di Niccolò Scaffai
Leggere Gadda: restava da fare questo. Non dico rileggerlo, per darne nuove interpretazioni (comunque ben accette, se non altro come prova della vitalità dell’opera gaddiana: penso, ad esempio, all’analisi del Pasticciaccio alla luce di Freud e Schrödinger, proposta di recente da Gabriele Frasca in Un quanto di erotia); intendo proprio dire: leggerlo, seguendone il passo, la cadenza, come se fosse la prima volta. E, per molti, le nuove uscite di questo periodo potrebbero in effetti rappresentare la prima occasione per avvicinarsi a un autore indiscutibilmente canonico, ma che del canone fa parte proprio per la sua ‘illeggibilità’. Può sembrare un controsenso o una provocazione, e in parte lo è; ma proviamo a chiedere agli studenti di un corso di Lettere se conoscono il nome di Gadda e se lo hanno letto: alla prima domanda molti risponderanno di sì, alla seconda di no – in larghissima maggioranza. Non solo: domandiamo a chi insegna letteratura italiana, magari all’estero, se pensa che Gadda sia un autore proponibile, per di più a un pubblico di non italofoni. Parecchi sorriderebbero scoraggiati al solo pensiero.
Non si può negare che Gadda sia un autore difficile; ma il punto, messo a fuoco dalla critica specialmente negli ultimi anni, è che la straordinarietà della lingua gaddiana – tale da giustificare l’invenzione del paradigma storico-stilistico che chiamiamo, con Contini, «funzione Gadda» – fa ombra alla consistenza narrativa della sua scrittura. Credo occorra ripartire da lì per leggere (e probabilmente anche per insegnare) Gadda, da quella consistenza o meglio stratificazione, perché dietro a ogni scarto lessicale – arcaismi, dialettalismi, forestierismi, solecismi – si intravedono storie: della società in cui si inquadrano le vicende e dei personaggi coinvolti anche per un solo istante, un rigo o meno, nella macchina mimetica del narrare gaddiano. La complessità della lingua non è perciò la causa, ma la conseguenza della bulimia conoscitiva dello scrittore, che divora l’esperienza e ne restituisce i frammenti: brandelli di dialoghi, scorci descrittivi, cronache di fatti e persone. Per questo Gadda non è uno scrittore poco narrativo ma, all’opposto, è uno scrittore ipernarrativo; nelle sue opere, infatti, la moltiplicazione delle voci e delle prospettive serve a esprimere e quasi a rincorrere i mille rivoli reconditi attraverso cui le cause imponderabili sfociano in quell’effetto frastagliato che è il reale. Contini, che pure ha fabbricato le lenti formali con cui siamo abituati a leggere Gadda, l’aveva compreso da tempo: «Il Gadda narratore rischia perfino di essere più temerario del Gadda stilista» (così scriveva nell’85, alla fine della sua Introduzione ad «Accoppiamenti giudiziosi»).
Proprio dagli Accoppiamenti ha preso avvio l’anno scorso, per Adelphi, la nuova edizione delle opere gaddiane, diretta da tre filologi di scuola pavese (Paola Italia, Giorgio Pinotti, Claudio Vela), che proseguono il lavoro già compiuto da Dante Isella. A quel volume si aggiunge ora L’Adalgisa. Disegni milanesi, Milano, Adelphi, pp. 432, euro 24,00. A curarla è Claudio Vela, un’autorità gaddiana, che fornisce una Nota al testo rigorosa e al tempo stesso arguta (si legga la divertente Microazione grammatical-redazionale a tre personaggi, nella quale il Curatore immagina di dialogare con il Perché, accento acuto, e il Perchè, accento grave, l’un contro l’altro armati in difesa delle rispettive soluzioni grafico-editoriali). Soprattutto, Vela ci permette di leggere (in questo senso, come dicevo prima, quasi per la prima volta) L’Adalgisa così come il libro è stato originariamente concepito dall’autore: l’opera viene infatti riproposta secondo il testo della princeps del 1944, che aveva visto la luce per i tipi di Le Monnier. Quell’uscita, al culmine della Seconda guerra, era apparsa intempestiva allo stesso autore, che quasi se ne scusava in una lettera a Carlo Linati: «Io mi rendo conto altresì che il libro è uscito in un momento poco propizio: cure gravi occupano l’animo dei miei concittadini: mentre gli scritti pubblicati risalgono ad anni relativamente sereni, in cui lo scherzo era esteticamente lecito».
Ma, come spiega Claudio Vela nella Nota al testo, L’Adalgisa più che un frutto fuori stagione era «un libro che chiudeva un periodo di Gadda ma guardava avanti». Al momento della sua uscita, infatti, la stagione milanese dell’autore, così ben descritta nei tipi e nei costumi (memorabile il catalogo dei notabili «coniugati fra loro, imparentati fra loro, associati fra loro»: «i Lattuada, i Perego, i Caviggioni, i Trabattoni, i Berlusconi…»), aveva già lasciato il posto a quella fiorentina. Anche l’idea di un romanzo che rappresentasse quella stessa società – Un fulmine sul 220 – era stata accantonata a favore di una narrazione frammentata nei dieci brani o ‘disegni’ che formano L’Adalgisa (la raccolta prende il titolo dall’ultimo, collocato a suggello di un progetto macrotestuale che l’edizione Vela contribuisce ora a chiarire e valorizzare). Anche in questo senso, il libro «guadava avanti», al futuro: perché, facendo di necessità virtù, dava forma alla narrazione propagginata e senza trama tipicamente gaddiana. Una narrazione in cui il fatto, se non scompare, viene dislocato fuori cornice: esemplare è il terzo disegno, Claudio disimpara a vivere, costruito intorno a un evento tragico, eppure (o proprio per questo) raccontato solo nelle note che l’autore aggiunge al testo: il crollo o «drammatico e anzi addirittura ferale mancamento di ponte verificatosi negli anni tra il 1920 e il 1930 in una laboriosa città della pianura padana», che provocò la morte di sette ragazzi.
Se l’edizione dell’Adalgisa presuppone un gruppo di lettori coltivato (e filologicamente attrezzato, nel caso voglia accedere pienamente alla Nota del curatore), un’altra recente uscita gaddiana potrebbe rivolgersi addirittura a un pubblico di non-lettori, o di lettori potenziali: si tratta infatti dell’audiolibro di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana letto da Fabrizio Gifuni e pubblicato in formato CD Mp3 nelle edizioni Emons di Roma. Una lettura nel vero senso della parola, condotta da un attore che vanta già un’esperienza gaddiana di grande rilievo (il monologo teatrale L’ingegner Gadda va alla guerra o della tragica istoria di Amleto Pirobutirro, nato da un’idea dello stesso Gifuni per la regia di Giuseppe Bertolucci). Ma diciamo chiaramente, a scanso di equivoci, che il supporto digitale non autorizza in alcun modo il disimpegno intellettuale: il Pasticciaccio di Gifuni è una vera, pregevole interpretazione del romanzo che Gadda pubblicò in volume più di cinquant’anni fa, nel 1957, e mette voglia, ascoltandolo, di accedere al libro e leggerlo per la prima o per la centesima volta. La performance vocale di Gifuni è fuori dal comune: durante le 13 ore e mezzo della lettura, alterna le pose mimetiche (da imitatore d’alto rango, o meglio ri-creatore di timbri e dialetti quale sa anche essere) al tono di grisaglia di una studiatissima voce autoriale. Certo, il camaleontismo tra una calata regionale e l’altra, dal veneto al romanesco, diverte e ‘funziona’ anche se inevitabilmente carica di colori vivaci quelle che nel libro sono sfumature delicate tra discorso diretto e indiretto libero, tra le parole e i pensieri del narratore e quelli dei personaggi. Ma la lettura dà ai caratteri un corpo ed è come se riuscisse a tradurre in movimenti e posture quasi fisiche, sensibili, anche i tratti psicologici più sottili dei protagonisti o le allusioni meno esplicite del coro di figure vociferanti sulla ‘scena’ della pagina.
[Questo articolo è apparso su «Alias-il manifesto»].
[Immagine: Alex Prager, Pacific Ocean (gm)].
Trovo l’articolo molto stimolante e mi sento di toccare due punti che forse potrebbero provocare qualche riflessione ulteriore. Trovandomi nella condizione di chi insegna letteratura italiana fuori dall’Italia mi confronto ogni anno, durante la preparazione dei corsi, con l’ossessione di lavorare su Gadda (forse avrebbe divertito lo stesso Gadda questo piccolo aneddoto accaduto durante il mio primo anno di insegnamento, esattamente dopo il primo incontro di un seminario in cui mi accingevo a leggere, capitolo per capitolo, la ‘Cognizione’: ebbene una studentessa mi chiese di parlare alla fine del primo incontro e, dopo aver lamentato la difficoltà dell’argomento, iniziò drammaticamente a piangere, quasi tramortita dall’invalicabile pagina pirobutirrica).
La prima riflessione, dunque, riguarda la necessità di lavorare su Gadda non solo a livello filologico (e il lavoro che si sta compiendo è notevole e di alta qualità), ma anche a livello critico e magari di farlo in maniera più massiccia già nelle edizione dei testi. Mi spiego ancora meglio: credo che gioverebbe molto iniziare a pensare di corredare i testi gaddiani con apparati e note che aiutino il lettore non solo a livello filologico, ma che in qualche modo lo assistano fornendogli una serie di spiegazioni (testuali e extratestuali) con cui orientarsi meglio nella lettura. Forse è una proposta troppo legata alla mia condizione di italiano all’estero, ma una simile opera di “traduzione”, ovviamente limitante e parziale, potrebbe anche essere sana. Insomma, non capisco perché se l’Ulisse (sia in Italia che nella sua patria) è quasi sempre pubblicato con un volumetto a parte (limitato e limitante, lo so) che serve come minima mappa per i lettori, i testi di Gadda (tanto vicini a quelli di Joyce) non siano mai stati sottoposti a simile operazione. Ci sono molti modi di offrire spiegazioni e scommetto che se questo volumetto fosse curato da critici attenti e preparati (abbiamo la fortuna di averne ancora tanti, nonostante tutto) sarebbe un buon compromesso tra critica e divulgazione.
La seconda riflessione, ancora più breve, entra nel merito delle operazioni filologiche attualmente in atto su Gadda. Il discorso meriterebbe una lunghissima digressione, che coinvolgerebbe anche i convegni gaddiani (l’ultimo tenutosi ad Edimburgo lo scorso settembre), però qui l’accenno solo come (quasi)provocazione. Siamo certi che questa serie di nuove edizioni delle opere gaddiane sia sempre la strada migliore da seguire? Ovviamente non parlo di ‘Eros e Priapo’, per cui i lavori di revisione della corrente edizione (già in parte anticipati con letture pubbliche e convegni) si presentano promettenti, ricchi e sacrosanti, ma mi riferisco a quello che leggo sull’Adalgisa e a quello che so sulla Cognizione del dolore..la scoperta di nuove carte – testimonianze indubbiamente affascinanti di prove di scrittura che l’autore ha però comunque abbandonando nel corso degli anni – autorizza la infatti filologia attuale a pubblicare una NUOVA ‘Cognizione del dolore’? (cosi letteralmente definita durante il convegno ‘Gaddus’ ad Edimburgo). Stesso discorso per l’Adalgisa, ma non conosco bene la questione in questo caso e mi affido a quanto scrive Scaffai nel suo bel pezzo, quindi potrei essere rapidamente smentito..per la ‘Cognizione’ invece..Insomma, siamo sicuri che questa strada, affascinante per uno specialista (talvolta, temo, pericolosa se proposta al grande pubblico) sia quella corretta? Mi fermo, scusate per la lunghezza del post (davvero insolita per me) e grazie, come sempre, per questi spunti.
Un ottimo articolo, di cui c’era bisogno, anche per ribadire l’appartenenza di Gadda alla categoria degli scrittori narratori (e non solo stilisti, come vorrebbe una corrotta vulgata post-continiana). E una nota: in Gran Bretagna non siamo in pochi a insegnare Gadda: mi viene in mente, oltre ai miei corsi a Leeds, almeno Birmingham, per non parlare del centro di studi gaddiani di Edinburgo. Una riprova del fatto che lo scrittore, di certo ostico per uno studente, in specie se non-madrelingua, non e’ pero’ inarrivabile, e che la lingua non costituisce una barriera insormontabile. Per la mia esperienza, semmai, a scoraggiare gli studenti, piu’ che la densita’ linguistica, e’ la poetica di Gadda, la sua ideologi. Il corpo a corpo con gli scritti di Gadda si basa su un fondo di dolore, e mi rendo conto anno dopo anno che gli studenti in genere non si aspettano che un romanzo possa mettere in discussione la superficialita’ della vita, e preferiscono quindi letture che non intacchino le loro certezze.
Assolutamente condivisibile l’invito a “leggere” Gadda. Roscioni, ne “La disarmonia prestabilita”, ricorda come i primi esperimenti dello scrittore fossero sotto il segno di Zola. In questo senso è del tutto vero che Gadda è ipernarrativo, direi forse anche ipernaturalista (non dico iperrealista per non sovrappormi alla discussione di un altro post). Ricordo quel bel passo in cui egli polemizza con il Neorealismo, osservando che per raccontare una sventagliata di mitra non basta nominare l’atto, essendo la realtà ben di più che qualche grammo di piombo fuso (cito a memoria, pardon). Ecco, se Gadda avesse del rapporto tra parola e realtà la fede ovvia dei realisti, o, anche, quella illuministica di un Calvino, avrebbe probabilmente scritto chiamando le cose con il loro nome. Invece, in una personalità angosciata come la sua, quel rapporto si è infranto ed egli è costretto a moltiplicare le parole e a farle esplodere per dire quello che altri nominano per vie molto più dirette. Insomma, sono convinto anch’io che non si debba enfatizzare troppo lo sperimentalismo stilistico gaddiano (almeno non considerarlo solo in sé e per sé) e che esso nasca da un intricato rapporto tra costituzione psichica, linguaggio, processi conoscitivi.
Su Gifuni. Assistito a uno spezzone del suo spettacolo su Gadda e Pasolini alla Fiera del libro di Torino. Altro che attore: un lettore e critico acutissimo. Ha riscritto Gadda e, senza parafrasarlo alla lettera, l’ha reso intero. Ho riso fino alle lacrime, proprio come mi capita con lo scrittore.
Ringrazio per i commenti, che ho letto con molto interesse.
@Valentino Baldi: con Baldi (e con Gigliola Sulis) condividiamo l’esperienza di insegnare la letteratura italiana fuori d’Italia. E sono anche per questo molto contento che siano intervenuti, che ci sia una possibilità di confronto. Personalmente, lavoro in un contesto linguisticamente stratificato: nella Svizzera francofona, ma con molti studenti italofoni (per esempio i ticinesi) e altri almeno di origine italiana. Il primo contatto con Gadda, forse anche al di là delle differenze di lingua madre, è stato per loro spiazzante, con casi di insofferenza prossimi alle lacrime di cui racconta Baldi! Partendo da “Giornale di guerra e di prigionia”, sia per la lingua che per la possibilità di riflessioni parallele sul contesto storico, le cose sono andate meglio. Anche nel mio caso si è trattato di un’ostinazione, di una scommessa: pur essendo stata ed essendo ancora la Svizzera terra di gaddisti laureati, l’autore era praticamente sconosciuto agli studenti.
Ha ragione Baldi sull’opportunità, anzi sulla necessità di annotare le opere di Gadda o almeno fornirle di un glossario. C’è il commento di Manzotti alla “Cognizione” naturalmente, sul “Pasticciaccio” credo che lo stesso Manzotti e altri stessero lavorando. Ma la questione, che condivido, è proprio quella di ‘democratizzare’ la possibilità di accesso, di lettura di Gadda. Quanto al cantiere filologico da poco riaperto per i tipi di Adelphi: per quel che riguarda l’Adalgisa, questa nuova edizione ricostruisce l’impianto originario del libro, diciamo pure del ‘macrotesto’ immaginato da Gadda; dunque forse aiuta anche a (ri)leggerne meglio l’impianto narrativo. Insomma, almeno in questo caso, mi pare che si vada oltre il ‘feticismo’ filologico, che – son d’accordo – non è quel che serve prioritariamente per leggere e insegnare Gadda agli studenti.
@Gigliola Sulis: innanzitutto, grazie per l’apprezzamento; anche a me è piaciuto moltissimo il pezzo su Atzeni. Gadda: certamente, la Gran Bretagna è davvero una terra d’elezione per lo studio e l’insegamento gaddiano, avrei potuto ricordarlo. Quanto alla ricezione degli studenti: non so, io ho avuto l’impressione che, superato lo shock linguistico, fossero catturati proprio dall’effetto di spiazzamento esistenziale, o dallo svelamento di una complessità conoscitiva. Mi piacerebbe approfondire la riflessione su questo punto, perché coinvolge direttamente le scelte didattiche, ma prima ancora il senso dell’insegnamento letterario.
@Daniele Lo Vetere: sì, Roscioni! È stato il primo studio gaddiano che lessi da studente (prima di leggere Contini, per dire) e credo di averne ricevuto come un imprinting. Condivido pienamente l’opinione su Gifuni: non ho visto dal vivo lo spettacolo, ma solo in DVD e l’ho trovato comunque impressionante.
L’Adalgisa fu il primo dei libri che lessi di Gadda. (poi fu una sorta di pantagruelica abbuffata gaddiana che durò mesi. Anni. Non leggevo praticamente altro). Ed è ancora il libro che ogni tot riapro e leggo (giusto: “leggo”, non “rileggo”) ad alta voce. una sorta di pietra miliare per me, quasi il metro lineare conservato a Parigi, col quale confrontare ogni misura scribatoria.
Anche io insegno, benché non all’università, e mi piacerebbe molto confrontarmi su scelte didattiche e senso dell’insegnamento letterario. Da precario però rimbalzo di qua e di là (ora sono alle medie) e non ho ancora un’esperienza personale di insegnamento di Gadda. Perciò non inizio io la discussione. Se però qualcuno dei commentatori avesse stimoli da fornire e altre esperienze da raccontare, lo leggerei con grande piacere. In ogni caso, parlare del mio scrittore preferito sarebbe comunque un piacere!
Ma vedere studenti che scoppiano in lacrime, che reagiscono con insofferenza davanti a un compito fuori dalla loro portata, non vi fa venire qualche dubbio? Amo profondamente Gadda, e non so se davanti a questo sadismo si sarebbe divertito, o avrebbe magari mollato qualche scudisciata ai professori che sfogano così le loro frustrazioni.