia; la breve storia redazionale della riscrittura da parte del vecchio Saba di una poesia giovanile di Leopardi sull’uccellino fuggito di gabbia; e il rapporto fra Saba e il suo maggior critico, Giacomo Debenedetti, seguito passo dopo passo nel suo evolversi nel corso del tempo.