di Adelelmo Ruggieri

 

Già in Formazione del bianco, il suo secondo libro del 2007, Stelvio Di Spigno si affida alla pagina piena di parole per fare il bianco, perché una rinascita sia possibile (Stefano Dal Bianco), ma la rinascita di cui sta scrivendo Di Spigno non è, primariamente, di ordine personale – Di Spigno a quella data ha trentadue anni –, bensì di ordine poetico, in lui formativo e centrale. È per questo che la parola rappresa della prima raccolta, dall’emblematico titolo di Mattinale (2002, accresciuto nel 2006), viene abbandonata per una forma più discorsiva ma che terrà in sé il dubbio di essere “davvero solo”, il dubbio che “tutto ciò che vedo” è “soltanto una finzione appoggiata a credenziali / di cose morte che non sanno più morire”. Ciò che rincorre Di Spigno è la riconquista della vita, e lo farà scoprendo ancora di più le sue parole e le sue pagine, facendole a tal modo nude (La nudità, 2010). Ma il tempo è implacabile, e forse è tale più volte con chi affida alle pagine la ripresa del pieno dell’inizio, il pieno del mattinale, l’ordinario della vita e degli affetti: Ecco allora i nonni, le prozie, la madre, una Napoli intima, sobria, mai convenzionale, mai trasfigurata. Ambienti e personaggi si presterebbero a un gioco crepuscolare; ma qui non c’è gioco, non c’è ironia, non c’è compiacimento: c’è invece una dolentissima serietà (Umberto Fiori). Meglio fermarlo il flusso del tempo (Fermata del tempo, 2015) contro la sciatta iniquità, la banalità, la falsità corrente. Ma il flusso del tempo non può essere fermato, e quel pieno sorgivo e ordinario dell’inizio prenderà a farsi lontano, a rimpicciolirsi fino a un minimo, minimo ora irrinunciabile, con le pagine del nuovo libro ancora più piene di parole e scoperte di “Piccoli segni, quello che è dato avere” (Minimo umano, 2020; Scontro, pag 65): “ho solo il ricordo – scrive Di Spigno – per spiegare / tutto quello che abbiamo perduto, totalmente, / per installarci nell’oggi, / per non essere più niente.” (La bella stagione, pag 72).

[ar]

 

Scontro

 

Bicchieri messi a tacere nella notte.

Rivoli di pioggia che fuoriesce dai canali.

Don che ha vinto un figlio alla lotteria della natura.

Piccoli segni, quello che è dato avere.

E c’è una barriera estranea, la tua mente,

che vuole dominare e non ascolta.

 

Consumi donne per dire che vivi. Prendi libri

per scrivere altri libri, invece avanza

senza protezione, comincia a guardarti le mani,

fai un collegamento

tra la Croce degli Annegati nella piazzetta

e il buio corallo dei fondali marini.

 

Ho perduto la testa quella sera. Volevo essere

ovunque e correvo, l’auto ha sbandato,

tutto è andato a fondo. Quella vitalità

era razzia di un sogno. Solo il dolore

è stato vero. E la vergogna, tremenda,

mi ha fatto rialzare e stare qui, questa mattina,

nel bosco di una strada senza nome,

a correre tra alberi e radici, fango e pori aperti,

metà del mio corpo mai sentito,

l’altra metà preda dell’orrore.

 

*

 

La bella stagione

 

Braccia e gambe prese d’assalto

da mosche e zanzare,

nella quiete di tufo della casa

che l’aria calda fa chiara, si tocca, sorride.

 

Tramontata l’utopia primaverile,

il giglio sterile del cambiamento

che qualche boccheggiante aspetta,

sempre in bilico sul ferreo miraggio,

tra gli occhi alla parete e il non vedere più.

 

E invece è tornata l’estate,

come un vecchio con la memoria svanita

e i terrori notturni, come gli elefanti

che spostano con le zampe

le ossa dei loro avi.

 

Tremore e spavento, la fine del mondo,

unghie conficcate nelle nuvole luminose,

ma io rivedo dei mari,

il loro succo sulla lingua, le canicole dell’eternità.

Su questo non mi sbaglio.

 

Interamente facce sulle spiagge assolate,

ma nessun viso di allora, nessuna voce

celeste di quelle che sono rimaste dentro.

I bambini come sull’orlo di un uragano.

Le stuoie di plastica dove i morti non ritornano.

 

Anch’io aspetto l’estate, a modo mio.

Rivederli da giovani, Emilia, Vittorio, Concetta,

dietro una zanzariera con le braccia scoperchiate,

nella villa fronte mare, affamati di purezza,

perché ho solo il ricordo per spiegare

tutto quello che abbiamo perduto, totalmente,

per installarci nell’oggi,

per non essere più niente.

 

Le falene di agosto traslocano sugli stagni.

Presto sarò con voi, in una serra a nascondino,

allenato al faro che non si spegne

nella bella stagione dei millenni.

 

Più nessuno ci terrà lontano.

Più nessuno ci dirà

che per noi è finita.

 

[Immagine: © Erik Madigan Heck, Untitled, The Garden2019].

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