di Maria Anna Mariani

 

[E’ appena uscito per Il Mulino L’Italia e la bomba: letteratura nell’era nucleare, di Maria Anna Mariani. Quelle che seguono sono le prime pagine dell’introduzione].

 

UNA ZONA GRIGIA DELLA RESPONSABILITÀ

 

1. Kennedy all’Einaudi

È il 12 giugno 1963 e come ogni mercoledì i redattori della casa editrice Einaudi si riuniscono per discutere i libri da inserire in catalogo. Siedono al tavolo alcuni tra i più importanti intellettuali del Novecento: oltre a Italo Calvino e a Norberto Bobbio, sono presenti Franco Venturi, il più influente studioso dell’Illuminismo italiano; Raniero Panzieri, tra i fondatori dell’operaismo e traduttore di Marx; e Renato Solmi, allievo di Adorno e divulgatore in Italia della filosofia francofortese. Se di solito le decisioni editoriali vengono prese con rapidità e metodo, senza troppe divergenze d’opinione, stavolta gli animi sono fibrillanti e discordi. Parla Panzieri: propone di pubblicare all’istante un libretto di cento pagine sull’emergere di una nuova diplomazia nucleare americana. Il libretto avrebbe dovuto riprodurre per intero l’ultimo discorso di Kennedy, il Peace Speech del 10 giugno 1963, inneggiante alla fine dei test nucleari nell’atmosfera, al disarmo e al binomio pace & libertà[1]. Ma Solmi è contrario. Sulle dichiarazioni di Kennedy è scettico: «bisogna vedere dove ci sono delle realtà concrete. Bisogna non farsi delle illusioni e bisogna non assecondare queste illusioni». Meglio essere plumbei e addolorati, profeti di sventura, invece di abbracciare la virtù che non dispera mai. Al che Panzieri gli dà del catastrofista e lo accusa di paralizzare le forze della speranza. In molti gli fanno eco: «la speranza è una grande forza politica». Calvino pure si dice d’accordo nel pubblicare il libro, ma è più cauto e pragmatico: «sottolineare questo atteggiamento mi pare che sia utile. Io leggendo i giornali trasecolo a guardare quello che succede». Ma Solmi è inscalfibile: «io non curo il libro. […] Nel momento in cui per volontà di Kennedy si riarma atomicamente l’Italia, noi pubblichiamo un discorso di Kennedy sul disarmo. Questo secondo me è sbagliato». Altre voci si aggiungono, sempre più concitate. La riunione si dilata a dismisura, si sfibra negli obiettivi immediati e da discussione operativa diventa qualcos’altro: un dialogo filosofico sul rapporto tra politica, tecnologia e futuro[2].

 

Che una riunione Einaudi potesse deragliare in questo modo è fatto raro. Ma il momento più acceso deve ancora venire: è quando Venturi chiama in causa la posizione dell’Italia all’interno della guerra fredda e il suo ruolo nella strategia del disarmo: «l’Italia dovrebbe stare a parte, in mezzo ai due blocchi senza far niente, distaccata. Questa è la posizione giusta?» chiede polemico, rigurgitante sarcasmo. Gli sembra una posizione assurda. E assurdo gli sembra dunque il silenzio editoriale: «il silenzio non è una risposta a questi problemi»[3]. Bisogna fare qualcosa per orientare l’opinione pubblica, per condizionare l’immaginario del disarmo. L’Italia non può crogiolarsi come spettatrice passiva degli eventi, come pedina neutrale sullo scacchiere geopolitico.

No, l’Italia non può restare inerte a guardare. E se non può farlo – occorre qui aggiungere – è perché è storicamente implicata nella questione nucleare. È complice: nel profondo – anche se occupa una zona grigia della responsabilità.

 

2. Storia, geopolitica e letteratura

 

Che cosa significa vivere nell’era nucleare non come una superpotenza né come una vittima, ma come complici involontari e passivi? È con questa domanda che si apre L’Italia e la bomba. La posizione del paese è descritta da Primo Levi in un’intervista del 1987, durante gli ultimi logorii della guerra fredda: «il pacifismo è ormai accettato dalla quasi totalità della popolazione, […] tuttavia alberghiamo spaventosi arsenali nella speranza (non so quanto fondata) di non doverli usare mai. Siamo quindi inseriti in un mondo che prepara la guerra, e che, per adesso lontano dall’Europa, la sta quotidianamente praticando»[4].

 

            Primo Levi è chiaro: il tratto fondamentale della politica nucleare italiana è l’ambiguità. A differenza di altri paesi europei, come la Francia e l’Inghilterra, l’Italia non possiede un proprio arsenale nucleare[5]. E però il suo suolo ospita centinaia di armi atomiche americane, al punto che negli anni Sessanta la nazione – stanziando i missili Jupiter che erano in grado di colpire direttamente l’Unione Sovietica – era una vera e propria frontiera della guerra fredda. L’ambivalenza geopolitica dell’Italia sulla scena nucleare globale la rende una complice; anche se si tratta di una complice per molti versi passiva[6].

 

Questa condizione di turbata complicità si amplifica se pensiamo alla responsabilità storica del paese nello sviluppo della tecnologia nucleare. I primi esperimenti per la scissione dell’atomo avvennero proprio in Italia, in un laboratorio di una stradina laterale del quartiere Monti di Roma, via Panisperna: era qui che lavoravano Enrico Fermi e la sua cerchia di giovani collaboratori, in parte ebrei. Quando Fermi e i suoi colleghi emigrarono negli Stati Uniti per scampare alle leggi razziali, l’Italia arretrò inesorabilmente in campo scientifico, diventando una presenza subalterna[7]. Ma è nel gruppo di Via Panisperna che l’era atomica affonda le sue radici: il coinvolgimento della nazione nel percorso che portò alla tecnologia funesta è vistoso; anche se si tratta di una responsabilità indiretta. Gli italiani rimasero tra i principali creatori dell’atomica, ma non in Italia. Fu nel campus dell’università di Chicago che Fermi realizzò in gran segreto la prima reazione nucleare a catena autoalimentata: la prova generale della bomba. In un saggio del 1954 Hannah Arendt già osservava con sgomento il fatto che l’Europa, fintamente innocente, considerasse il problema nucleare come un affare di politica estera, quando invece il ruolo degli scienziati europei, e soprattutto italiani, era stato decisivo per l’ideazione dell’atomica[8].

 

 Ci troviamo dunque di fronte a una nazione profondamente implicata in un evento ma resa del tutto impotente di fronte ai suoi sviluppi. Questo è un problema geopolitico, ma non solo. Colpisce osservare – l’abbiamo fatto in apertura leggendo il verbale di una riunione Einaudi – come la classe intellettuale italiana dell’epoca dibattesse con animosità la posizione del paese durante la guerra fredda. Tra poco, introducendo Carlo Cassola, verificheremo un’altra occorrenza di quanto il ruolo dell’Italia desse pensiero al mondo culturale di quegli anni. Non mi sembra affatto un caso che l’ambigua mistura di connivenza e marginalità della nazione preoccupasse tanto gli intellettuali italiani. Si potrebbe dire che dentro quella miscela loro fossero invischiati due volte: sia in quanto cittadini consapevoli al massimo grado, sia in quanto intellettuali – e dunque costitutivamente marchiati dalla complicità con un sistema di potere e dalla radicale irrilevanza sul piano decisionale.

 

La consapevolezza di essere soggetti implicati nella scena nucleare mondiale pervade le opere dei maggiori intellettuali italiani dell’epoca: Italo Calvino, Elsa Morante, Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini e Leonardo Sciascia. Consci della propria marginalità, ma decisi a contrastarla, questi autori affrontano la questione atomica attraverso un’ampia gamma di forme sperimentali, che si accostano all’enormità metafisica del tema in modo spesso allusivo e obliquo. Generalmente liquidate come disimpegnate, deboli, o addirittura giocose, queste opere reclamano invece una lettura politica, che riconosca il loro incessante confronto con i paradossi dell’era nucleare. Attraverso l’analisi dettagliata di queste opere, L’Italia e la bomba ripensa il ruolo dell’intellettuale di fronte alla morte di massa.

 

3. Poetica del bystander

 

No such thing 

as innocent

bystanding. 

 

Sono tre versi di Seamus Heaney, cristallizzati in aforisma dopo il prelievo dal loro contesto originario, Mycenae Lookout, una poesia che convoca la Grecia antica e l’Irlanda moderna su uno stesso sfondo di tragedia[9]. Sono versi che inquietano la condizione di bystander: di chi osserva un evento mentre accade, ma non vi prende parte in maniera attiva (in italiano siamo soliti rendere bystander con “spettatore”, ma è una traduzione carente e ambigua). Passività e innocenza non sono sinonimi, ci dice Seamus Heaney: esiste una responsabilità vicaria per azioni che non si sono commesse. Più di recente lo storico Michael Rothberg, pur non citando questi versi, ha denunciato l’astrazione concettuale della nozione di bystander come soggetto non coinvolto: nella maggior parte dei casi si tratta invece di una posizione moralmente compromessa, anche se non criminalmente colpevole[10].

 

L’Italia nell’era nucleare occupa una posizione di torbida bystander: di nazione coinvolta nel profondo in eventi di cui non è direttamente responsabile. Non è direttamente responsabile di Hiroshima e Nagasaki. Non è direttamente responsabile della corsa agli armamenti. La si può dunque definire innocente? No, come abbiamo visto: per via della sua implicazione storica e del suo posizionamento geopolitico[11].

Eppure la tentazione di ritrarla come una spettatrice passiva di quel che accade è stata a volte irresistibile[12]. Prendiamo Carlo Cassola, uno degli scrittori italiani più impegnati per il disarmo, al punto da aver consacrato l’ultimo segmento della propria traiettoria intellettuale alla campagna antinucleare e all’ideazione di opere a tema atomico – simile in questo, come vedremo, a Moravia[13]. Nel 1980 Cassola pubblica Contro le armi, un saggio tutto incentrato sull’analisi della posizione italiana nella guerra fredda. Per Cassola, quella dell’Italia è essenzialmente la condizione di una spettatrice: una spettatrice che davanti al televisore assiste placida all’evolversi dei rapporti tra le due superpotenze. Si tratta di una passività inaccettabile. E dunque, con un sussulto d’orgoglio patriottico, Cassola propone di ribaltarla in azione.

Dobbiamo assistere passivamente alla tragedia? È proprio vero che non si possa far niente, che si debba stare a guardare quello che fanno gli altri? La rassegnazione, la frustrazione, il senso d’impotenza che sono così diffusi, sono davvero giustificati dalla situazione? Non sono giustificati affatto. Bisogna scuoterceli di dosso al più presto. Non è vero che non si possa far niente. Siamo piccoli, questo è vero, ma possiamo diventare grandi (grandi moralmente). «Parva favilla gran fiamma seconda», dice Dante, cioè dal piccolo può nascere il grande[14].

Lo scrittore sigilla il proprio appello all’azione con un verso dantesco che vale sia per il suo significato letterale, sia perché evoca il patrimonio culturale italiano come garanzia di rispettabilità sul piano internazionale. Nelle parole di Cassola, l’Italia appare turgida di potenziale. Per ora è una fiacca bystander, ma ha solo bisogno di essere strattonata dal suo ruolo di osservatrice per «dare inizio all’inversione di tendenza assolutamente necessaria per salvare l’umanità»[15].

Il presupposto del ragionamento di Cassola è che il riscatto dalla marginalità geopolitica proceda di pari passo con il riscatto dalla marginalità intellettuale. Sarà l’intellettuale a indicare la via della rivalsa: disincagliando sé stesso e il proprio paese dal magma dell’insignificanza, fino «a ridiventare il faro delle genti»[16].

 

Come vedremo, la fiducia di Cassola nella prospettiva che l’intellettuale possa convertire la nazione da presenza che ottusamente sta a guardare a benefattrice della biosfera non è condivisa dagli altri scrittori italiani protagonisti di questo libro. Tra di loro, sarà soprattutto Moravia a insistere al contrario sull’inutilità dell’azione – anche se non rinuncerà a mobilitare forme di impegno. Inoltre, se Cassola si lamenta solo della passività del bystander, ci sarà invece chi, come Morante, mostrerà quanta connivenza sia insita in questa condizione: nonostante la sua marginalità, l’Italia è piena corresponsabile della bomba atomica.

Quel che mi preme ribadire a questo punto è la simmetria tra l’irrilevanza e la complicità del paese e l’irrilevanza e la complicità dell’intellettuale: fondata su una simile ambigua mescolanza, quella del bystander è una categoria al tempo stesso geopolitica e letteraria.

 

4. Che forma ha l’impegno?

 

La centralità del problema atomico nel dibattito e nelle opere degli scrittori italiani del dopoguerra rende urgente un riesame del loro ruolo politico. Tra di loro sbalza in primo piano Calvino, identificato da più parti come l’emblema del postmoderno italiano, che porta su di sé lo stigma di modo narrativo ludico, vacuo e disimpegnato. Tra gli obiettivi di questo libro c’è anche quello di scardinare una visione così ossificata e univoca del postmoderno nostrano. Occorre mostrare invece quanto sia legato alla simulazione del deterrente e all’atmosfera di sospensione catastrofica della guerra fredda, e come sia capace di allertare in modo critico la coscienza del pubblico. Impegno e postmoderno non sono due termini antitetici.

 

L’impegno intellettuale può manifestarsi anche nelle forme più oblique e inaspettate, come il romanzo voyeuristico-pornografico di Moravia, L’uomo che guarda (1985), che l’autore imposta come un’allegoria della scienza ansiosa di penetrare il mistero della natura; o come la fantascienza, che proprio tra le mani di Calvino, nelle Cosmicomiche (1965), diventa un mezzo per interrogarsi sulla possibilità di narrare un mondo senza uomo, abitato invece da un soggetto rarefatto, con un’impronunciabile formula matematica per nome: Qfwfq. Accanto a queste forme anticonvenzionali di impegno compaiono nel libro anche quelle più immediatamente riconoscibili, come La Storia (1974), il romanzo realista che Morante dedica alle vittime della storia, identificate con le «cavie» di Hiroshima che non sanno il perché della loro morte; o come La scomparsa di Majorana (1975), la bruciante inchiesta letteraria dove Sciascia si mette sulle tracce di Ettore Majorana, il fisico della scuola di Fermi che intravide la devastazione dell’atomica e poi sparì dentro una cappa di mistero, per dissociarsi così dalle conquiste infauste della scienza. Un’ulteriore modalità di intervento intellettuale che questo libro rintraccia è il film-saggio La rabbia (1963), dove Pasolini rimescola il «materiale immondo» della cronaca scovato nei cinegiornali, avvicinando con montaggio ardito la chioma di Marilyn Monroe e l’effervescenza atmosferica del fungo atomico: due icone che i media riproducono all’infinito, fino a svuotarle completamente di sostanza.

 

L’impatto della questione nucleare diventa così un filtro per rileggere alcuni autori centrali del Novecento, accostando opere che non sono mai state considerate come una costellazione e che presentano invece numerose e lampanti somiglianze formali: l’uso critico degli stilemi del giornalismo, la demistificazione del racconto storico e l’insistito ricorso alla tecnica dello straniamento, che inceppa il godimento rilassato delle opere. Si tratta, vedremo, di caratteristiche tutte legate all’elaborazione del problema atomico come tema letterario o cinematografico. La crisi di coscienza sul proprio mandato che agita questi artisti negli anni della guerra fredda – e che nel caso di Moravia diventa addirittura una “conversione alla politica” – stringe le loro opere in dialogo o le fa stridere di polemica.

 

L’Italia e la bomba permette poi di sottrarre questi autori dalla nicchia nazionale in cui sono spesso stati relegati. Le domande che si inarcano dalle loro opere entrano in risonanza con quelle sollevate negli stessi anni da intellettuali di primo piano come Günther Anders, Hannah Arendt, Elias Canetti, Jacques Derrida, Hans Jonas. Domande come: in che modo distoglierci dal fare quello che sappiamo fare? Cosa vuol dire rendersi conto che l’umanità intera è eliminabile: che non siamo più individui ma solo membri della specie? Come ampliare l’orizzonte spaziale e temporale della propria responsabilità? E quale voce, quale punto di vista, quale temporalità è opportuno scegliere per rappresentare tutto questo: il mondo alla fine della storia?

 

Note

[1] John F. Kennedy’s Peace Speech, 10 giugno 1963 (https://www.youtube.com/watch?v=0fkKnfk4k40).

[2] È un rapporto che nel secondo dopoguerra tre filosofi tedeschi hanno declinato secondo atteggiamenti emotivi differenti: Ernst Bloch ha proposto di accostarvisi tramite la speranza, Günther Anders con la disperazione e Hans Jonas con la responsabilità. Leggendo il verbale della riunione Einaudi, sembra che Panzieri incarni un nostrano principio-speranza rivolto con fiducia verso il cambiamento annunciato; che Solmi gli si contrapponga, tetro, agitando il principio-disperazione e l’angoscia come unico antidoto alle false promesse dei politici; e che Calvino si collochi in modo equidistante tra i due estremi, rimodulando con saggezza il principio responsabilità: impugnando quel minimo filamento di speranza che contrasta l’ottundimento di fronte a un problema insormontabile, e che serve all’azione. Cfr. Ernst Bloch, Il principio speranza (1954), trad. Enrico De Angelis, Teresa Cavallo, Milano, Garzanti, 1994; Günther Anders, L’uomo è antiquato (1956), trad. Laura Dallapiccola, Torino, Bollati Boringhieri, 2007; Hans Jonas, Il principio responsabilità (1979), trad. Paola Rinaudo, Torino, Einaudi, 2009.

[3] Le citazioni della riunione sono tratte da Tommaso Munari (a cura di), I verbali del mercoledì. Riunioni editoriali Einaudi 1953-1963, Torino, Einaudi, 2013, pp. 775-780.

[4] Primo Levi, Il sinistro potere della scienza, in Conversazioni e interviste, a cura di Marco Belpoliti, Torino, Einaudi, 2018, p. 663.

[5] Subito dopo la fine della seconda guerra mondiale l’Italia non poteva dotarsi di una propria arma nucleare: glielo impediva il trattato di pace. Ma il 21 dicembre 1951, grazie a una revisione consensuale delle clausole del trattato, i governi americano, inglese e francese abrogarono per il paese la restrizione formale a possedere armi nucleari. Cfr. Paolo Cacace, L’atomica europea: I progetti della guerra fredda, il ruolo dell’Italia, le domande del futuro, Roma, Fazi, 2004; e Leopoldo Nuti, La sfida nucleare. La politica estera italiana e le armi atomiche 1945-1991, Bologna, Il Mulino, 2007.

[6] La passività è un esito del processo geopolitico, a cui si giunge malgrado le intenzioni della classe dirigente. Ripercorrendo le strategie dei governi italiani nel secondo dopoguerra, quel che risalta è invece la ricerca di uno status nucleare attivo, che avrebbe garantito al paese prestigio nazionale e parità rispetto agli altri stati europei. Le ricerche di Leopoldo Nuti hanno ricostruito i vari tentativi italiani di approdare a uno status nucleare, come il progetto, a metà degli anni Cinquanta, di un’alleanza con Francia e Germania per la costruzione di un’arma atomica europea. Particolarmente sintomatico è il lunghissimo e accidentato processo intercorso tra la firma (1969) e la ratifica (1975) del trattato di non proliferazione nucleare. A slabbrare i tempi della ratifica ci fu il diffuso timore che la rinuncia definitiva all’arma atomica avrebbe compromesso il ruolo dell’Italia sullo scenario geopolitico globale. Cfr. Leopoldo Nuti, «A Turning Point in Postwar Foreign Policy»: Italy and the NPT Negotiations, 1967-1969, in Roland Popp, Liviu Horovitz e Andreas Wegner (a cura di), Negotiating the Nuclear Non-Proliferation Treaty. Origins of the Nuclear Order, London-New York, Routledge, 2016, pp. 75-96; Leopoldo Nuti, Italy as a Hedging State? The Problematic Ratification of the Non-Proliferation Treaty, in Elisabetta Bini e Igor Londero (a cura di), Nuclear Italy. An International History of Italian Nuclear Policies during the Cold War, Trieste, EUT Edizioni Università di Trieste, 2017, pp. 119-139. Occorre infine ricordare che l’opinione pubblica era in gran parte ignara delle manovre politiche e militari nazionali (i missili Jupiter, per esempio, furono stanziati cercando di dare all’operazione la minore visibilità possibile). L’importanza e la pressione dell’opinione pubblica diventarono molto più rilevanti negli anni Settanta e Ottanta, in coincidenza con la diffusione dei movimenti antinucleari, mentre nelle fasi decisive delle scelte di stanziamento (gli anni Cinquanta) il governo italiano aveva una notevole libertà di manovra. In ogni caso, come osserva Laura Ciglioni, l’Italia è «il paese in cui con più chiarezza si delinea una sostanziale discrepanza tra le aspirazioni di settori importanti delle classi dirigenti, determinate a ottenere per il paese una garanzia di status internazionale attraverso il nucleare, e i desideri e gli atteggiamenti della gran parte del pubblico, non solo propenso a percepire la penisola non come una protagonista della Guerra Fredda, ma fortemente avverso alle armi nucleari» (Laura Ciglioni, Culture atomiche. Gli Stati Uniti, la Francia e l’Italia di fronte alla questione nucleare (1962-1968), Roma, Carocci, 2020, p. 385). Cfr. anche Renato Moro, I movimenti nucleari dagli anni Quaranta agli anni Sessanta, in Emilia Fiandra e Leopoldo Nuti (a cura di), L’atomica: scienza, cultura, politica, Milano, Franco Angeli, 2014, pp. 95-141; Renato Moro, Against Euromissiles: Anti-nuclear Movements in 1980s Italy (1979-1984), in Bini e Londero (a cura di), Nuclear Italy, cit., pp. 199-211.

[7] Il mancato ritorno di Fermi in Italia dopo il conferimento del Nobel nel 1938 provoca una frattura nella storia della ricerca scientifica italiana, fino a quel momento assoluta avanguardia nella fisica nucleare. Il fisico più importante nell’Italia del dopoguerra è Edoardo Amaldi, uno degli ex colleghi di Fermi. Nonostante gli fosse stata offerta una cattedra in fisica alla University of Chicago, Amaldi decise di restare nella patria disastrata e impegnarsi per la ricostruzione delle pratiche di ricerca a Roma. A motivare la sua scelta fu decisivo un colloquio con Fermi nel 1946. Confrontandosi con il collega, Amaldi era rimasto molto turbato dal segreto militare che gravava sulla ricerca scientifica negli Stati Uniti: era intollerabile per lui. Uno dei suoi obiettivi principali, in Italia, fu dunque di svincolare la ricerca dai fini militari, rendendola completamente trasparente e condivisa. Sulla figura di Amaldi è fondamentale la monografia di Lodovica Clavarino, Scienza e politica nell’era nucleare. La scelta pacifista di Edoardo Amaldi, Roma, Carocci, 2014.

[8] Hannah Arendt, Europe and the Atom Bomb (pubblicato su «The Commonweal» il 17 settembre 1954), ora in Essays in Understanding: 1930-1954, New York-San Diego-London, Harcourt Brace & Company, 1994, pp. 418-422.

[9] Seamus Heaney, Mycenae Lookout, in The Spirit Level: Poems, New York, Farrar, Strauss and Giroux, 1996, p. 36. La traduzione italiana potrebbe essere resa così: «Non esiste spettatore innocente».

[10] Michael Rothberg, The Implicated Subject: Beyond Victims and Perpetrators, Stanford, Stanford University Press, 2019.

[11] Ci tengo a precisare che il concetto di responsabilità che invoco è collettivo: storico e politico. Non va confuso con modelli giuridici e individualistici.

[12] Spettatrice passiva; o addirittura vittima: diffusa nell’opinione pubblica era proprio «l’autorappresentazione della penisola […] come vittima piuttosto che come protagonista della Guerra Fredda» (Ciglioni, Culture atomiche, cit., p. 384).

[13] La “trilogia atomica” di Carlo Cassola comprende i romanzi Il superstite, Milano, Rizzoli, 1978; Ferragosto di morte, Reggio Emilia, Editrice Ciminiera, 1980; Il mondo senza nessuno, Reggio Emilia, Editrice Ciminiera, 1982. Per un’analisi della trilogia rinvio alla coda che chiude il libro.

[14] Carlo Cassola, Contro le armi, Reggio Emilia, Editrice Ciminiera, 1980, p. 97.

[15] Ibidem, p. 99.

[16] Ibidem, p. 18.

 

[Immagine: fotogramma da Pier Paolo Pasolini, La rabbia].

 

 

 

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