di Pol Vandromme (traduzione di Massimo Raffaeli)

 

[Quaranta anni fa, il 29 maggio 1985, avveniva la strage dell’Heysel, durante la finale di Coppa dei Campioni tra Liverpool e Juventus. Massimo Raffaeli ha tradotto per Vydia editore Le gradinate dell’Heysel. Una morale per il calcio di Pol Vandromme. Pubblichiamo la prefazione dello stesso Raffaeli].

Prefazione

di Massimo Raffaeli

a Fabio Pusterla

 

“Ce garcon que j’ai aimé n’existe plus. Tu l’as tué à petit feu. […] Le pauvre salaud…  Mais pleurera-t-il  au moins une heure? Et voilà comme ca finit! Misère humaine”.

Lucien Rebatet, Les deux étendards [1952]

 

Che il calcio costituisse nell’occidente capitalistico l’estrema forma della sacra rappresentazione, secondo un aforisma di Pier Paolo Pasolini, fu chiaro a tutti proprio la sera della sua più sconcia e pressoché definitiva profanazione. Il 29 maggio del 1985 sulle gradinate dello stadio di Bruxelles allora denominato Heysel, un’ora prima si giocasse la finale della Coppa dei Campioni fra il Liverpool e la Juventus, morirono trentanove tifosi, quasi tutti italiani, e circa seicento furono i feriti. Una improvvida e non meno dolosa congiuntura (cioè una storia di mercato nero e biglietti venduti sottobanco) aveva tollerato entrassero in contatto, nel settore Zeta della curva nord, gruppi non organizzati di tifosi italiani, per lo più famiglie o semplici appassionati, con la massa degli ultras che la stampa britannica da tempo aveva battezzato hooligans o addirittura animals, dei teppisti sempre ubriachi, predatori strafatti, squadristi del tifo spesso giovanissimi ma dediti al pestaggio come all’aggressione a mano armata. Divelta la recinzione di uno stadio fatiscente, nella indifferenza di un servizio d’ordine sparuto e impreparato, fra i lazzi consueti e strida di sarcasmo, costoro si erano scagliati contro gli italiani inducendoli a retrocedere in massa fino allo sfondamento del muro prospiciente le gradinate. I più erano morti per asfissia e schiacciamento, altri portavano i segni del coltello e di corpi contundenti: molti cadaveri erano stati evidentemente depredati e violati. In un caos da tregenda, fra un viavai di ambulanze e richiami d’aiuto, nella latitanza dei poteri costituiti, infine si decise di giocare la partita e, si disse, per motivi di ordine pubblico. Vinse la Juventus con un gol, su rigore, di Michel Platini e il regime di doppia verità, di sostanziale malafede, che governa il tifo come l’industria del calcio non volle impedire il festeggiamento rituale, né sul terreno né sugli spalti. La vittoria fu dunque omologata, la tragedia letta e sbrigativamente liquidata quale eccesso di marginali e reietti dalla società affluente. Dirigenti, calciatori, addetti ai lavori di tutta Europa ne parlarono a mezza voce, buoni testimoni di un ambiente che per tradizione ama espellere o rimuovere i problemi. Sospesi manu militari per ordine dell’U.E.F.A. i club inglesi dalle competizioni continentali, si chiuse in un ambiguo silenzio anche il calcio italiano così che il Comitato dei parenti delle vittime, costituitosi ad Arezzo per iniziativa di Otello Lorentini, padre di uno dei morti, fu lasciato solo al processo per rogatoria celebratosi a Bruxelles, il cui esito sembrava essere peraltro beffardamente predeterminato: quattordici tifosi inglesi e qualche oscuro funzionario belga furono condannati a pene mitissime mentre vennero assolti gli uomini del potere e delle istituzioni. Quando molto più tardi Michel Platini, riandando alla notte dell’Heysel, venne a patti col suo senso di colpa e pronunciò la celebre frase “quando l’acrobata cade, entrano i clown”, una frase  in effetti autoassolutoria, non poteva sospettare che la sua allegoria celava un senso preterintenzionale e recava, pertanto, il segno di una verità ulteriore.

 

A parte alcuni reportages e un bel film intimista (di segno scuro e meditativo, Appuntamento a Liverpool, 1988, a firma Marco Tullio Giordana, passato in silenzio) la tragedia dell’Heysel non ha ancora avuto i suoi interpreti. Fa eccezione il libro scritto a caldo, in un’unica presa di fiato, pervaso da timore e tremore, dove Pol Vandromme, grande critico letterario e vecchio appassionato di calcio, riversa di getto il suo amore ferito e scrive un oratorio funebre per quello che non è più uno sport né tanto meno un gioco, intramandolo, negli andirivieni del ricordo, ai luoghi e alle occasioni di un suo personale romanzo di formazione. Non è dato sapere se Vandromme quella sera sedesse sulle gradinate dell’Heysel: è più probabile che il ciclo del suo definitivo disamore (prima in forma di stupore, di imprevisto dolore, poi di rabbia costernata e incredula) egli l’abbia consumato davanti alle immagini della televisione. Chiunque le ricorda in uno scorrimento paradossalmente piatto, atono e persino afono, come se il massacro potesse prodursi nella più stolta indifferenza. Come se, appunto, lo spettacolo dovesse purchessia continuare ignorando la sua sinistra metamorfosi, il suo stato di cruenta eccezione: così infatti è avvenuto ma forse, in un mondo di procurata normalizzazione dell’eccesso ad ogni costo, ovvero di usuale sacralizzazione del profano, non poteva  accadere altrimenti. Biografo di Céline, è come se Vandromme fosse indotto a inabissarsi in poche ore, nonostante gli fosse impossibile sospendere la sua incredulità, nel più orrendo Voyage au bout de la nuit. L’Heysel, insieme con l’apoteosi di quella che lui senz’altro definisce la Bestia insaziabile, equivale alla morte in effigie dello sport (secondo l’etimo che lo associa al diporto, a una forma di svago superiore) in quanto civilizzazione della guerra e richiamo all’antica cavalleria. La folla, prima che la massa, ne è il mandante e nel frattempo il referente perché si svela un surrogato del “popolo” (la parola, amatissima, qui è del tutto indiziata) ormai eclissato dalla scena pubblica e annientato dalla società dei consumi. Anche il sangue e la strage, come la loro fruizione fantasmatica e il relativo smaltimento mediatico, rappresentano un consumo senza più residui, suggerisce Vandromme. Per questo, davanti alla tragedia, egli teme la sua stessa parola mettendosi in guardia da due ordini di spiegazioni, opposte e complementari, l’una di stampo sociologico, che accusa il capitalismo neoliberista, l’altra di taglio ermeneutico, che fa riferimento ai retaggi socioculturali di Italia e Inghilterra. Uomo di destra (sia pure di una destra anticonformista e libertina, in Francia detta buissonnière), la posizione di Vandromme è la stessa dell’anticapitalismo romantico secondo cui il calcio attuale (che taluni infatti chiamano Neocalcio) sarebbe nient’altro che “un connubio di idiozia e mercantilismo”. Lo scrittore belga ne rinviene la causa alla radice stessa della modernizzazione, cioè a cavallo degli anni settanta e ottanta. Il quadro è noto: progressiva perdita della noblesse dilettantistica e insorgenza, all’opposto, di una metafisica del risultato-per-il-risultato; riorganizzazione delle società, ad ogni livello, in senso taylorista-fordista; dispotismo della pubblicità e totale mediatizzazione degli eventi sportivi; mutazione del tifo, da fenomeno individualmente passionale e mitemente identitario, nei termini di un credo fondamentalista, parareligioso e xenofobo.  Di quest’ultimo in particolare lo scrittore non accetta l’idea che si tratti del ritorno simbolico, talora violento fino all’eccedenza, di una voce cui le nostre società prescrivono il silenzio e l’inazione salvo poi subirne, a cadenza, il micidiale contrappasso. Si tratta di un fenomeno tanto metabolizzato nel senso comune da lasciare ammutoliti o da indurre, semmai, solamente stupore, spaesamento, oppure una vergogna primordiale: ha raccontato di recente Darwin Pastorin che a migliaia di chilometri dall’Heysel, a Città del Messico, nel ritiro della nazionale britannica, quel 29 maggio del 1985 il centravanti Trevor Francis, gli occhi sbarrati davanti al fermo-immagine della tv, non riusciva a dire altro se non un sonnambolico “Mi vergogno di essere inglese”. Ovvio che Vandromme non sottoscriverebbe mai la tesi di Alessandro Dal Lago, che in un classico della nostra sociologia (Descrizione di una battaglia, 1990, pubblicato a ridosso della strage), rovescia il quadro dei riferimenti: “Il calcio dà voce (trasformandole, ritualizzandole, e cioè rendendone l’espressione visibile, costante, prevedibile e formale) ad aspettative, esigenze e tensioni paradossalmente morali, che nella vita sociale ordinaria restano allo stato latente, o sono confinate nell’ombra della vita privata e anonima degli attori”. A tutto questo Le gradinate dell’Heysel oppone il rifiuto radicale che via via si trasforma in una preghiera dei morti.

Al calcio divenuto per metastasi Neocalcio, Vandromme non ha nulla da opporre se non il proprio Bildusgsroman e quello che esso comporta al presente. Lo riassume in una pagina a latere e di poco successiva al suo libro più teneramente autobiografico, dettando un’ideale quarta di copertina:

 

La mia iniziazione al calcio ebbe luogo nel cortile della scuola durante le ore di ricreazione. Avrei prolungato volentieri questa esperienza che mi entusiasmava. Ma l’epoca non era propizia, l’Occupazione ci confinava nei nostri quartieri come dentro una riserva indiana, e i miei genitori erano poco inclini a soddisfare la mia passione sportiva. Dilettante poco praticante, sono quindi diventato un contemplativo del calcio, ricercando, attraverso di esso, un piacere estetico. Da qui il mio smarrimento e la mia indignazione davanti alla degenerazione di questo sogno da esteta in un incubo di bassezza mercantile e di stupidità omicida.

 

Lo sguardo è retrospettivo, il moto nostalgico è persino deliberato. Così delimitato è il perimetro dello spazio-tempo da alludere alla forma chiusa di una poesia: il cortile di una scuola in cui vige la disciplina di ogni impulso, lo spazio domestico recluso e ostile al gioco, specie all’estasi del football, lunghi pomeriggi allo scrittoio, pagine purgate e libri d’ore, divieto assoluto di leggere Stendhal, pesante clima di filisteismo e ipocrisia. Cos’è allora il calcio in un simile contesto? Un’arte priva di scopo che esige trasgressione della norma, libertà, una licenza troppo a lungo vagheggiata di cui il memoriale adulto di Vandromme, con la sua scrittura netta e calcolatamente deragliante, rappresenta la più esatta commemorazione. Alla lettera, è l’altra metà di quella terra senza cielo, Charleroi, tra i campi innevati di fuliggine oppure sulle gradinate dello stadio Mambour, la couche di una passione che si specchia solamente nell’epica della squadra di casa, i bianconeri semidilettanti dello Sporting. Sono nomi che non dicono più nulla se non al reliquario di un devoto, campioni del calcio che fu, in tutto degni di giocare al vecchio Heysel, come Jean Capelle o quel Jules Henriet, centrocampista da combattimento, vecchia volpe dell’area di rigore con il fiuto del gol, cui spettano gli epiteti di “fuoco fatuo” e “passamuraglie” laddove viene reso omaggio, ormeggiando il calcio alla letteratura, ai titoli più celebrati di Pierre Drieu La Rochelle e Marcel Aymé, due fra gli autori prediletti. Al cospetto di costoro e dunque agli occhi di Vandromme, acclamati campioni come Michel Platini, Zbigniew Boniek o Paolo Rossi, così come Phil Neal, Kenny Dalglish o Jan Rush, sono pallide decalcomanie, pura onomastica pubblicitaria, flatus vocis dentro al sinistro orgasmo della Bestia insaziabile. Qui la nostalgia si svela finalmente per quello che è, vale a dire il riflesso di una utopia che non smette di sentire il calcio quale invenzione artistica elementare, gesto della pura gratuità, come fosse una dépense, ovvero lo spreco sovrano di chi si mantiene in stato di perpetua adolescenza. O, in altri termini, il calcio appare un combinato disposto di casualità e necessità che, nel suo moto desultorio, rammenta ancora una volta le dinamiche della poesia. Qui Vandromme non può che recepire l’esito cruciale, il più lancinante, di un Bildungsroman la cui attesa di vita è venuta naufragando e si è interrotta, senza più forma né destino, allo stadio terminale della condizione umana e, perciò, della miseria umana. Nell’attuale società, una simile catastrofe è al massimo degna del pianto di un’ora, come scrisse un altro dei suoi autori di sempre, Lucien Rebatet. Per questo Vandromme dice di sentirsi un reduce, un ex tifoso divenuto a forza ascetico e, di fatto, un contemplativo del gioco del calcio. D’altronde il glaciale silenzio successivo alla strage dell’Heysel traduce in emblema l’eclissi di una vicenda secolare. Il football formattato e ubiquitario di oggi, la sua stessa religione mediatica, ha i tratti di un’involontaria e nera parodia: insomma una perfetta, programmatica, antitesi del sacro.

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