Seconda parte – The Wire: la scomparsa della giustizia
di Gianluigi Rossini
The Wire (HBO, 2002-8), pur rientrando abbastanza facilmente nella categoria di police procedural, si colloca su un piano diverso rispetto alla maggior parte delle serie poliziesche per ambizione, risultati, struttura formale e problematiche affrontate. Atipica perfino rispetto allo standard HBO, la serie è rapidamente diventata una delle più amate dalla critica, cosa che le ha permesso di completare cinque stagioni nonostante gli ascolti non siano mai stati particolarmente brillanti.
Un primo motivo di atipicità è nelle carriere del creatore David Simon e degli altri sceneggiatori. Ex reporter del Baltimore Sun, Simon non aveva molta esperienza televisiva quando ha proposto a HBO il progetto di un «anti-cop show» ed è noto, infatti, che il management della rete avesse molte perplessità ad affidargli la guida del progetto. Ma una volta convinta HBO, Simon ha reclutato uno staff di sceneggiatori anch’essi tutti poco o per nulla avvezzi alla scrittura televisiva: Ed Burns, praticamente co-autore della serie, era un ex detective e insegnante di Baltimora, la cui collaborazione con Simon era partita già ai tempi di The Corner formato libro. Altri, come George Pelecanos, Richard Price, Rafael Alvarez, Dennis Lehane erano noti soprattutto come romanzieri.
Proprio da questa scarsa dimestichezza con il mezzo, probabilmente, sono derivate scelte formali anch’esse piuttosto atipiche, ma efficaci: in un momento in cui la serialità, e tanto più quella a tema poliziesco, era dominata da riprese con telecamera a mano che simulavano il real time, montaggi super-rapidi, fotografia molto marcata ed effetti digitali, The Wire proponeva un ritmo molto lento e una regia e una fotografia estremamente sobrie, quasi documentaristiche. La ferrea volontà di ricreare dei dialoghi realistici, inoltre, ha portato sia a eliminare sistematicamente gli “spiegoni”, al punto che spesso lo spettatore si ritrova in mezzo a conversazioni tra iniziati che usano sigle e fanno riferimento a cose che egli non può conoscere, e deve aspettare a volte anche settimane prima di essere messo in condizione di comprendere tutto ciò che viene detto; sia a utilizzare il dialetto di Baltimora e soprattutto il gergo dei drug dealers, non sempre immediatamente comprensibile neanche per gli stessi americani («Non avevo mai lavorato con una sceneggiatura in inglese che avesse un glossario» ha detto in un’intervista l’attore Al Brown, che interpretava il maggiore Valcheck).
Anche la forma narrativa scelta si accorda a queste rigide regole di sobrietà e mimesi: non ci sono mai né analessi né prolessi, sono quasi del tutto assenti cliffhanger, colpi di scena, suspense a buon mercato. Le linee narrative non si concludono mai in un solo episodio, ma si estendono in lunghi archi che coprono una o più stagioni, ognuna delle quali è pensata come un capitolo distinto del progetto complessivo, con una pianificazione di lungo termine raramente vista in TV. Ogni stagione, infatti, è incentrata su un’istituzione in particolare, e introduce una nuova indagine e un nuovo ambiente, pur non uscendo mai da Baltimora. La stagione 1 si muove tra il ghetto delle case popolari e i dipartimenti di polizia, la stagione 2 è ambientata in gran parte tra i lavoratori del porto, la stagione 3 entra nelle stanze del sindaco, la stagione 4 si focalizza sulla scuola pubblica, la stagione 5 sulla stampa e il Baltimore Sun in particolare. Il ghetto e gli uffici della polizia, comunque, non vengono mai messi da parte. Il protagonismo è decisamente corale: i personaggi fissi, presenti dalla prima all’ultima puntata, sono quasi una decina, ma se si aggiungono quelli che hanno un ruolo importante in una o più stagioni si arriva a oltre quaranta. E sicuramente uno dei miracoli della serie è la capacità di gestire un numero così ampio di caratteri senza trasformarli in macchiette bidimensionali. Per quanto poco si soffermi sulle loro vite private, ognuno di essi è dotato di un’umanità vibrante e viva. Ciò si deve, probabilmente, sia all’attenta scelta del cast, sia al fatto che molti dei personaggi, per esplicita ammissione di Simon, sono direttamente ispirati a persone reali.
Simon ha rilasciato numerose interviste nelle quali non ha fatto mistero delle sue elevate ambizioni artistiche. The Wire doveva essere «un romanzo per la televisione», «sulla città americana, sulle modalità della notra vita comune […] su come le istituzioni influenzano gli individui»[1]. Tra le numerose dichiarazioni di poetica, una delle più frequenti riguardava il rapporto con la tragedia greca: «Un’altra ragione per cui lo show può sembrare diverso da molta televisione: il nostro modello non è così shakespeariano come in altri gioielli HBO. The Sopranos e Deadwood – due programmi che ammiro – offrono un bel po’ di Macbeth o Riccardo III o Amleto nel loro focalizzarsi sulle angosce e le macchinazioni del personaggi principali […]. Noi invece rubiamo da un costrutto più antico e meno battuto – i greci – prelevando all’ingrosso le nostre posizioni tematiche da Eschilo, Sofocle, Euripide in modo da creare protagonisti condannati dal destino, che affrontano un gioco truccato e la loro stessa mortalità. La mente contemporanea – particolarmente la nostra, occidentale – trova questo fatalismo arcaico e frustrante, penso. Siamo una massa di postmoderni autorealizzati e auto-adoranti e l’idea che, con tutto il nostro denaro e i nostri soldi da spendere per i piaceri siamo ancora condannati da divinità indifferenti, ci suona antiquata e superstiziosa»[2].
Questa opposizione tra modello greco e modello shakespeariano, contestabile a livello teorico ma efficace, significa soprattutto che al centro di The Wire non ci sono gli individui, ma le “istituzioni postmoderne” nelle quali gli individui sono inseriti: la polizia, l’industria, la politica, la scuola, i media, le organizzazioni criminali[3]. Tragico, dunque, è il destino di chi si è arruolato in una di queste istituzioni e cerca di cambiarla, o di agire in maniera indipendente.
Se spesso, in un primo momento, sembra di vedere il classico schema hollywoodiano dell’eroe positivo contrastato da superiori ottusi o corrotti, episodio dopo episodio ci si rende conto che in realtà stiamo assistendo a una descrizione dettagliata dell’inesorabile automatismo con il quale le istituzioni schiacciano l’iniziativa indipendente in virtù della propria autoconservazione. Contemporaneamente, nei ghetti, siamo messi a stretto contatto con una pesante realtà di abbandono e degrado urbano, dove ragazzi con famiglie disastrate hanno poche alternative allo spaccio o al consumo della droga.
Da un lato e dall’altro della legge, in The Wire, come notato da Fredric Jameson[4], troviamo due mondi completamente differenti, ognuno con le proprie regole. Quando i personaggi delle case popolari, tutti neri, si spingono downton, è come se entrassero in un paese straniero. Viene da qui, ad esempio, la tragicità di una figura come quella di Stringer Bell (Idris Elba): il suo tentativo di entrare a far parte della società diurna come legittimo imprenditore (riciclando i soldi della droga in investimenti immobiliari) si rivela impossibile, tanto perché il passato da gangster continua a inseguirlo, quanto perché la sua provenienza è trasparente e i politici che cerca di corrompere non fanno che rubargli soldi. Lo stesso Simon ha detto che il “wire” del titolo si riferisce sia alle intercettazioni telefoniche sia all’immaginario filo spinato che divide le due città: quella dei benestanti, confinata nel centro e in pochi altri quartieri, e quella degli esclusi, che si estende nei quartieri degradati dei public housing projects.
Nella serie viene continuamente riproposta la differenza tra agire per «street level arrests», inutile perché ottiene l’unico risultato di far entrare e uscire dalla prigione i livelli più bassi delle organizzazioni, gli spacciatori di strada, e il «quality police work», incarnato ad esempio dalle intercettazioni, mediante il quale si cerca di arrivare ai grandi trafficanti. Non si tratta semplicemente di una differenza di strategia, ma di due modi diversi di concepire il crimine: da un lato c’è una cultura brutalmente repressiva, che si muove solo dopo che il reato è stato commesso e che vede chi infrange la legge come un sociopatico da combattere frontalmente e schiacciare. La cimice, invece, il lavoro di polizia costruito con pazienza allo scopo di comprendere l’organizzazione criminale, che ne studia il linguaggio e le modalità di funzionamento, rappresenta una cultura che cerca la prevenzione, che contestualizza il crimine nell’ambiente in cui nasce e si assume la responsabilità delle cause che lo generano.
Questo sguardo oggettivo, informato e spietato sia sulle istituzioni che sulla criminalità causa un superamento progressivo e consapevole del contrasto legge positiva/legge naturale, in quanto il secondo termine della contrapposizione finisce per sparire del tutto: l’idea di giustizia non ha più senso, in The Wire, e su due livelli differenti.
Il primo livello è quello delle istituzioni deputate a scrivere, applicare e far rispettare la legge. In esse, tanto il gigantismo del sistema quanto l’applicazione della logica del capitalismo deregolamentato hanno fatto sì che la legge sia diventata pura forma, completamente svuotata di un referente reale. È possibile forse chiarire questo punto facendo riferimento all’idea di Jameson di postmodernismo come “scomparsa della natura”: «Il Postmodernismo è ciò che ci si trova di fronte allorché il processo di modernizzazione si è compiuto e la natura è svanita per sempre […] si tratta di un mondo più compiutamente umano, nel quale tuttavia la “cultura” è diventata un’autentica “seconda natura”, un’immensa e storicamente originale acculturazione del reale»[5].
In The Wire le istituzioni sono sistemi chiusi, il cui unico vero scopo è l’autoconservazione. I dipartimenti di polizia, ad esempio, non si occupano davvero di combattere il crimine: a ogni livello della gerarchia, il problema è fare in modo che le statistiche (il numero dei reati rilevati, degli arresti effettuati e dei crimini risolti) riportino cifre tali da soddisfare il grado superiore. Il valore semantico di queste statistiche (il rapporto che esse hanno con il livello di presenza del crimine in città) è del tutto eclissato dal loro valore sintattico, per cui un omicidio non scoperto è esattamente identico a uno non commesso. Così quando il detective Lester Freamon (Clarke Peters) si rende conto che una nuova gang nasconde i cadaveri nelle case abbandonate di Baltimora ovest, sa benissimo che la reazione dei suoi superiori sarà: non andate a frugare in quelle case. Così i dirigenti scolastici, che in virtù del No Child Left Behind Act vedono i loro istituti premiati (o puniti) in base al rendimento degli studenti su test standardizzati, all’approssimarsi delle prove sono costretti a sospendere tutte le attività per “insegnare il test”, in modo da ottenere risultati migliori.
Non si tratta, semplicemente, della sbagliata applicazione di giusti principi, o dell’imposizione di principi sbagliati. Il punto è che le statistiche sono diventate una seconda natura, esse sono la vera realtà alla quale i dirigenti fanno riferimento, e a ragione: il sistema premia chi riesce a far risultare i numeri migliori. Chi prova a proporre qualcosa di diverso, non importa con quali effetti sulla realtà, verrà estromesso o degradato, subirà la vendetta della divinità offesa, l’istituzione.
Nella terza stagione della serie sembrerebbe esserci un’eccezione a questa regola. In estrema sintesi: il maggiore Colvin (Robert Wisdom), pressato dai gradi più alti della gerarchia a migliorare le sue statistiche, decide di creare in una zona dove la droga sia tollerata, rendendo la cosa nota a tossici e spacciatori. Quando i suoi superiori si accorgono della cosa, di fronte all’incredibile diminuzione dei reati perfino il sindaco non può negare che l’idea sia un successo, inaccettabile ma un successo. Ma appena la notizia arriva sui giornali, l’ordine immediato è di organizzare una retata, chiamare i media e addossare tutta la colpa alla scriteriata azione indipendente di un maggiore.
Perché, in questo caso, le statistiche passano in secondo piano? Perché da troppo tempo è stato stabilito che la droga è male, lo Stato è da anni impegnato in una “guerra” contro di essa, e nessun sindaco potrà mai convincere il governo e l’opinione pubblica che sia una buona idea creare delle piccole Amsterdam in America. Questo ci porta al secondo livello in cui si rileva la scomparsa della giustizia: dopo aver osservato la vita nei ghetti e partecipato alle scelte di piccoli e grandi criminali, formulare una condanna per il comportamento degli spacciatori è molto più difficile; lo spettatore non può non avere l’impressione che tanto i ragazzi che vendono la droga nelle strade quanto i capi delle organizzazioni criminali sono il risultato di un ambiente, di un modo di vivere che viene trasmesso da padre a figlio, e non soggetti devianti o criminali naturali. Molte delle idee che abbiamo sulla giustizia, allora, non sono altro che una forma più astratta delle imposizioni della gerarchia. Se l’azione contro lo spaccio nelle strade, per esempio, è guidata dagli astratti principi della “guerra alla droga”, da una cecità totale verso le ragioni che causano certi comportamenti, allora non è di giustizia che si sta parlando.
Nell’aprile del 2004, una decina di membri di una gang di Baltimora, nota come Lexington Terrace boys, venne arrestata e processata in seguito a un’indagine federale, non solo per spaccio ma anche per diversi omicidi. Il Lexington Terrace era un complesso di case popolari, poi abbattuto, intensamente interessato dallo spaccio di droga. Proprio a quei palazzi si è ispirato il Franklin Terrace in cui si svolge parte della prima stagione di The Wire. L’Attorney General John Ashcroft (cioè il capo del Dipartimento di Giustizia a livello federale) si era interessato personalmente al caso e aveva spinto i procuratori dell’accusa a chiedere la pena di morte. Gli avvocati della difesa, allora, cercarono di spiegare a una giuria federale, composta quindi da persone provenienti per lo più da piccoli centri suburbani del Maryland, che cosa significasse crescere nei quartieri popolari di Baltimora. Ed Burns, le cui esperienze come detective sono una delle fonti principali di The Wire, fu chiamato come testimone dalla difesa. «Burns parlò con successo contro la richiesta della pena di morte per i Lexington Terrace Boys perché, disse, gli americani hanno il diritto di essere giudicati da una giuria di pari. “Non puoi essere un pari di questi imputati se non capisci cosa fosse quel mondo e cosa significasse crescere in quel mondo”»[6]. Potrebbe essere una dichiarazione di poetica per The Wire. Nel momento in cui la legge si lascia guidare da concetti di giustizia astratti e standardizzati, in realtà, crea molti più danni di quanti problemi risolva.
(Una versione completa di questo articolo apparirà nel numero di maggio 2012 di Between” – www.between-journal.org).
[1] David Simon, commento all’episodio The Target, The Wire Complete DVD Box Set, HBO, 2005.
[2] David Simon intervistato da Nick Hornby, Believer, agosto 2007.
[3] Per un’indagine sul rapporto tra The Wire e la tragedia greca cfr. Chris Love, Greek Gods in Baltimore: Greek Tragedy and The Wire, «Criticism», Volume 52, Number 3-4, Summer/Fall 2010.
[4] Fredric Jameson, Realism and Utopia in The Wire, «Criticism», Volume 52, Number 3-4, Summer/Fall 2010.
[5] Fredric Jameson, Postmodernismo, ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, Fazi, Roma, 2007, p. 6.
[6] Rafael Alvarez, The Wire: Truth to Be Told, Canongate Books, Edimburgh, 2009, p. 53.
Bell’articolo, molto chiaro specialmente nella parte che analizza l’impatto delle statistiche sulla “vita reale”. È stato un piacere leggerlo.
Complimenti. Articolo molto interessante. The Wire è il poliziesco “intellettuale”, ma è anche cupo e notturno. Un raro connubio tra fiction e spaccato/documento. Chissà che ne pensa un Tarantino. A Obama so che piace… me l’ha detto lui :)) Hola