di Helen Pluckrose, James A. Lindsay, Peter Boghossian
traduzione italiana a cura di Mimmo Cangiano, Alberto Comparini, Guido Mattia Gallerani
[La versione originale è stata pubblicata sulla rivista Areo, e si può leggere qui.
Quando alcune settimane fa questo articolo è stato pubblicato sulla rivista Areo ne siamo stati entusiasti. Due di noi hanno studiato negli Stati Uniti, e l’inganno che è al centro del saggio ci confortava in un’idea che sosteniamo da anni: esiste in alcuni settori dell’accademia anglofona – prevalentemente in ambito umanistico – un sistema di controllo ideologico che veicola le direzioni della ricerca; esiste, vogliamo dire, una macchina del consenso che costringe alla subalternità le posizioni dei ricercatori (di sinistra come di destra) non allineati a ciò che qui viene definito come “studi del risentimento”. Diremo di più: mentre i ricercatori di destra, spesso supportati da fondi esterni all’accademia, hanno comunque i loro spazi per formulare una contro-ideologia, quelli di sinistra si ritrovano schiacciati fra l’egemonia in questione e il rischio di essere apparentati con quelle posizioni destrorse che certo non condividono.
Un altro elemento del saggio che ci è piaciuto è che, a differenza del vecchio Affare Sokal, qui il proposito non è ridicolizzare la cultura umanistica dichiarandone la nullità rispetto alle scienze dure, ma esporre la vacuità di una cultura di ricerca che non si sostiene su rigore, intelligenza, creatività, ma esclusivamente sulla ripetizione di formule facili, accettate in quanto allineate ad alcune direttive ideologiche. E siamo certi che molti degli studiosi impegnati in questi pseudo-studi non ci credono fino in fondo, ma vi si adattano per quieto vivere, per sfruttarli come ascensore sociale, per stare in maggioranza. Qualcosa del genere era del resto già accaduto, negli anni ’50-’80, proprio rispetto a quella cultura marxista classica che noi continuiamo a sostenere, quella stessa cultura che ha da tempo spiegato quale potenza il consenso rappresenti. Va da sé che ogni campo di ricerca si muove in un sistema di potere ben definito, il cui linguaggio, spesso, genera strutture rigide e talvolta impermeabili; nei casi qui proposti, però, all’ideologia della ricerca accademica si è sostituita un’agenda politica, se così si può definire, priva di finalità scientifiche.
Siamo preoccupati? Certo lo siamo. Comprendiamo benissimo come le argomentazioni dell’articolo possano offrire il fianco a una cultura di destra impegnata a delegittimare l’accademia, la ricerca, gli studi finalizzati a sviluppare una maggiore equità sociale. E certo non possiamo essere d’accordo con l’articolo in ogni sua parte: in particolare la sezione sulla verità oggettiva e sulla a-ideologia della scienza non ci ha convinto per niente.
D’altro canto abbiamo trovato ridicolo l’immediato fare quadrato degli accademici contro questo articolo. Un’istituzione che accetta di pubblicare 7 saggi chiaramente artefatti nella loro assurdità, dovrebbe avere il buon gusto di cominciare una severa autocritica, invece di accusare di disonestà (o addirittura di creazione para-trumpiana di fake news), come accaduto, chi l’ha così facilmente raggirata.
In ultimo, se abbiamo tradotto questo articolo è perché crediamo alla possibilità di una funzione politica dell’università, e pensiamo che la direzione presa dagli “studi del risentimento” non sia quella giusta, ma sia anzi una via che produce scollamento fra accademia e opinione pubblica, creando una cultura rigidamente moralistica, e meramente finalizzata, nel suo furore etico, a una reprimenda puritana non interessata a socializzarsi sul piano del vero consenso: non quello chiuso nei corridoi universitari, ma quello che si manifesta al momento del voto. Al ricatto “se non sei con noi sei di destra” non ci stiamo, anche perché la cultura del risentimento non ha più nulla di sinistra. È solo un regolamento di conti fra gang della classe media.
(Mimmo Cangiano, Alberto Comparini, Guido Mattia Gallerani)]
Prima parte: Introduzione
Qualcosa è andato storto all’università – specialmente in alcuni campi di studio umanistici. La ricerca non si basa più sul trovare la verità, ma sul partecipare a quel risentimento sociale che, in tali campi, è ormai dominante. Gli studiosi sempre più bullizzano studenti, personale amministrativo e membri di altri dipartimenti al fine di farli aderire alla loro visione del mondo. Tale visione non è scientifica né è perseguita con metodi rigorosi. Molti hanno segnalato tale problema, ma è mancata finora una seria ricerca che portasse le prove di quanto sta accadendo. Per tale ragione noi tre abbiamo deciso di lavorare per un anno all’interno del campo scientifico in questione, analizzato quale parte intrinseca del problema.
Abbiamo impiegato questo tempo per scrivere articoli accademici e per pubblicarli in riviste, a revisione paritaria, associate con i campi di ricerca che vanno sotto il nome di “cultural studies”, “studi identitari” (per esempio i gender studies), “critical theory”, tutti campi correlati a quella interpretazione postmoderna della ‘teoria’ emersa a partire dagli anni ’60. Abbiamo deciso di definire questi campi quali “studi del risentimento” a causa del loro obiettivo comune di problematizzare aspetti culturali minuti al fine di diagnosticare gli squilibri di potere e i meccanismi oppressivi correlati alle varie identità.
[…] Dal momento che una franca discussione su temi identitari quali il genere, la razza e la sessualità (e sulla ricerca articolata su questi temi) è quasi impossibile, il nostro obiettivo è proprio quello di far ripartire il dialogo. Speriamo che ciò dia alle persone – in particolare a quelle interessate alla liberalità, al progresso, alla modernità, alla ricerca aperta, alla giustizia sociale – una visione chiara riguardo alla follia identitaria che emerge dall’accademia e dall’attivismo di sinistra, e faccia loro dire: “No, non vi seguirò. Voi non parlate in mio nome”.
Questo articolo include i primi risultati del progetto e rappresenta il tentativo iniziale di comprendere il significato dei dati rilevati. A causa della sua lunghezza e del suo essere estremamente dettagliato, proporremo, prima, le informazioni fattuali, e solo in seguito la spiegazione di queste, seguendo tale schema:
° Metodologia, che è centrale per la dimostrazione delle nostre tesi
° Un riassunto del progetto dalla sua ideazione alla sua necessità di diventare pubblico
° Una spiegazione del perché l’abbiamo fatto
° Un sommario del problema in questione e della sua importanza
° Una chiara spiegazione del progetto e della sua formazione
° I risultati del nostro studio, includendovi la lista degli articoli presentati, la decisione delle varie commissioni su questi, i commenti rilevanti dei revisori
° Una discussione sul significato dei risultati ottenuti
° Un sommario del lavoro che ancora si potrebbe fare
Seconda parte: Metodi
Il nostro approccio può essere inteso come una tipologia di etnografia riflessiva. Significa che abbiamo condotto uno studio particolareggiato della cultura universitaria immergendoci all’interno di questa, riflettendo sui dati ottenuti e modificando la nostra comprensione del problema.
Il nostro obiettivo era comprendere questa cultura fino a diventarne esperti linguisticamente e metodologicamente, pubblicando poi articoli a revisione paritaria all’interno di quelle riviste in cui, solitamente, solo gli esperti del particolare campo di ricerca sono in grado di pubblicare. Dal momento che abbiamo concettualizzato questo progetto come etnografia riflessiva, cercando di comprendere il campo e il modo di prender parte a questo, capire come rendere accettabili le assurde tesi che abbiamo presentato negli articoli risultava fondamentale. I commenti dei revisori, infatti, sono spesso più rivelatori dello stato della ricerca del fatto stesso che gli articoli siano stati accettati.
Mentre tutti i nostri saggi sono stravaganti o intenzionalmente fallaci in modi differenti, è importante capire che essi si adattano quasi perfettamente al tono e ai contenuti di altri articoli pertinenti alle discipline qui analizzate. Al fine di dimostrare la nostra tesi avevamo infatti bisogno che gli articoli fossero accettati specialmente da riviste importanti e influenti. […] Avevamo anche bisogno di scrivere saggi che si prendessero il rischio di testare ipotesi tali da rendere la loro pubblicazione immediatamente una spia del problema da noi studiato (si veda in seguito la sezione Articoli). Di conseguenza, e benché i nostri articoli manchino decisamente di rigore, abbiamo sempre mantenuto identica un’importante variabile: la metodologia utilizzata per scrivere ogni articolo.
[…] ogni articolo è cominciato manifestando preoccupazioni, epistemologiche o etiche, riguardo lo stato del campo di ricerca, ed è continuato suggerendo come sanare i problemi correlati allo stato della ricerca stessa. L’obiettivo è stato sempre quello di usare la letteratura esistente in modo da rendere accettabile, al più alto livello di rispettabilità intellettuale del campo di ricerca, ogni follia o insensatezza. Ogni articolo è cominciato affermando qualcosa di assurdo o di fortemente immorale (o entrambe le cose) che noi eravamo interessati a sviluppare e chiarire. Abbiamo poi lasciato alla letteratura esistente sul tema il compito di farci accettare nel corrente canone accademico.
Questo è il punto centrale del progetto: ciò che negli articoli descriviamo non è produzione di conoscenza; è mera sofistica. […] La differenza maggiore fra noi e il tipo di ricerca che stiamo studiando attraverso l’emulazione, è che noi sappiamo che stiamo inventando.
[…] Cosa sarebbe successo scrivendo un articolo sostenendo la necessità di addestrare gli uomini come cani al fine di evitare la cultura dello stupro? Ecco il saggio “Dog Park”. Cosa scrivendo un articolo affermando che quando un ragazzo si masturba privatamente pensando a una donna (senza il consenso di lei e senza che lei lo scopra mai) l’atto rappresenta una violenza sessuale nei suoi confronti? Ecco il saggio “Masturbation”. Cosa affermando che la super-intelligenza artificiale sia potenzialmente pericolosa perché programmata, seguendo il Frankenstein di Mary Shelley e la psicoanalisi lacaniana, per essere maschilista e imperialista? Ecco “Feminist AI”. Cosa affermando che il corpo di una “persona obesa sia legittimamente costruito” come base per introdurre il bodybuilding per ciccioni quale categoria sportiva e professionale del bodybuilding tout court? Potete ora leggerlo in Fat Studies.
In altri casi abbiamo perlustrato gli “studi del risentimento” letterari per analizzare la questione a monte e per sottolinearne i problemi. Glaciologia femminista? Ok, scriveremo un articolo di astronomia femminista sostenendo che l’astrologia queer dovrebbe essere considerata parte della scienza astronomica, la quale va etichettata come intrinsecamente sessista. I revisori erano entusiasti dell’idea. Usare un metodo di analisi tematica al fine di favorire un certo tipo di interpretazione dei dati? Bene abbiamo scritto un articolo circa i transessuali sul luogo di lavoro che serve allo scopo. Gli uomini creano un ambiente prettamente maschile per mettere in atto discorsi di un morente machismo che in una società allargata non sarebbero accettati? Nessun problema. Abbiamo pubblicato un saggio riassunto come “A gender scholar goes to Hooters to try to figure out why it exists”. […] Il nostro articolo “Dildos” risponde alle domande “Perché gli uomini eterosessuali rifiutano di masturbarsi mediante le penetrazioni anali, e cosa potrebbe succedere se lo facessero?”. Indizio: secondo il nostro articolo pubblicato in Sexuality and Culture, rivista leader del settore, sarebbero meno transfobici e più femministi.
Abbiamo usato anche altri metodi, come il “mi chiedo se il progressive stack[1] di cui leggiamo sui giornali possa essere utilizzato in un saggio che sostiene la necessità di togliere la parola agli uomini bianchi nelle università, e, per sicurezza, la possibilità di chiedere loro di restare seduti a terra in catene per ‘esprimere il loro bisogno di riparare al male commesso’”? Questo era il nostro saggio “Progressive Stack”. La risposta sembra di sì, la famosa rivista femminista Hypatia ha accolto le nostre idee con trasporto. Un altro momento per noi difficile è stato “Mi chiedo se una rivista femminista pubblicherebbe una riscrittura di un capitolo del Mein Kampf di Hitler”. Anche in questo caso la risposta è sì, dal momento che la rivista Affilia lo ha appena accettato. Andando avanti abbiamo cominciato a capire che praticamente ogni cosa poteva funzionare finché rientrasse all’interno dell’ortodossia morale e dimostrasse la conoscenza della letteratura esistente.
Detta in un altro modo, abbiamo ora abbiamo buone ragioni per credere che, appropriandosi degli studi esistenti nel modo corretto (e c’è sempre una citazione o un modo per farlo) si possa dire ogni cosa, politicamente alla moda, che si desideri. In ogni caso la domanda che emerge è questa: cosa abbiamo bisogno di scrivere, e cosa abbiamo bisogno di citare (tutte le citazioni da noi usate sono reali), per far diventare questa follia accademica una ricerca pubblicata ai più alti livelli?
Cosa abbiamo fatto?
Abbiamo scritto e inviato venti articoli alle migliori riviste nei vari campi […] ottenendo un notevole successo, anche se abbiamo dovuto far diventare il progetto prematuramente pubblico interrompendo così la ricerca prima della sua naturale conclusione. A questa altezza temporale abbiamo:
° 7 articoli accettati
[…]
° 7 articoli sotto revisione che ora dobbiamo fermare
2 “corretti e posti nuovamente a revisione” e in attesa di una risposta. (E’ piuttosto raro per un articolo essere accettato al primo tentativo )
1 ancora in attesa della prima revisione
su 4 non abbiamo avuto il tempo di tornare dopo il rifiuto della rivista o la richiesta di correzioni
° 6 ritirati come non pubblicabili
° 4 inviti, alla luce della nostra eccezionale competenza, per revisionare articoli altrui (per ragioni etiche abbiamo declinato. Ci sarebbe piaciuto molto partecipare pienamente a questa dominante culturale, sarebbe stato un’opportunità impareggiabile per dimostrare come questi campi di ricerca siano falsati perché, almeno parzialmente, il processo di revisione paritaria incoraggia i preconcetti politici e ideologici esistenti).
° 1 articolo (quello sulla cultura dello stupro nei cani al parco) ha ottenuto un riconoscimento speciale da Gender, Place, and Culture, una rivista ben considerata e leader incontrastata nel campo della geografia femminista. Il giornale, come parte delle celebrazioni per il suo 25° anniversario, ha premiato l’articolo come uno dei 12 saggi migliori nel campo.
Riassumendo: abbiamo impiegato 10 mesi per scrivere gli articoli, strutturando un nuovo articolo più o meno ogni 13 giorni (solitamente la pubblicazione di 7 articoli è considerata sufficiente ad ottenere l’Associatura nelle università più importanti, sebbene le regole varino da istituzione a istituzione). 80% dei nostri articoli sono arrivati alla fase di revisione paritaria, solo il 20% è stato immediatamente rifiutato senza revisione. Dopo alcuni mesi di pratica e esperimenti con articoli fasulli, abbiamo migliorato la nostra performance dallo 0% al 94,4%. […]
[…] I saggi si muovono fra almeno 15 sotto-campi di ricerca negli studi del risentimento, e includono femminismo, studi di genere, studi sulla mascolinità, queer, studi sulla sessualità, psicoanalisi, teoria critica della razza, teoria critica della whiteness, fat studies, sociologia e filosofia educativa. […] I saggi hanno anche provato ad essere umoristici in almeno alcuni aspetti minori. Il progetto ha finora generato oltre 40 articoli e valutazioni di esperti, circa 30,000 parole che vanno ad aggiungersi al conteggio precedente e ai dati ottenuti che forniscono una prospettiva unica e “interna” del campo di ricerca e dei suoi modi operativi.
I nostri articoli presentano una metodologia grossolana, incluso alcune statistiche non plausibili (“Dog Park”), affermazioni non supportate da dati (“CisNorm”, “Hooters”, “Dildos”), e analisi qualitative motivate ideologicamente (“CisNorm”, “Porn”). Sono stato utilizzate alcune dubbie metodologie quantitative, come l’indagine poetica e l’auto-etnografia […].
Alcuni articoli propugnavano dubbie questioni etiche quali l’addestramento di uomini come cani (“Dog Park”), la necessità di punire gli studenti bianchi maschi per la schiavitù, chiedendo loro di sedere in silenzio e incatenati sul pavimento durante la lezione per imparare dal disagio (“Progressive Stack”) […]. C’era anche un certo considerevole tasso di stupidità nel pretendere di aver educatamente analizzato i genitali di quasi 10,000 cani mentre si interrogavano i proprietari sulla loro sessualità. Abbiamo insistito sulla possibilità di imparare qualcosa sul femminismo nel mettere quattro ragazzi a guardare migliaia di ore di pornografia spinta, mentre gli stessi quattro svolgevano ripetutamente il Gender and Science Implicit Associations Test (“Porn”). Abbiamo manifestato dubbi sul perché le persone si preoccupino circa i genitali altrui quando impegnate in un rapporto sessuale con questi medesimi genitali (“CisNorm”) […].
Verso la fine di luglio 2018, dopo che il nostro “Dog Park” ha ottenuto un’incredibile attenzione mediatica sui social media, attenzione generata dall’account Twitter “Real Peer Review” (piattaforma finalizzata a esporre ricerche scadenti), abbiamo ritenuto necessario chiudere il progetto. Ci sono state prima piccole e poi più estese pubblicazioni giornalistiche su Helen Wilson, il nostro autore fittizio, e sulla nostra non-esistente istituzione, the Portland Ungendering Research Initiative (PURI). Sotto pressione, la rivista Gender, Place, and Culture ci ha chiesto di provare l’esistenza dell’autore e si è poi dichiarata preoccupata circa l’articolo. Ciò ha generato un’attenzione anche maggiore che è arrivata a coinvolgere il Wall Street Journal e, ancor più importante, ha modificato i presupposti etici alla base del progetto. Con l’arrivo delle maggiori testate giornalistiche e poi con due riviste a chiederci prove dell’esistenza degli autori, l’etica investigativa si sarebbe spostata dal mostrare la necessità di una ricerca alla menzogna vera e propria. Abbiamo dunque spiegato tutto al Wall Street Journal all’inizio di agosto, e abbiamo cominciato a preparare velocemente un riassunto dell’esperienza.
Parte III: Perché l’abbiamo fatto?
Perché siamo razzisti, sessisti, bigotti, misogini, omofobi, transfobici, antropocentrici, problematici, privilegiati, bulli, di destra, uomini bianchi eterosessuali (e una donna bianca che dimostra di aver internalizzato la misoginia e il terribile bisogno dell’approvazione del maschio) che vogliono diffondere l’intolleranza, preservare il privilegio e schiararsi con l’odio? Niente di tutto ciò. Tuttavia di ciò saremo accusati e sappiamo perché.
Per quelli che non lavorano all’università, particolarmente per quelli che sono scettici sul valore di questa istituzione, tutto ciò può sembrare una discussione ridicola rispetto ai problemi del mondo reale. Vi sbagliate. La questione qui analizzata è della più assoluta rilevanza proprio per il mondo reale e per chi lo abita.
Differentemente, quelli che giudicano l’accademia positivamente e supportano eticamente e/o politicamente le scienze umane e le scienze sociali, concentrate sulle tematiche della giustizia sociale, possono pensare che il lavoro fatto dai vari ricercatori negli “studi del risentimento” sia assolutamente importante e corretto. Avete ragione, è importante, ma non sempre è corretto – alcuni di questi lavori sono assolutamente terrificanti e surreali ed esercitano però una considerevole influenza sul campo e fuori da questo. Voi potete pensare che i problemi qui analizzati siano connessi alla necessità di pubblicare continuamente che le nostre università-azienda e un’editoria opportunistica ora pretendono, ma siate scettici sul fatto che esista un serio approccio epistemologico o etico dietro questo tipo di lavori.
In quanto persone di sinistra capiamo la vostra resistenza di fronte allo stato della ricerca accademica (su questioni legate alla giustizia sociale) che il nostro discorso rivela. Il lavoro fatto in tali campi di ricerca pretende di continuare il lavoro dei movimenti per i diritti civili, del femminismo di sinistra, del Gay Pride. Fa riferimento all’oppressione razziale, delle donne e delle minoranze sessuali. Certo, voi potreste quindi credere che questa ricerca sia essenzialmente buona e giusta, pur riconoscendola come un po’ sciocca e pretenziosa.
Dopo aver trascorso un anno a diventare esperti riconosciuti in questi campi, oltre ad esser diventati testimoni degli effetti divisivi e distruttivi che si creano quando gli attivisti e i social media mettono in uso metodi mafiosi, possiamo ora affermare con certezza che questi studi non sono né fondamentalmente buoni né fondamentalmente giusti. Questi studi non continuano affatto il nobile e importante lavoro del movimento per i diritti civili; lo corrompono, usando i suoi temi al fine di far penetrare un viscido odio sociale su un pubblico sempre più disgustato. […]
Qual è il problema?
Abbiamo affermato fermamente che c’è un problema nelle nostre università, e che questo problema si sta diffondendo all’interno del mondo della cultura. È aiutato dal suo essere difficile da comprendere e dall’uso intenzionale di parole emozionalmente potenti – come “razzista” e “sessista” – usate in modo tecnico e fuori dal loro significato comune. Il nostro progetto identifica gli aspetti del problema, li testa e li espone.
Il problema è epistemologico, politico, ideologico e etico, e corrompe profondamente la ricerca nelle scienze sociali e umanistiche. Il centro del problema è formalmente definito come “costruttivismo critico”, e i suoi scolari più eminenti talvolta come “costruttivisti radicali”. Esprimere il problema accuratamente è difficile, e molti che ci hanno provato hanno evitato di farlo in modo succinto e cristallino. Tale reticenza, mentre è comprensibile data la complessità del problema e delle sue radici, ha però aiutato il problema a diffondersi.
Il problema si riassume affermando il credo (quasi sacro) che molte delle caratteristiche comune alle esperienze umane e alle società siano socialmente costruite. Tale costruzioni sono viste come quasi interamente dipendenti dalle dinamiche di potere fra gruppi di persone, dinamiche dettate da sesso, razza, orientamento sessuale o di genere. Tutto ciò che forma la base di evidenza del reale è interpretato come creato, intenzionalmente e non intenzionalmente, dalle macchinazioni di gruppi potenti al fine di mantenere il potere sui subalterni. Tale punto di vista produce l’imperativo morale di distruggere quelle costruzioni.
Le comuni “costruzioni sociali” sono viste come intrinsecamente “problematiche” e quindi da smantellare, includendo:
° l’idea che ci siano differenze cognitive e psicologiche fra uomini e donne che possano spiegare, almeno parzialmente, perché i due gruppi facciano scelte differenti riguardo a lavoro, sesso e vita familiare;
° l’idea che la cosiddetta “medicina occidentale” (benché tantissimi eminenti medici non siano occidentali) sia superiore alle pratiche curative tradizionale e spirituali;
° l’idea che le norme occidentali che garantiscono alle donne e ai gruppi LGBT uguali diritti siano, in questo riguardo, eticamente superiori alle norme religiose o culturali non-occidentali;
° l’idea che essere obeso sia una condizione di salute limitante piuttosto che una ingiustamente stigmatizzata, e ugualmente sana e bella, scelta fisica.
Sottolineare queste presunte “costruzioni sociali” è la preoccupazione più importante di tutti questi campi di ricerca. Si tratta smantellare l’idea che la scienza stessa – ad uno con i nostri metodi di “raccolta dati”, analisi statistiche, […] – sia superiore a un metodo per determinare informazioni di tipo non-scientifico, tradizionale, culturale, religioso, ideologico o magico. Questo accade, per gli studiosi del risentimento, perché la scienza stessa e il metodo scientifico sono profondamenti problematici, se non direttamente razzisti e sessisti, e hanno bisogno di essere riformulati su base identitaria al di là della imparziale ricerca della verità. Queste stesse accuse sono anche estese alla tradizione filosofica “occidentale” in quanto favorevole alla ragione sulle emozioni, al rigore sull’elucubrazione, alla logica sulla rivelazione.
Come risultato il costruttivismo radicale tende a credere che la scienza e la ragione vadano smantellate per far sì che “altre forme di conoscenza” abbiano la stessa validazione. Tali forme di conoscenza, connesse ovviamente alla teoria in questione, sono proprie delle donne e delle minoranze razziali, culturali, religiose e sessuali. Sono anche considerate come inaccessibili alle caste privilegiate della società, cioè agli uomini bianchi eterosessuali. Gli studiosi del risentimento giustificano questo pensiero regressivo come una epistemologia alternativa chiamata “teoria del punto di vista”. Il risultato è un relativismo epistemologico e morale che, per ragioni politiche, promuove modi di conoscenza che sono antitetici alla scienza e un’etica che è antitetica all’universalismo liberale.
Il costruttivismo radicale è così un’idea pericolosa diventata autoritaria. Sviluppa la concezione che noi dobbiamo, per ragioni morali, rigettare la credenza che esista la possibilità di accedere alla verità oggettiva (oggettività scientifica) […]. A tale credenza ci si riferisce di solito come “scetticismo radicale”, sebbene i filosofi intendano altro con questo sintagma. Sebbene la conoscenza sia sempre provvisoria e aperta a revisione, ci sono metodi migliori o peggiori per avvicinarsi ad essa, e il metodo scientifico è il migliore a nostra disposizione. Per contrasto i mezzi utilizzati dalla teoria critica sono fatalmente difettosi. In particolare questo approccio rigetta l’universalità e l’oggettività scientifica e insiste, su basi morali, sul fatto che dobbiamo senza dubbio accettare la nozione di molteplice, la verità su base identitaria, così come nel caso della “glaciologia femminista”. Nell’ambito del costruttivismo critico ciò ha una esplicita e radicale motivazione politica.
Ogni ricerca che prenda le mosse dal presupposto, radicalmente scettico, che sia impossibile approdare alla verità oggettiva non può trovare la verità oggettiva. Di contro promuove pregiudizi e opinioni e li spaccia per “verità”. Per il costruttivismo radicale, queste opinioni affondano nello specifico nell’agenda politica connessa al tema della “Giustizia Sociale” […]. A causa del costruttivismo radicale, […] questi studiosi sono come banditori ciarlatani che interpretano la nostra società come martoriata da una malattia che solo loro possono curare. Questo malattia, per come essi la vedono, è endemica in ogni società che sostiene l’agency dell’individuo e l’esistenza (o la possibile conoscenza scientifica) di verità oggettive.
Avendo passato un anno su questi temi, comprendiamo perché questa difettosa tipologia di ricerca risulti attraente, comprendiamo perché sia inevitabilmente errata nei suoi fondamenti, e comprendiamo come possa essere usata per sollevare assurdi dubbi etici. Siamo stati studiosi e parte di questa cultura, una cultura che “prova” l’esistenza di certe problematiche e poi propone soluzioni divisive e degradanti.
Sappiamo bene che il sistema di revisione paritaria, che dovrebbe filtrare i pregiudizi mediante i quali tali problematiche si accrescono e guadagnano influenza, è inadeguato rispetto agli “studi del risentimento”. Si tratta di riconoscere che non è tanto un problema della revisione paritaria in sé, quanto un problema legato alle persone che vi partecipano. I controlli e l’equità che dovrebbero caratterizzare il processo di ricerca sono stati sostituiti da uno stabile venticello di pregiudizi confermati che porta gli studi del risentimento sempre più avanti.
Sebbene i finanziamenti alla ricerca non siano per la maggior parte coinvolti nel problema (ma certo le case editrici lo sono), siamo davanti a un caso di evidente corruzione. In questo sistema, una ricerca politicamente di parte e fondata su premesse altamente discutibili, viene legittimata come conoscenza certificata. Da qui passa a permeare tutta la nostra cultura, perché professori, attivisti e altri citano e insegnano questo corpus di ricerche fallaci e ideologicamente distorte.
Ciò è importante perché, sebbene la maggioranza della popolazione non leggerà un singolo articolo durante tutta la sua vita, le riviste a revisione paritaria sono il massimo standard a nostra disposizione nel campo della conoscenza. […]
Come società dovremmo poter fare affidamento sulle riviste scientifiche, sui ricercatori, sulle università, sul rigore filosofico e accademico (e molte riviste accademiche sono certamente affidabili). Abbiamo bisogno di sapere che c’è un fronte contro questa corruzione accademica che si estende al campo politico, morale e ideologico. Il nostro progetto suggerisce con chiarezza che al momento non possiamo fare affidamento sulle ricerche che ossequiano e trafficano con gli studi del risentimento, perché questi studi, basati sul costruttivismo radicale (campo derivativo delle ciniche filosofie postmoderne e poststrutturaliste), hanno corrotto le riviste accademiche.
Queste sono le ragioni e motivazioni del nostro progetto. Ma come l’abbiamo fatto e quali principi guida abbiamo utilizzato?
Parte IV: Il Piano – Come l’abbiamo costruito
Nel maggio 2017 James e Peter hanno pubblicato un articolo in una rivista di basso livello, sostenendo, fra le altre cose, che gli organi riproduttivi maschili causino concettualmente i cambiamenti climatici. L’impatto di questo articolo fu molto limitato e le critiche assolutamente legittime. La rivista era di bassa qualità e solo per questo motivo aveva pubblicato il nostro articolo (il controllo era lasco, non c’erano standard adeguati e l’autore doveva pagare per pubblicare). Questo primo tentativo di confondere le acque ci ha fatto comprendere che l’articolo “The Conceptual Penis” non poteva provare alcunché circa le condizioni del campo di ricerca (i gender studies) […]. Per farlo avevamo bisogno di studi assai più rigorosi.
Ci siamo approcciati a ciò facendoci due domande fondamentali: Abbiamo ragione nel sostenere che le migliori riviste a revisione paritaria nel campo degli studi di genere (e campi collegati) pubblicheranno articoli ovviamente artefatti? (per “artefatti” intendevamo articoli che presentassero almeno una delle seguenti caratteristiche: tesi chiaramente assurde, struttura dilettantesca, chiara mancanza di rigore, poca comprensione del campo di studio). E se no, cosa invece pubblicherebbero?
Ci siamo dati tre regole basiche: (1) ci concentreremo quasi esclusivamente sulle riviste al vertice delle rispettive discipline; (2) non pagheremo per pubblicare articoli; (3) se un editore o un revisore (ma non un giornalista!) ci chiederà se l’articolo è artefatto, lo ammetteremo. Queste regole sono state scelte per far sì che ogni dato raccolto fosse emblematico della situazione del campo di ricerca, e non parte integrante di un problema solo parzialmente collegato alla nostra ricerca: la proliferazione di riviste truffaldine con standard estremamente bassi. […]
La risposta alla prima domanda è stata chiarissima. “Abbiamo ragione nel pensare che riviste accademiche di standard elevato e che si occupano di studi di genere e campi contigui pubblicherebbero articoli artefatti?”. La risposta è stata negativa fino a Novembre. Ci sono bastati pochi mesi e pochi articoli per capire che mentre era possibile imbrogliare riviste di basso livello con i nostri articoli, un testo come “The Conceptual Penis” non sarebbe mai stampo stampato in riviste di alto livello.
Riguardo alla seconda domanda (“Cosa pubblicherebbero?”), abbiamo trovato risposta in una vasta analisi dei campi di ricerca connessi agli studi del risentimento. Prima di tutto abbiamo eseguito un’estesa ricerca etnografica, cercando i commenti dei revisori paritari e conformandoci a quelli, siamo così via via diventati più abili nel muoverci all’interno di quella cultura che favorisce questo tipo di studi. In secondo luogo, abbiamo raccolto tutto ciò che era prova significante per affermare le nostre tesi e sostenere l’esistenza di un problema e di pregiudiziali nei campi influenzati dagli approcci e dalle tesi del costruttivismo critico.
Parte V: I risultati (di tutti e 20 gli articoli)
(Articoli e revisioni sono tutte leggibili qui).
“Dog Park”
Titolo: Reazioni umane alla cultura dello stupro e performatività queer nei parchi per cani della città di Portland, Oregon
di Helen Wilson, Ph.D., Portland Ungendering Research (PUR) Initiative (inesistente)
Status: Accettato e pubblicato
Riconosciuto come articolo eccellente. Preoccupazioni sono state sollevato a livello giornalistico e ci hanno costretto a interrompere i nostri studi.
Tesi: I parchi per cani sono luoghi dove la cultura dello stupro è tollerata e dove vige una sistematica oppressione dei “cani vittima”. Mediante ciò è possibile misurare l’attitudine umana nei confronti del medesimo problema. L’analisi della situazione fornisce elementi sul come addestrare gli uomini per portarli fuori dalla violenza sessuale e dal bigottismo cui sono soggetti.
Scopo: comprendere se le riviste avrebbero accettato argomenti chiaramente assurdi e non-etici qualora questi avessero supportato e perpetuato la nozione di “mascolinità tossica”, etero-normatività e pregiudizi a questa correlati.
Commenti selezionati dei revisori:
“Questo è un articolo fantastico – incredibilmente innovativo, con un’analisi complessa e estremamente ben costruita. Tiene in conto tutta la letteratura del settore e le questioni teoretiche che il problema comporta. Il modo in cui l’autore sviluppa tesi e corollari dell’articolo è impressionante. Il lavoro sul campo contribuisce immensamente alla fattualità dell’articolo quale innovativa e valida ricerca, sviluppatasi su campi differenti e interdisciplinari. Credo che questo articolo, empiricamente e intellettualmente valido, debba essere pubblicato e mi congratulo con l’autore per il suo lavoro. – Primo Revisore, Gender, Place, and Culture […]
“Come sapete, GPC è nel suo venticinquesimo anniversario. Come parte dei festeggiamenti per l’occasione, ripubblicheremo 12 saggi. Vorremmo pubblicare il suo articolo, Reazioni umane alla cultura dello stupro e performatività queer nei parchi per cani della città di Portland, Oregon, nel settimo numero. L’articolo focalizza l’attenzione su così tante tematiche connesse alla geografia femminista, e mostra inoltre come tale lavoro possa contribuire a ravvivare la disciplina. È un articolo perfetto per le celebrazioni in corso. Vorrei avere il vostro permesso per pubblicarlo”. – Editore di Gender, Place, and Culture
“Fat Bodybuilding”
Titolo: Chi siamo noi per giudicare? Superare l’antropometria e i confini verso un bodybuilding per ciccioni
Di Richard Baldwin, Ph.D., Gulf Coast State College (una persona reale che ci ha concesso la sua identità accademica per pubblicare questo articolo)
Status: Accettato, pubblicato
Tesi: È solo a causa delle oppressive norme culturali per cui in società il muscolo è più ammirevole del lardo che il bodybuilding per grassi non è consentito. Il bodybuilding si avvantaggerebbe dall’introdurre la sua versione cicciona e non-competitiva.
Scopo: Capire se le riviste avrebbero pubblicato tesi ridicole e chiaramente pericolose per la salute qualora queste supportassero le tesi del costruttivismo radicale circa la positività del corpo e la grasso-fobia.
Commenti selezionati dei revisori:
“La materia dell’articolo è piuttosto originale e coinvolge una tematica rilevante connessa a categorie emarginate. Il saggio si concentra sul bodybuilding come elemento di un’attività stigmatizzante verso i corpi grassi, e invoca il bodybuilding per ciccioni come un “modo per distruggere lo spazio culturale del bodybuilding tradizionale”. – Revisore 1, Fat Studies
“Mi sono davvero goduto questo articolo e credo sarà un contributo importante per il campo e per la rivista. Concordo quasi totalmente con quanto sostenuto. È ben scritto e ben strutturato”. Revisore 3, Fat Studies
“A p. 24 l’autore scrive “un corpo grasso è un corpo legittimamente costruito”. Sono completamente d’accordo. Revisore 3, Fat Studies
“L’uso del termine ‘frontiera finale’ è problematico. Il termine frontiera implica l’espansione coloniale, la conquista ostile, il genocidio delle popolazioni indigene. Usare un termine differente.” Revisore 3, Fat Studies
“Dildos”
Titolo: Passare dalla porta sul retro: Problematizzare l’omoisteria e la transfobia degli uomini eterosessuali attraverso l’uso ricettivo e penetrativo dei Sex Toys
Di M Smith, M.A., PUR Initiative (inventato)
Status: Accettato, pubblicato
Tesi: Forse il fatto che gli uomini si penetrino solo raramente per via anale mediante l’uso di sex toys è connesso alla paura di fare pensieri omosessuali (“omoisteria”) e intolleranti verso i trans (transfobia). Incoraggiarli dunque a penetrarsi analmente ripetutamente farà calare la transfobia e aumentare i valori femministi.
Scopo: capire se le riviste avrebbe accattato argomenti assurdi qualora questi supportassero la pretesa che le comuni (e innocue) scelte sessuali fatte da uomini eterosessuali siano in realtà omofobe, transfobiche, anti-femministe.
Commenti selezionati dei revisori:
“Questo articolo è un incredibilmente ricco di idee e rappresenta un eccitante contributo agli studi su sessualità e cultura, e particolarmente a quelli sull’intersezione fra mascolinità e analità… Tale contributo è importante, tempestivo e meritevole di pubblicazione”. – Revisore 1, Sexuality and Culture […]
“Grazie per questa appassionante ricerca. Mi sono divertito a leggere il tuo articolo e lo raccomando per la pubblicazione nonostante alcune revisioni da fare”. – Revisore 2, Sexuality and Culture
“Hooters”
Titolo: Una etnografia della mascolinità nei ristoranti con cameriere seminude: Ragioni della reificazione, conquista sessuale, controllo maschile, durezza mascolina nei ristoranti sessuali reificanti
di Richard Baldwin, Ph.D., Gulf Coast State College
Journal: Sex Roles
Status: Accettato, pubblicato
Tesi: gli uomini che frequentano quei ristoranti con cameriere seminude come Hooters lo fanno in quanto nostalgici della dominazione patriarcale e godono a dare ordini alle donne attraenti che gli girano attorno. L’ambiente offerta da questi ristoranti incoraggia gli uomini a perpetuare la reificazione e la conquista sessuale, ad uno con la durezza mascolina e la dominazione maschile finalizzata alla “mascolinità autentica”.
I dati raccolti sono un chiaro nonsense e le conclusioni tratte del tutto ingiustificate (N.B. uno dei revisori ha mostrato dubbi circa il rigori dei dati).
Scopo: Capire se una rivista avrebbe pubblicato un articolo che problematizza l’attrazione eterosessuale maschile accettando una sciatta metodologia qualitativa e le interpretazioni ideologicamente motivate che la supportano.
Commenti selezionati dei revisori:
“Io e i revisori abbiano espresso assenso su molte parti del manoscritto, e crediamo che sarà un importante contributo al campo di ricerca”. – Editore, Sex Roles
“Sono d’accordo sul fatto che tali ristoranti siano un lungo importante per criticare la mascolinità, ricerca finora neglette nella letteratura esistente. Questo studio ha il potenziale per diventare un contributo significativo”. – Revisore 2, Sex Roles
“Mentre l’autore ben conosce la ricerca sull’argomento e sui luoghi della sottocultura maschile dove queste forme tradizionali di mascolinità sono avallate, l’articolo è presentato in modo confuso e poco chiaro”. – Revisore 2, Sex Roles […]
“Avendo letto le opinioni dei revisori esterni, abbiamo deciso di non pubblicare l’articolo. Comunque il materiale era certamente interessante e sono sicuro troverà spazio in un’altra rivista”. – Editore, Men & Masculinities
“Sebbene l’articolo sia certamente interessante e dia da pensare, sarebbe più adatto per essere insegnato in una classe universitaria sul tema”. – Revisore 1, Men & Masculinities […]
“Hoax on Hoaxes 2” or “HoH2”
Titolo: Quando si scherza su di te: una prospettiva femminista su come la posizione in società influenzi la satira
di Richard Baldwin, Ph.D., Gulf Coast State College
Status: Accettato
Tesi: Gli scherzi o le altre forme di critica ironica e satirica sulla ricerca concernente la giustizia sociale sono non-etici, caratterizzati da ignoranza e basati sul desiderio di preservare il privilegio.
Scopo: capire se una rivista avrebbe accettato un argomento finalizzato a silenziare le critiche della ricerca accademica sulla giustizia sociale. (Questo articolo pure anticipa e mostra le possibili critiche dell’epistemologia femminista sul nostro corrente progetto, e dimostra il problema di quando un articolo del genere risulta pubblicato su una delle migliori riviste del settore. Insomma, per criticare il nostro lavoro toccherà loro citarci).
Commenti selezionati dei revisori:
“Uno studio promettente e di grande utilità”. – Revisore 1, Hypatia
“Articolo ben scritto, chiaro e accessibile, focalizzato su un tema importante. Data l’enfasi sulla posizionalità in società, la tesi chiaramente critica le simmetrie di potere e enfatizzata la voce dei gruppi marginalizzati, e in tal senso è un importante contributo alla filosofia femminista sul tema della pedagogia della giustizia sociale”. – Revisore 2, Hypatia […]
“Articolo eccellente e tempestivo! Particolarmente ben tratteggiata la connessione fra pedagogia e attivismo”. – Revisore 1, Hypatia (seconda revisione)
“Ho un paio di commenti minori che trascrivo sotto l’elogio dei revisori. Voglio però dire che anche a me il saggio è piaciuto molto”. – Editore di Hypatia, lettera di accettazione
“Moon Meetings”
Titolo: Moon Meetings e il significato della sorellanza. Un ritratto poetico della vivente spiritualità femminista
di Carol Miller, Ph.D., PUR Initiative (inventato)
Rivista: Journal of Poetry Therapy
Status: Accettato (senza richiesta di revisione o commenti)
Tesi: Tesi non chiara. Uno sconnesso monologo poetico di un triste divorziata femminista, per lo più prodotto mediante il teenage angst poetry generator prima di essere editato e reso leggermente più “realistico” e poi cosparso con un autoindulgente autoetnografia con riflessioni sulla sessualità e sulla spiritualità femminile scritte in meno di sei ore.
Scopo: capire se se le riviste avrebbero accettato di pubblicare sconnessi non-sense semplicemente perché favorevoli alle donne, implicitamente anti-maschili e supportanti l’alternativa dell’autonomia femminile e la via femminile alla conoscenza. (N.B. Scritto interamente da James, un uomo).
Mein Kampf Femminista o “FMK”
Titolo: La nostra lotta è la mia lotta: solidarietà femminista come risposta intersezionale al femminismo neoliberale e a quello della scelta
Autrici: Maria Gonzalez, Ph.D., e Lisa A. Jones, Ph.D., del Collettivo femminista Feminist Activist Collective for Truth (FACT) (fittizie)
Rivista: Affilia (accettato)
Tesi: allorché il femminismo mette in primo piano la scelta e la responsabilità individuale, nonché l’azione e la forza femminile, esso stesso può essere contrastato da un femminismo solidale alle vittime più emarginate della società.
Scopo: verificare se fosse possibile trovare la “teoria” per rendere qualsiasi cosa relativa al risentimento (in questo caso parte del capitolo 12 del primo volume del Mein Kampf, con qualche cambiamento con parole alla moda) accettabile per le riviste, quando si mescolano e si abbinano tra loro argomenti alla moda.
Selezione dei commenti dei revisori:
“Si tratta di un articolo interessante, che mira a compiere passi in avanti verso un femminismo inclusivo, preoccupandosi delle questioni legate alla solidarietà e alleanza.” Revisore 1, Affilia
“Leggendo il suo testo, ho trovato l’inquadramento e il trattamento sia del femminismo neoliberale, sia di quello della “scelta” ben fondati.” Revisore 2, Affilia
“Mi trovo molto solidale con la tesi principale del saggio, vale a dire la necessità della solidarietà e la natura problematica del femminismo neoliberale.” Revisore 1, Feminist Theory
“Benché sia assai favorevole alla tesi dell’articolo e al suo posizionamento politico, nondimeno temo di non poter avvallare una pubblicazione nella sua forma attuale.” Revisore 2, Feminist Theory
“I revisori appoggiano questo lavoro e rilevano le sue potenzialità nel contribuire all’importante dialogo tra gli assistenti sociali e tra le accademiche femministe.” Co-direttore, Affilia (prima revisione)
“I revisori sono stati molto favorevoli, ma restano alcune questioni marginali da risolvere. Pertanto, vi invito a rispondere ai commenti dei curatori e dei revisori riportati alla fine di questa lettera e a rivedere rapidamente il testo, in modo da poter procedere alla pubblicazione.” Co-direttore, Affilia, seconda revisione
[…]
“Progressive Stack”
Titolo: Il Progressive Stack: un approccio alla Pedagogia femminista e intersezionale
Autori: Maria Gonzalez, dottore di ricerca, FACT (fittizio)
Rivista: Hypatia
Stato: rifiuto e nuovo invio
Tesi: Gli educatori dovrebbero discriminare gli alunni secondo la loro origine e determinare lo stato dei loro studenti secondo il loro livello di privilegio, per poi privilegiare i meno privilegiati dedicando loro più tempo, attenzione e commenti positivi e contestualmente penalizzare i privilegiati rifiutandosi di ascoltare i loro contributi, deridendo i loro commenti e interrompendoli intenzionalmente, facendoli anche sedere sul pavimento e incatenandoli, nel quadro di un contesto di opportunità educative che abbiamo definito come “riparazioni esperienziali”.
Scopo: Verificare se le riviste avrebbero potuto accettare argomenti sostenenti la valutazione degli studenti in base alla loro identità, privilegiando i più emarginati e discriminati rispetto ai più privilegiati, fino a farli sedere sul pavimento in catene. (Nessun requisito per la revisione ha incontrato problemi su questo punto, che anzi è stato pienamente accettato.)
Selezione dei commenti dei revisori:
“Si tratta di un saggio solido che, dopo revisione, darà un forte contributo alla letteratura emergente che affronta l’ingiustizia epistemica in classe. L’attenzione sul concetto di progressive stack è interessante ed è significativo che l’autore cerchi di suggerire alcuni approcci specifici.” Revisore 1, prima revisione, Hypatia
“Mi piace molto questo progetto. Penso che le intuizioni dell’autore siano fondate su obiettivi specifici e che la letteratura sull’ingiustizia epistemica abbia molto da offrire alla pedagogia in classe. L’autore ha il mio incoraggiamento per continuare il lavoro su questo progetto.” Revisore 2, prima revisione, Hypatia
“Questo è un progetto meritevole e interessante. Semplicemente il saggio non è ancora pronto per la pubblicazione.” Revisore 2, seconda revisione, Hypatia
“IA femminista”
Titolo: Super-Frankenstein e l’immaginario maschile: epistemologia femminista e super-intelligenza artificiale
Autore: Stephanie Moore, dottore di ricerca, libera ricercatrice (fittizio)
Stato: Corretto e rinviato (correzioni formali in relazione alla lunghezza e allo stile)
[…]
“Astronomia femminista”
Titolo: Stelle, pianeti e genere: una cornice per un’astronomia femminista
Autore: Maria Gonzalez, dottore di ricerca, FACT (fittizio)
Rivista: Women’s Studies International Forum
Stato: corretto e reinviato (fuori tempo massimo)
Tesi: La scienza astronomica è ed è sempre stata intrinsecamente sessista e occidentale. Questo pregiudizio maschilista e occidentale può essere corretto al meglio includendo l’astrologia di ascendenza femminista, queer e indigena (ad es. l’oroscopo) come parte integrante della scienza astronomica.
Scopo: Verificare se lo stesso risultato raggiunto dalle tesi sulla glaciologia femminista esposte nel nostro articolo accettato potessero essere introdotte anche negli studi femministi e postcoloniali sull’astronomia.
Selezione dei commenti dei revisori:
“Questo articolo affronta le critiche femministe alla scienza, concentrandosi specificamente sull’astronomia. In quanto tale, è un argomento interessante e darebbe un utile contributo alla rivista.” Revisore 1, Women’s Studies International Forum
“Per i sostenitori degli studi femministi sulla scienza, questo contributo ha significato anche come prossimo passo da compiersi: gettare uno sguardo femminista sulle discipline scientifiche al di là delle scienze “morbide”, della biologia e degli studi ambientali, per andare sempre più verso critiche e interventi sulle scienze cosiddette “dure”, come la fisica e l’astronomia. L’obiettivo principale è rilevante e interessante.” Revisore 2, Women’s Studies International Forum […]
“L’autore riesce efficacemente a mostrare l’originalità della sua tesi. Al livello più elementare la tesi del contributo – cioè che l’astronomia femminista è / dovrebbe / potrebbe essere realtà! – potrebbe essere entusiasmante per i lettori di studi femministi e di genere, studi scientifici e tecnologici e forse anche, si spera, di scienza astronomica.” Revisore 2, Women’s Studies International Forum
“CisNorm”
Titolo: Strategie per ribattere alle aggressioni discorsive eterosessuali sul luogo di lavoro: disturbo, critica, rafforzamento del sé, complicità
Autore: Carol Miller, dottore di ricerca, PUR Initiative (fittizio)
Rivista: Gender, Work, and Organization
Stato: in revisione (già rifiutato dalla rivista Gender & Society sulla base di revisioni contrastanti, ma per la maggior parte critiche)
Tesi: Le persone transessuali sono tutte oppresse e costrette, anche inconsapevolmente, a un linguaggio cisnormativo sul posto di lavoro. Gli attivisti transessuali che vengono marginalizzati sul lavoro confermano l’esistenza della transfobia. Gli uomini transessuali che sono scettici nei confronti del transattivismo hanno paura della transfobia e / o approfittano del privilegio maschile.
Scopo: Verificare se le riviste avrebbero potuto accogliere uno studio metodologicamente scadente, condotto su un piccolo campione di transessuali e sulla base di interpretazioni chiaramente motivate dall’ideologia, nemmeno supportate da risposte correttamente registrate.
Selezione dei commenti dei revisori:
“Nel complesso, ritengo che questo lavoro in quattro parti sia utile per far progredire la comprensione della cisnormatività, in particolare attraverso le risposte di persone transessuali e di generi non conformi a certi sistemi di potere.” Revisore B, Gender & Society
“Questo articolo offre un caso empirico interessante e importante per capire come le disparità sul posto di lavoro persistano in molti luoghi solo formalmente più inclusivi. Un punto di forza di questo articolo è la sua attenzione alle esperienze dirette di transessuali, di persone di generi non conformi, e la sua interpretazione delle aggressioni che perseverano anche nei luoghi di lavoro che possono sembrare inclusivi. Sottolinea inoltre la rigidità che perdura nell’ordinamento di genere tradizionale.” Revisore C, Gender & Society
“Masturbation”
Titolo: Rubbing One Out: definire la violenza metasessuale e reificante attraverso la masturbazione non-consensuale
Autore: Lisa A. Jones, dottore di ricerca, FACT (fittizio)
Rivista: Sociological Theory
Stato: Rifiutato dopo revisione tra pari (fuori tempo massimo)
Tesi: Quando un uomo si masturba in privato, fantasticando su una donna che non gli ha dato il permesso di farlo, o mentre fantastica su di lei in modi cui lei non ha acconsentito, commette una violenza “metasessuale”, anche se la donna non lo scoprirà mai. La violenza “metasessuale” viene descritta come una specie di violenza sessuale non fisica che causa la depersonalizzazione della donna attraverso la sua oggettivazione sessuale e la sua riduzione a sostegno mentale utilizzato per facilitare l’orgasmo maschile.
Scopo: Verificare se la definizione di violenza sessuale potesse essere allargata fino a comprendere i crimini mentali.
Selezione dei commenti dei revisori:
“Un aspetto a cui ho pensato è stata la misura in cui la violenza metasessuale, e in particolare la masturbazione non consensuale, introduca incertezza in tutte le relazioni. Non è possibile per le donne sapere se un uomo si è masturbato pensando a loro e ritengo che potrebbe essere possibile, dal punto di vista teorico, fare leva su questo aspetto “inconoscibile” della violenza metasessuale. Potrei anche immaginare scenari in cui gli uomini potrebbero armarsi di questa inconoscibilità in modi molto tangibili. Ad esempio, l’ambigua affermazione “Penso a te tutto il tempo” detta da un uomo a una donna senza esplicita richiesta diventa particolarmente insidiosa considerato il contesto strutturale della violenza metasessuale nel mondo. Non so se gli autori vogliano prendere questa direzione con questo saggio, ma posso ipotizzare una sezione che discuta l’ambiguità e l’ansia che la violenza metasessuale introduce nelle relazioni interpersonali e come la violenza metasessualeo aggravi altre forme tangibili di violenza.” Revisore 1, Sociological Theory
“Ho anche cercato di pensare attraverso esempi concreti come questa argomentazione teorica possa avere implicazioni nelle relazioni consensuali di tipo romantico. Leggendo l’articolo, ho riflettuto sull’aumento della pratica del sexting e dei selfie pornografici di tipo consensuale tra le coppie, e di come situarlo nelle vostre argomentazioni. Penso che questo sia interessante perché gli autori potrebbero sostenere che, benché queste immagini siano condivise e contenute in una relazione privata consensuale, le immagini stesse sono una reazione all’idea che l’uomo possa pensare a un’altra donna mentre si masturba. L’intera industria della fotografia boudoir, in cui talvolta le donne si fanno scattare foto erotiche per il loro partner prima di partire in missione militare all’estero è, ad esempio, un modo implicito per dire: “Se hai intenzione di masturbarti, potrebbe anche essere per me”. In sostanza, anche in relazioni consensuali monogamiche, le fantasie masturbatorie potrebbero creare un certo livello di coercizione per le donne. Gli autori menzionano questo problema a pagina 21 in termini di consumo di media digitali non consensuali, come lo stupro metasessuale, ma penso che sia interessante pensare in merito a elementi potenzialmente consensuali, ma anche coercitivi, di tipo ben più sottile.” Revisore 1, Sociological Theory
[…]
“Queering Plato”
Titolo: Queering Platone: l’allegoria della caverna come testo queer teoretico e emancipante sulla sessualità e il genere
Autore: Carol Miller, dottore di ricerca, PUR Initiative (fittizio)
GLQ: A Journal of Gay and Lesbian Studies
Stato: Rigettato dalla redazione dopo diversi mesi e quindi abbandonato
[…]
“Bufala su bufala (1)” o “HoH1”
Titolo: Il bullismo accademico egemonico: L’etica degli articoli artefatti alla Sokal sugli studi di genere
Autore: Richard Baldwin, dottore di ricerca, Gulf Coast State College
Stato: ritirato (ultimo rifiuto: Journal of Gender Studies senza revisione esterna)
Tesi: Il tentativo morale di perpetrare bufale accademiche dipende interamente dalla posizione che la rivista o il campo di indagine occupa rispetto alla giustizia sociale. In particolare, non è etico burlarsi di riviste che perseguono la giustizia sociale nel corso scolastico. […]
Scopo: Verificare se le riviste applicassero spudoratamente uno doppio standard per quanto riguarda la critica dei settori di ricerca dedicati alla giustizia sociale. (Come “Bufale su bufale 2” dimostra, questa ipotesi non era del tutto sbagliata.) Inoltre, lo scopo era verificare se avremmo potuto pubblicare un documento che critica “Il pene concettuale”, in realtà un’autocitazione (ipotesi, anche in questo caso, non completamente sbagliata).
[…]
Parte VI: Discussione
Esattamente che cosa dimostra questo esperimento? Vi lasciamo decidere da soli, ma invitiamo a riflettere sul fatto che ci sono ottime ragioni per dubitare del rigore di alcuni studi nel campo dell’identità, quelli ce abbiamo riassunto sotto l’etichetta di “discipline del risentimento”.
Siamo riusciti a ottenere la pubblicazione di sette articoli scadenti, assurdi, non eticamente sostenibili e politicamente faziosi in riviste rispettabili e appartenenti al campo delle discipline del risentimento. È la dimostrazione che il mondo accademico è corrotto? Assolutamente no. Mostra che tutti gli studiosi e i revisori negli studi umanistici che interrogano il genere, la razza, la sessualità e la forma fisica sono corrotti? No. Affermare una di queste due cose significherebbe esagerare il significato di questo progetto e mancare la vera questione in oggetto. Vorremmo chiedere a chi lo farà di ritornare sui suoi passi. La maggior parte delle ricerche è solida e la revisione tra pari rigorosa: entrambe contribuiscono alla conoscenza a vantaggio della società.
Nondimeno, l’esperimento mostra che ci si dovrebbe preoccupare piuttosto di come certi campi di studio nelle discipline umanistiche incoraggino questo tipo di “ricerche”. Non dovrebbe essere possibile pubblicare articoli talmente scadenti in riviste di così alto credito. E questi sette articoli non sono che la punta dell’iceberg. Invitiamo chi ritiene sia stato un colpo di fortuna a considerare quanto semplice sia stato arrivare a questo risultato. […] Si guardi ai commenti dei revisori per capire dove i ricercatori debbano andare a parare per poter essere pubblicati e costruire carriere di successo. E si veda quanto spesso essi ci abbiano richiesto non di essere meno politicizzati e più rigorosi, ma piuttosto di avanzare maggiormente oltre le nostre premesse ed essere più coraggiosi.
Considerate il fatto che ci è stato chiesto di revisionare gli articoli altrui non meno di quattro volte, benché noi stessi avessimo presentato contributi totalmente privi di fonti e con dimostrazioni assurde e moralmente discutibili. […]
Chiedetevi, allora, se questo sistema sta ancora funzionando. Se pensate di no, unitevi a noi per chiedere alle università di risolvere questo problema.
Part VII: E adesso?
A che cosa deve portare questo progetto? Questo sarà deciso da altri. Il nostro progetto è stato poco più di una prima esplorazione di un problema che mira principalmente a fornire prove della propria esistenza, cogliendo dall’interno una prospettiva sui settori di ricerca che lo producono e delineandone così l’intima natura. I nostri dati indicano che le discipline del risentimento rappresentano un serio problema accademico, che necessita di attenzione immediata.
È facile identificare alcune risposte populiste, ma sbagliate, alla domanda su cosa dovrebbe accadere in seguito. Un potenziale risultato di questo progetto potrebbe essere che le riviste inizino a chiedere a coloro che propongono articoli un’identificazione e un attestato delle loro qualifiche, al fine di impedire a persone come noi di riuscire in un’impresa simile. Questa appare una soluzione errata, che mira a mantenere lo status quo. Una ricerca dovrebbe valere per i suoi meriti, indipendentemente dalle qualifiche o dall’identità dei suoi autori. Seguire questo approccio consentirebbe alle riviste soltanto di sopperire alla propria paura di cadere in una situazione imbarazzante e ridurrebbe la loro responsabilità nel divulgare studi rigorosi, ma non farebbe nulla per migliorare gli standard accademici all’interno di quei campi di studio. Potrebbe persino peggiorare il problema amplificando e riverberando altrove tali pratiche. Il nostro lavoro è stato accettato per i suoi meriti, non perché abbiamo scritto sotto pseudonimi, e tale problema, che è ciò che conta, non può essere affrontato semplicemente richiedendo prove d’identità per poter proporre degli articoli.
Altre due risposte sbagliate sono attaccare il sistema di valutazione tra pari o il mondo accademico nel suo complesso. […] Combattere l’accademia o il sistema di revisione tra pari sarebbe come uccidere il paziente per porre fine alla malattia. Ci aspettiamo di vedere tali attacchi, soprattutto da parte dei politici conservatori, ma questi attacchi restano sbagliati.
[…] I problemi più frequenti li troviamo nella ricerca su argomenti quali razza, genere, sessualità, società e cultura. Forse la cosa più preoccupante è come le discipline più ideologiche di oggi minino il valore delle ricerche più rigorose condotte su queste stesse tematiche e corrodano la fiducia nell’intero sistema universitario. La ricerca in queste aree è cruciale e deve essere condotta rigorosamente. Più i risultati su questi argomenti divergono dalla realtà, maggiore è la possibilità che tali studi possano colpire coloro che la ricerca intenderebbe invece aiutare.
Peggio ancora, il problema della corruzione di certi studi è già largamente trapelato in altri campi come l’istruzione, l’assistenza sociale, i media, la psicologia e la sociologia, tra gli altri, e pare impegnato a diffondersi ulteriormente. Il problema si sta facendo gravemente preoccupante per come sta rapidamente minando la legittimità e la reputazione delle università, distorcendone la politica, soffocando il dialogo e la sua necessità, spingendo la battaglia culturale verso prese di posizione sempre più deleterie. Inoltre, esso sta influenzando l’attivismo politico a favore delle donne e delle minoranze razziali e sessuali in maniera controproducente per gli obiettivi di uguaglianza, alimentando l’opposizione reazionaria di destra contro quegli stessi obiettivi.
Cosa speriamo che accada adesso? La nostra raccomandazione è innanzitutto un invito a tutte le principali università a intraprendere una revisione critica di queste aree di studio (studi di genere, teorie critiche della razza, teoria postcoloniale e altri campi di ricerca basati sulla “teoria” all’interno delle discipline umanistiche e delle scienze sociali, in particolare sociologia e antropologia), per poi poter distinguere le discipline e quegli studiosi che producono conoscenza da coloro che generano soltanto una sofistica costruttivista. Speriamo che l’intero campo di studio possa venire riscattato, non distrutto, poiché gli argomenti che vi si studiano – genere, razza, sessualità, cultura – sono di enorme importanza per la società e richiedono quindi la più attenta considerazione e il massimo livello di rigore scientifico. Inoltre, molte delle prospettive che emergono da questi studi sono degne di attenzione e meritano più considerazione di quanto attualmente ricevono. Ciò richiederà loro di aderire più onestamente e in maniera più rigorosa ai criteri della produzione della conoscenza e di mettere la ricerca davanti a qualsiasi interesse in conflitto con essa. Questo è il cambiamento che speriamo possa venire da questo progetto.
Per quanto ci riguarda, intendiamo continuare a sottoporre a critica le discipline del risentimento usando l’esperienza fino ad ora maturata, per spingere sempre più le università a risolvere questo problema e a riaffermare il loro impegno verso una produzione della conoscenza il più rigorosa e non settaria possibile. Lo facciamo perché crediamo nell’università, nel rigore della ricerca, nel perseguimento della conoscenza scientifica e nell’importanza della giustizia sociale.
[traduzione di Mimmo Cangiano, Alberto Comparini, Guido Mattia Gallerani]
[1] Tecnica pedagogica finalizzata a dare a gruppi marginalizzati più libertà di parola in classe.
meraviglioso
Congratulations! The translation is very good. As for the content, every profession has its jargon; the better you master it, the highest your chance of making an academic career. What I find most interesting, however, is the reward reaped by operational thinking (observation of protocols and procedures) pretending to be critical thinking. If this is the case, all defense of the humanities based on critical thinking is a pompous hoax indeed.
Siamo sicuri e sicure che “studi del risentimento” sia un buon termine per una critica militante (come mi pare essere, tutto sommato, quella degli autori dell’articolo) dopo l’uso reazionario che ne fa da anni Harold Bloom?
Se il riferimento è al “ressentiment” niciano, poi, quest’uso regge il paragone?
Anche noi non avremmo usato “risentimento” per il chiaro riferimento Nietzsche-Bloom. Ma questa è stata la scelta degli autori, di certo più liberal di noi.
Comunque è colpa nostra (e della fretta) il mantenimento dell’omofonia. In inglese i due termini sono distinti: “resentment” e “grievance”
un giovane ricercatore tedesco, per continuare in uni, ha dovuto accettare l’anno scorso come tema di ricerca (con finanziamento pubblico dreimittel) “tipi di barba e immagine di dio”.
Vivissimi complimenti agli autori di questa traduzione. Si sentiva proprio il bisogno di delegittimare ulteriormente gli studi umanistici oggi (in Italia come negli Stati Uniti).
A proposito di risentimento, se ne legge in abbondanza tra le righe dell’introduzione. Cercare di difendere il proprio minuscolo territorio accademico appoggiandosi a critiche e figure che stanno cercando di legittimare la scomparsa di ogni forma di sapere critico dall’università non fa che accelerare tale processo, oltre che a frammentare campi di sapere che potrebbero (e dovrebbero) schierarsi uniti contro questi attacchi (questi sì intrisi di moralismo pseudo-scientifico e finalizzati ad estendere nell’università un’egemonia già imperante a livello socio-economico).
Ci sono poi molte critiche che andrebbero fatte in merito a questo specifico hoax (che, va notato, ha avuto finora un impatto ben più limitato del Sokal nella comunità accademica statunitense). Si veda per esempio: https://nplusonemag.com/online-only/online-only/orthodoxxed/
Giovanni Jarre, Harold Bloom was among the first to promote deconstruction (cf. “Deconstruction & Criticism”; my edition dates 1995), which stands at the basis of radical constructivism as described here, though the two are not at all the same. Bloom’s conservative turn most likely stems from his own resentment for no longer being at the cutting edge. Books like “The Western Canon” and “Shakespeare: the Invention of the Human” are just ways to say: “I am here, I still matter.”
Carissimi, anzitutto tradurre e portare qui dibattiti di altrove non è mai un male. I giornali sono fatti per scambiare e discutere opinioni. Non lo dico a voi, che lo sapete, ma a chi vi accusa di delegittimare. Per quanto mi riguarda, ho pochissime cose minime da dire/chiedervi:
1) il cosiddetto “affare Sokal” non era, almeno all’inizio, contro gli studi umanistici, o almeno a me così sembra. Era una dimostrazione di come molti studiosi si servissero di concetti scientifici senza comprenderne il significato o fraintendendoli (e per molti di loro, ma lo si sapeva già, le cose non funzionavano da tempo: ne è un esempio il vecchio libro di Klaus Hempfer su “Tel Quel” e il nouveau roman, giusto per parlare di qualcuno dei parigini presi di mira da Sokal e Bricmont). La cosa poi è degenerata a polemica giornalistica, e ci si è fatti prendere la mano, ma non bisogna mai dimenticare di che cosa effettivamente parlino le aride pagine di “Intellectual Impostures”;
2) la questione sulla cultura di destra finanziata da fuori e la cultura di sinistra finanziata dalle università è una questione che mi lascia un po’ così perché, secondo la mia opinione, potrebbe portare a una conclusione equivoca (e magari l’equivoco è solo mio, spero!): cioè che solo l’università possa finanziare ricerca di sinistra, e dunque l’università sia per antonomasia lo spazio della cultura di sinistra, intesa come cultura positiva in una scala di valori stabilita a priori (dove anche le culture liberali di destra, per dire, non trovano piena cittadinanza). Magari, ripeto, sono io che leggo troppo e male tra le vostre righe;
3) quali sono le alternative? La domanda è posta in modo sbagliato, lo so, però a questo punto si rischia effettivamente di cadere in un cliché di tipo europeo. E qui bisogna partire dalla abissale differenza tra i due sistemi accademici, quello americano e quello europeo-continentale. Per quanto riguarda l’America, parliamo di università private, che hanno una totale autonomia sulle scelte e le politiche culturali. La questione, per gli studiosi americani, più che scientifica mi pare a questo punto più etica. Nel contesto europeo-continentale, invece, proprio perché è lo Stato a finanziare le università, la situazione è diversa, perché le scelte culturali sono guidate da valutazioni nazionali che ammettono solamente certi “paradigmi” accademici, rischiando di lasciarne fuori altri. Faccio un esempio, e un esempio che mi riguarda, perché so di predicare bene e razzolare male. Pensiamo al ruolo che viene attribuito alla filologia in Italia – quante volte abbiamo sentito lamentele al proposito, o ci siamo lamentati noi stessi? E dire che la filologia è una disciplina che, fatta come è fatta da molti studiosi, è diventata un “rituale” che tende a ignorare i propri fondamenti storici e teorici, e si crede fondata su origini mitiche mai scalfite, e sulla voce di “auctoritates” raramente messe in discussione. Il venerato e famigerato binomio “filologia e critica”, che in realtà ha una storia ben precisa e teoricamente ben più complessa e pericolosa di quella propagandata, continua a dominare parte della nostra ricerca, senza che nessuno si occupi di metterne in discussione la legittimità. Non di distruggerlo, questo no: semplicemente, di capirne le ragioni, senza farne una bella storia scritta su carta da zucchero e fatta di inesorabili tappe verso la conquista della Verità.
Naturalmente, scrivo tutto questo sine ira et studio: sono considerazioni puramente personali, che non voglio diventino motivo di irritazione o di discordia. Sapete benissimo che, per dirla in modo brutale “siamo dalla stessa parte”: l’Inghilterra, per me, ha significato proprio lo scontro con i gender studies, i post-colonial studies e le varie altre “cose” col trattino (le discipline dove c’è solo il paradigmatico e non il sintagmatico, come direbbe Bottiroli).
Dietro precisazioni, glosse erudite e qualche giudizio frettoloso, mi sembra sfugga a diversi commentatori un punto essenziale che la provocazione mette in luce e che i tre traduttori descrivono perfettamente: una tendenza che premia un uso selvaggio, superficiale, insieme (che paradosso interessante) narcisista e moralista di una “decostruzione” ridotta in pillole funzionali al marketing universitario dell’anglosfera e alla sua logica produttiva, che incentiva la tribalizzazione del discorso pubblico, che resta indifferente alle implicazioni culturali e dunque autenticamente politiche del proprio operato, è sintomo della crisi generale di una intera forma di pensiero, più che una aberrazione temporanea.
“Un altro elemento del saggio che ci è piaciuto è che, a differenza del vecchio Affare Sokal, qui il proposito non è ridicolizzare la cultura umanistica dichiarandone la nullità rispetto alle scienze dure, ma esporre la vacuità di una cultura di ricerca che non si sostiene su rigore, intelligenza, creatività, ma esclusivamente sulla ripetizione di formule facili, accettate in quanto allineate ad alcune direttive ideologiche.”
Ma il proposito non era quello, come è stato già notato nei commenti. Riporto dalla prefazione all’edizione inglese: “Ovviamente, non abbiamo scritto questo libro unicamente per mettere in rilievo qualche abuso isolato. Abbiamo in mente obiettivi più estesi, ma non necessariamente quelli che ci vengono attribuiti. Questo libro ha a che fare con la mistificazione, il linguaggio deliberatamente oscuro, le forme di pensiero confuse e il cattivo uso dei concetti scientifici. I testi citati potrebbero essere la punta di un iceberg, ma l’iceberg andrebbe identificato *con un insieme di pratiche intellettuali e non con un gruppo sociale*”
E prima ancora: “non pretendiamo con ciò di invalidare il resto del lavoro di tali autori, su cui sospendiamo il giudizio”.
Dunque mi chiedo come si faccia a pensare che Imposture Intellettuali volesse ridicolizzare la cultura umanistica dichiarandola nulla? Questo mi è sinceramente oscuro e mi porta a pensare che uno dei grossi problemi a monte è che la gente legge e capisce quello che le pare. Un gigantesco bias cognitivo. L’unica soluzione che mi viene in mente, macchinosa, è che non si possa pubblicare alcun testo previa correzione. Pene corporali, anche. Dove non arriva l’autocritica deve arrivare il terrore. Inauguro gli studi del pentimento!
“ Martedì 1 novembre 2016 – Poi penso che senza un po’ di risentimento, di « rancura », direbbe quello, non si combina niente. Il fatto è che la rancura, il risentimento, è come il coraggio: se uno non ce l’ha non se può dare. Così può succedere di avere perduto tutto, di stare malissimo, di essere « più di là che di qua », e, ciononostante, non riuscire a provare risentimento, non riuscire a sentire niente… “.
FF vs PPP chiudi la pagina Wikipedia e comincia da qua: https://www.jstor.org/stable/1344279?seq=1#page_scan_tab_contents
Con questo sull’argomento non diciamo più niente perché lo scopo della traduzione era un altro, ma qualcuno “guarda il dito”.
https://youtu.be/l6bbqJFEzRk
@ Federico:
ti ringrazio per le tue precise e attente considerazioni, in particolare per il punto 3, che credo sia di vitale importanza per problematizzare i rapporti tra ideologia e critica – e da cui discende, a grandi linee, anche il punto 2.
Ora, di fondo c’è evidentemente un problema di onestà intellettuale che si traduce nello sfruttamento di determinate strutture paradigmatiche volte a creare un ascensore sociale accademico. A un livello superiore, però, c’è anche la totale assenza di problematizzazione delle strutture stesse del pensiero, che per quanto mi riguarda rappresenta la questione più importante. Non credo che negli Stati Uniti sia predominante la sfumatura etica in questi discorsi; o meglio, possiamo leggere in chiave etica la strumentalizzazione politica ed economica – perché di politica e di economia si tratta – di determinati paradigmi, ma il principio (analitico) che muove le trame di questi discorsi è e rimane di natura paradigmatica.
“Questo è un articolo fantastico – incredibilmente innovativo, con un’analisi complessa e estremamente ben costruita. Tiene in conto tutta la letteratura del settore e le questioni teoretiche che il problema comporta. Il modo in cui l’autore sviluppa tesi e corollari dell’articolo è impressionante. Il lavoro sul campo contribuisce immensamente alla fattualità dell’articolo quale innovativa e valida ricerca, sviluppatasi su campi differenti e interdisciplinari. Credo che questo articolo, empiricamente e intellettualmente valido, debba essere pubblicato e mi congratulo con l’autore per il suo lavoro. – Primo Revisore, Gender, Place, and Culture […]
Poi scusate, ma tutto questo entusiasmo per un articolo è normale? Tutti a dire male di Baricco e poi si fanno di coca di nascosto.
@ Un altro che studia negli Stati Uniti
Francamente non era e non è nostra intenzione delegittimare gli studi umanistici “oggi (in Italia come negli Stati Uniti)”. Io sono molto contento della formazione universitaria che ho ricevuto in entrambi i paesi. La traduzione di questo articolo voleva sì denunciare una pratica molto diffusa nei sistemi di pensiero (non solamente analitici e/o anglo-americani), ossia l’applicazione sistematica di formule (vuote) volte a produrre un’ideologia politica e non una forma di conoscenza (anche se l’ideologia politica è di per sé una forma di conoscenza), bensì rimettere in discussione, in chiave propositiva, la metodologia della ricerca.
Per rispondere brevemente alle altre critiche, pure sensate, per carità. L’abbiamo scritto sia noi che gli autori dell’articolo dei rischi che questa posizione comporta (la delegittimazione delle humanities, la destra, ecc.). E però siete così sicuri che questi rischi non siano invece parte integrante proprio della prospettiva portata avanti dagli “studi del risentimento”? Che la delegittimazione sia creata, anche, da questo tipo di studi? Che la destra avanzi sullo scollamento che questi studi creano fra intellettuali e opinione pubblica?
In ultimo, scusate, ma se io un giorno mi sveglio e, per pigrizia, ignoranza o altro, decido di mandare un articolo di merda a una rivista accademica e quella me lo pubblica, la colpa è mia o della rivista? E su!
Cerco, dopo le cazzate, di offrire un punto di vista differente: l’articolo si concentra su corruzione e ideologia, che certamente giocano un ruolo, come si è già discusso da queste parti intorno al politicamente corretto. Ma credo che il punto sia un altro, laddove si chiede, cosa che faccio anch’io nel mio insignificante piccolo, rigore. Anche io chiedo rigore su LPLC, ma il fatto è che non essendo dentro al mondo accademico non conosco certe procedure. Leggendo i commenti dei revisori a me pare però che la faccenda sia diversa e più banale. Ovvero questi revisori, questi studiosi, sono semplicemente un po’ scemi. Non si può chiedere maggior rigore nel valutare certe tesi, perché non è questione di dati e di esperimenti.
“La materia dell’articolo è piuttosto originale e coinvolge una tematica rilevante connessa a categorie emarginate. Il saggio si concentra sul bodybuilding come elemento di un’attività stigmatizzante verso i corpi grassi, e invoca il bodybuilding per ciccioni come un “modo per distruggere lo spazio culturale del bodybuilding tradizionale”. – Revisore 1, Fat Studies
Se uno pensa che il bodybuilding sia stigmatizzante non è che puoi discuterci più di tanto.
“L’uso del termine ‘frontiera finale’ è problematico. Il termine frontiera implica l’espansione coloniale, la conquista ostile, il genocidio delle popolazioni indigene. Usare un termine differente.” Revisore 3, Fat Studies
Se uno pensa che il termine frontiera implichi espansione coloniale c’è poco da chiedere rigore. Non è che se fossero più rigorosi cambierebbero idea su certe cose. E neanche se fossero meno risentiti. Il risentimento è la benzina che ti fa muovere, ma le idee non vengono dal risentimento.
Questo commento: “Un aspetto a cui ho pensato è stata la misura in cui la violenza metasessuale, e in particolare la masturbazione non consensuale, introduca incertezza in tutte le relazioni. Non è possibile per le donne sapere se un uomo si è masturbato pensando a loro e ritengo che potrebbe essere possibile, dal punto di vista teorico, fare leva su questo aspetto “inconoscibile” della violenza metasessuale. Potrei anche immaginare scenari in cui gli uomini potrebbero armarsi di questa inconoscibilità in modi molto tangibili. Ad esempio, l’ambigua affermazione “Penso a te tutto il tempo” detta da un uomo a una donna senza esplicita richiesta diventa particolarmente insidiosa considerato il contesto strutturale della violenza metasessuale nel mondo. Non so se gli autori vogliano prendere questa direzione con questo saggio, ma posso ipotizzare una sezione che discuta l’ambiguità e l’ansia che la violenza metasessuale introduce nelle relazioni interpersonali e come la violenza metasessualeo aggravi altre forme tangibili di violenza.” Revisore 1, Sociological Theory
Questo commento è emblematico. Non è il commento di una persona corrotta o faziosa o distratta. Questa persona parla di masturbazione non consensuale seriamente.
“ Mercoledì 4 settembre 1996 – Ripenso a quello che ieri diceva Ferreri e cioè che al cinema ci si fanno le seghe e che ogni tanto c’è anche qualche signora che ce le fa. Poi leggo sulla « prima » di Repubblica che a Palermo hanno arrestato una maestra di una scuola materna per violenza sessuale: « l’accusano i racconti dei bambini », dice il giornale. Quando alla fine – ormai sono arrivato davanti alla biblioteca dove lavoro – leggo sul manifesto bagnato di pioggia: « l’Agro Pompino / un amore sempre fresco » so di sbagliare ma non mi meraviglio: i racconti dei bambini a lungo andare confondono. “.
il punto infatti non è far cambiare idea a questi revisori ma cercare di vedere se si può creare a sinistra un’opposizione a questa tendenza senza screditare del tutto le humanities o cadere a destra, poi magari chi è più dentro questo sistema potrebbe dirci se, brutalmente, questi ci sono o ci fanno, cioè se davvero sono convinti di ciò che scrivono oppure si adeguano a una linea editoriale per avere vantaggi pratici, in realtà ci viene già detto che si tratta del secondo caso e allora chiedo perché certe riviste hanno un certo prestigio, come l’hanno guadagnato, come lo mantengono invece di essere presi accademicamente a pernacchie e così via
poi questo articolo va a toccare talmente tante cose, dal politicamente corretto alla distanza fra intellettuali e opinione pubblica (e si potrebbe tirar dentro anche il femminismo alla #metoo, che mi pare abbeverarsi a queste stesse fonti) che spunti di discussione potremmo averne all’infinito, ad esempio a me questi finti articoli ricordano la beffa dei falsi Modigliani (dove anche lì, dopo aver provato a difendere opinioni indifendibili l’ultima mossa fu accusare gli autori dello scherzo di voler delegittimare Modigliani, dov’è che l’ho già sentita?) e quindi si potrebbero fare discussioni su quanto il mondo accademico sia una echo chamber eccetera eccetera
“ 16 settembre 1984 – « Allora o qualcuno mente o magari nel fosso ci sono altri quattro Modigliani falsi. Ad ogni buon conto sulla spalletta del canale i livornesi hanno appeso un cartello: “ Attenzione, caduta teste “. » (Dai giornali) “.
Grazie ai curatori per avere messo in circolazione l’articolo, comunque interessante. Devo ammettere che la sezione più illustrativa ha effetti esilaranti: lo stile da beffa dadaista è arguto, efficace, adattissimo a colpire e ridicolizzare i meccanismi interni di un sistema.
Solo qualche commento sui punti che mi lasciano perplesso:
1) Trovo anch’io pessima l’etichetta (a monte nell’articolo) “studi del risentimento”, inevitabilmente connotata nel senso di Bloom;
2) La riflessione “filosofica” sulla verità oggettiva, per dirla in termini politicamente più scorretti rispetto ai curatori, è demenziale: ingenua, rozza e infondata dal punto di vista epistemologico; decisamente conformista (questa sì) dal punto di vista ideologico, con l’attacco ormai mainstream al costruttivismo (di questi tempi, poi!);
3) Trovo inquietantissima, nei contenuti e nei toni, una delle soluzioni proposte nel “che fare?” finale: “La nostra raccomandazione è innanzitutto un invito a tutte le principali università a intraprendere una revisione critica di queste aree di studio (studi di genere, teorie critiche della razza, teoria postcoloniale e altri campi di ricerca basati sulla “teoria” all’interno delle discipline umanistiche e delle scienze sociali, in particolare sociologia e antropologia), per poi poter distinguere le discipline e quegli studiosi che producono conoscenza da coloro che generano soltanto una sofistica costruttivista”. Sembra di sentire un funzionario dell’Anvur, che almeno non si è ancora spinto a valutare il merito scientifico del sapere “prodotto”. Ma forse ci siamo vicini. Brrrr…
4) Soprattutto mi colpisce il proposito di attaccare un settore specifico della ricerca accademica, se non altro perché è egemone in alcune zone (ma molto meno in altre, basti pensare all’Italia), salvando invece il sistema nel suo complesso. Varie formule retoriche che punteggiano l’articolo dicono più o meno: voi penserete che il problema sia il sistema folle del publish or perish, che il controllo del sapere sia uno dei cardini dell’università neoliberale, che la revisione paritaria faccia acqua da tutte le parti ecc. ecc., e invece no, vi sbagliate: è un problema specifico di questi studi, mela marcia in una cassetta di frutta in gran parte buona. Ma siamo proprio sicuri che, al di là degli aspetti grotteschi messi in luce dall’articolo, e al di là dell’evidente idiozia dei singoli revisori, non ci sia un problema generale? (E questo non significa gettare fango su tutta l’università o peggio, in un caso come il mio, sputare nel piatto in cui si mangia, ma semplicemente avere la libertà di dire che qualcosa non va in un’istituzione in cui si continua a credere, che è anzi uno degli ultimi presidi di civiltà nel mondo in cui viviamo). A quanti altri ambiti di studi si potrebbe estendere la stessa inchiesta, con effetti magari meno farseschi (certo, qui i sex toys o i ciccioni bodybuilders aiutano parecchio) ma altrettanto deprimenti? Siamo sicuri che la revisione tra pari non sia un sistema potenzialmente virtuoso ma ormai fuori controllo, anche nell’organizzazione “taylorista” a cui sono costrette le riviste? E soprattutto: come si fa a non pensare che fenomeni come questi siano parte di un processo più generale di governo del sapere, perseguito in modo acefalo ma capillare attraverso le tecnologie della valutazione, le strategie di valorizzazione del capitale cognitivo, le leggi di quello che viene apertamente chiamato “il mercato intellettuale della ricerca”? Circa vent’anni fa Remo Ceserani, piuttosto esperto di cose americane, descriveva i risvolti postmoderni dell’involuzione della teoria letteraria tardonovecentesca e parlava di un “supermercato dei metodi della critica”. Del resto, il conformismo accademico indotto dai sistemi di valutazione e dalla necessità di vincere finanziamenti è un effetto distorsivo ampiamente descritto, e da molto tempo, nell’ambito delle scienze dure. Che si parli di fallocentrismo o di materia oscura, la posta in gioco è soprattutto una: la libertà della ricerca. E dunque, anche se spesso è lettera morta come tanti altri pezzi della Costituzione, viva l’articolo 33!
@ Mimmo Cangiano
“FF vs PPP chiudi la pagina Wikipedia e comincia da qua:
Con questo sull’argomento non diciamo più niente perché lo scopo della traduzione era un altro, ma qualcuno “guarda il dito”.”
La pagina wikipedia non l’avevo neanche aperta, questa insinuazione a cosa è dovuta? Che lo scopo della traduzione fosse altro ce l’ho bene in testa, come confermano gli altri miei commenti e come è ovvio. Ma se nella premessa a questo articolo scrivete tot cose su altri argomenti, e a me a Federico è saltato all’occhio, che secondo me sono sbagliate per quello che ho letto, la confutazione della mia critica dovrebbe avvenire mostrando il mio errore, non linkandomi a un altro studio, cosa che avrei apprezzato se fosse stata anche motivata in qualche modo, mentre così è come dirmi “vai a studiare e poi potrai parlare”. Ma non vedo cosa dovrei studiare, voi avete attribuito delle intenzioni a Sokal, o le intenzioni erano quelle che dite voi o erano quelle che ho riportato io prendendole dal libro scritto da Sokal e Bricmont. Questo è il rigore.
@Alberto Comparini
A me pare invece che questo tipo di attacchi fingano di muovere una critica metodologica per portare avanti una specifica agenda ideologico-politica (come emerge dal commento di Federico Bertoni) volta a delegittimare gli studi umanistici in toto.
Faremmo bene anche a sottolineare che il campo dei “resentment studies” ha prodotto eccellenti analisi dei rapporti tra eteronormatività, disuguaglianza sociale ed economica, genere e razza (studi che esiterei a definire di vuota ideologia). Che poi, quando anche gli studi marxisti verranno bollati come “resentment” (dei poveri, degli esclusi), che si farà?
Per finire, gli articoli dell’hoax non sarebbero mai stati pubblicati in riviste più accreditate (se si esclude Hypatia, le altre riviste sono pressoché sconosciute e accademicamente ininfluenti).
Penso che questa missione da infiltrati come ai tempi della fu cortina di ferro nei meandri sciocchi dell’accademia statunitense di medio calibro riveli piu’ degli autori che degli oggetti del loro esperimento. Che l’umanesimo anglofono sia sostanzialmente un oceano di cazzate ad associazionismo libero, e’ ormai assodato; che anche in Italia si arrivi infine a realizzarlo, e’ un progresso rispetto ai tempi in cui il privilegio delle libere cazzate era consentito solo a cazzari sommi tenurati, ordinati o baronati. Tali cazzari nostrani, peraltro, hanno mistificato a lungo a fini ideologici di sinistra con grande seguito di sciocchi e rivoluzionari, alcuni anche armati. Insomma, se il compagno Mimuch Cangianov scopre il relativismo stupido dell’Occidente nel 2018, e’ un progresso suo, magari il prossimo reportage lo fara’ dalla Silicon Valley, dove c’e’ pane piu’ adatto e direttamente impattante sui macrofenomeni ai quali tiene come studioso. La vita media degli shit academics da Nowhere, Nowhereland, somiglia tanto ai pistolotti che leggevamo su Nazione Indiana nel decennio scorso, un po’ meno stupidi cognituvamente ma altrettanto stolidi nella loro specifica ideologia,
@Un altro (ma firmarsi?)
La critica è solo apparentemente metodologica, su questo hai ragione, ma perché a bersaglio ha la diffusione mercificata di un certo approccio alla ricerca fatto della ripetizione di formule divenute stantie, sostenute soltanto dal mainstream corrente, vale a dire dall’egemonia che si è creata in un determinato settore dell’accademia. Io, a differenza dei tre autori, non credo a una fantomatica libertà della ricerca (ripetiamo: la parte sull’oggettività è debolissima), credo alla lotta di posizione fra ideologie differenti, lotta che, per me, ha come prima finalità la discussione su come gli intellettuali debbano intervenire nella vita politica. Il tipo di intervento che questa cultura sottende è per me assolutamente perdente (come si è visto con Trump), e dunque diventa finalizzato solo a silenziare chi, nell’accademia, la pensa in modo differente. Che poi ci sia il rischio che questa critica sia strumentalizzata per delegittimare gli studi umanistici l’abbiamo detto sia noi nell’Introduzione che gli autori nell’articolo, quindi…. inoltre almeno uno degli autori dell’articolo lavora proprio nel campo umanistico.
Ci sono stati risultati importanti che sono ormai parte del bagaglio culturale di chiunque lavori in accademia (gender studies, decolonial, etc.), e da ciò non si tornerà indietro. L’articolo dimostra che poi tutto ciò è diventato ben altro, e mi pare che lo “scherzo” lo dimostri efficacemente. Sugli “studi marxisti” fai confusione: la maggior parte degli appartenenti alla corrente qui descritta ti si dichiarerà marxista, ma definirà l’approccio marxista precedente come “class reductionism”. Quindi, anzitutto, non mi pare che siamo noi che non vogliamo tenere unito il fronte (come scrivevi nel commento precedente), e, in secondo luogo, per me almeno, la sempre minore insistenza sul concetto di “classe” rende inevitabilmente questi studi la controparte intellettuale di un approccio politico liberale, esclusivamente interessato, nei suoi differenti filoni, a coltivare i differenti bacini di appartenenza all’interno di un sistema che si vuole modificare solo per via culturale e educativa, e dunque solo a livello sovrastrutturale. Questo, ovviamente, per noi non è marxismo, e mi spiace ma non ho alcun interesse a coccolare soggetti identitariamente minoritari ma appartenenti di fatto a un’abbastanza sicura middle class. Riconosco perfettamente la condizione difficile della professoressa universitaria di Georgetown rispetto ai suoi colleghi maschi, ma fra lei e il contadino bianco e trumpiano del Wisconsin continuo a ritenere vittima il secondo. Inoltre chi appartiene a questa corrente non ha alcun interesse a creare una possibile alleanza col contadino di cui sopra, vuole di solito solo insultarlo, e pretendere poi che voti per i democratici.
L’ultima frase è una cavolata e lo sai benissimo. 2 delle 7 riviste sono ininfluenti, le altre 5 sono altamente considerate. Hypatia è solo la più antica (mi pare) e quella con storicamente maggior visibilità, ma le altre 4 (a cominciare da “Gender, Place, and Culture”) sono altamente influenti. Aver piazzato 5 articoli del genere mi pare comunque una cosa gravissima, o no?
@Il FuGiusco,
tu non è che non ci arrivi per mancanza di intelligenza, è solo che quando arriva il momento di mettersi a pensare sei sfortunato.
@Mimmo Cangiano
A me pare che questa lotta tra posizioni ideologiche all’interno di un settore (l’università e in particolare la ricerca umanistica) sempre più strutturalmente marginalizzato e sotto attacco da parte di settori (questi sì egemonici) che ne vorrebbero la scomparsa sia semplicemente deleteria. Innanzitutto, si fonda su quello che Freud chiamava “il narcisismo delle piccole differenze,” che nell’attuale situazione socio-politica non fa altro che legittimare posizioni neoliberiste, destrorse, imbevute di un falso anti-elitarismo che fa solo bene alle reali elite economiche. Inoltre, se riconosci che “la parte sull’oggettività è debolissima”, non mi capacito di come si possano appoggiare questi presunti smascheramenti, che proprio su questa pseudo-oggettività fondano le proprie conclusioni.
Poi non capisco dove finiscano i “risultati importanti” e dove inizi il “ben altro”. Mi sembra una linea di demarcazione perlomeno labile. In ogni campo di studi c’è della ricerca di bassa qualità, ma ciò non mi pare sufficiente per una condanna in toto.
Per quanto riguarda la critica di “class reductionism”, credo che le specificità della storia americana (delle Americhe, non solo degli Stati Uniti) abbiano portato studiosi di varia provenienza a considerare (giustamente) altre matrici, oltre alla classe (si veda il lavoro di Quijano e Wallerstein per esempio). E voglio sottolineare che spesso mi trovo io stesso a discutere con professori e studenti che lavorano in questi ambiti del fatto che questioni prettamente socio-economiche e di classe non vengono considerate abbastanza. D’altro canto, nell’accettare le istanze del contadino bianco del Wisconsin senza considerare elementi sovrastrutturali si rischia di ricadere in una forma di marxismo volgare, o di causalità meccanicista, che Williams, Althusser, o lo stesso Jameson mi pare abbiano definitivamente demistificato. Aggiungo poi che la situazione politica attuale in Italia mi sembra stia segnalando che è proprio all’intersezione di classe, razza e genere che si legittimano e perpetuano disuguaglianze nell’episteme neoliberista.
La questione dell’impatto di quelle riviste la lascio alle percezioni personali; a me continuano a sembrare pubblicazioni di scarsa rilevanza; e con ciò non voglio negare che la gravità del fatto, soltanto ridimensionarne la portata.
Per concludere, la mia critica è rivolta ad un errore fondamentale che secondo me fate nel dare visibilità a questo hoax, i cui autori mi sembrano semplicemente cattivi alleati (se si vuole, come giustamente dici, portare avanti un dibattito sul ruolo degli intellettuali nella comunità sociale e politica odierna). Se i vari Preve a Fuffaro nostrani ci insegnano qualcosa, è che il passo dalle lotte interne al mondo intellettuale alla legittimazione ideologica di politiche identitarie e reazionarie è più breve di quanto si creda.
Anch’io insegno negli Stati Uniti, conosco molte realtà accademiche e posso dire che, sì, certe derive verso il nonsenso capitano; non tanto spesso, ma capitano. La risposta, penso io, sta nel sapersi mettere onestamente in discussione e quindi relativizzarsi in quanto interpreti. Non si può fare un feticcio della metodologia interpretativa a scapito della concretezza storica dei testi e dei fenomeni. Come tutti sappiamo, testi e comunità interpretative sono in rapporto dialettico continuo e che si chiarificano a vicenda. Quindi le comunità interpretative debbono essere consapevoli dei loro limiti, altrimenti riducono i testi a feticci, come faceva, spesso, il ‘mainstream’ critico americano (e non solo) tra anni cinquanta e sessanta e come ogni tanto fanno anche le fronde di minoranza sessuale ed etnica della critica militante. Ogni tanto, forse, bisognerebbe lasciare che fossero i testi a interpretare noi, secondo quella pratica destabilizzante (“technique of trouble”) definita umanesimo non tanto da Petrarca, ma da Edward Said (“Humanism and Democratic Criticism”, Columbia University Press, 2004, p. 77).
@Un altro
Davvero non è “narcisismo delle piccole differenze”. C’è per me in gioco tantissimo, proprio a livello politico. E certo sono d’accordo che bisogna evitare qualsiasi deriva à la Fusaro e/o sovranista, mi chiedo però perché l’accento debba essere sempre posto sui rischi che la posizione culturale in questo momento subalterna (quella che stiamo difendendo noi), e mai invece su quella che è, ora, comodamente egemonica. Parto, per risponderti, proprio dal livello spicciolo e passo dopo alle cose più serie: c’è o non c’è in questo momento all’università un sistema di consenso che tende a silenziare le posizioni politico-intellettuali alternative? Questo sistema, che si è mostrato completamente inefficace sul piano politico, creando inoltre la sensazione di una frattura insanabile fra “torre d’avorio” dell’accademia e elettorato, non si è forse limitato alla protezione di quei settori identitariamente minoritari appartenenti alla middle-class? Non è proprio ciò che ha fatto, almeno in parte, la fortuna di ciò che tu chiami, giustamente, “falso anti-elitarismo”? E, passando alle cose serie, questa frattura non si origina proprio nell’idea che sia possibile modificare la prassi a colpi di sovrastruttura educativa? E questa idea non implica necessariamente il presupposto “peloso” che siano gli intellettuali a dover guidare la trasformazione? E (è un serpente che si morde la coda) ciò non si basa proprio nel non-volere instaurare una relazione dialettica (non siamo noi i marxisti volgari!) fra cultura e situazione concreta esistente?
Sulla questione dell’ “oggettività” il problema è ancora lo stesso. Sono d’accordo con te che la soluzione non è quella presentata dai tre autori secondo cui esiste un’oggettività scientifica da contrapporre al “construttivismo radicale”. Ma ancora una volta si pone l’accento solo sulla posizione subalterna. E provo a spiegarmi: 1) da un lato quello che chiamano “costruttivismo radicale” si muove in una profonda contraddizione fra scetticismo radicale e essenzialismo da identity politics; 2) in secondo luogo lo scetticismo radicale è esso stesso ciò che i costruttivisti chiamerebbero “costrutto sociale”, e io chiamerei invece riflesso teorico di ciò che avviene sul piano della prassi, e come tale destinato a mutare in seguito a possibili mutamenti della prassi stessa (come il mero “marxismo culturale” dei costruttivisti invece non rileva, perché giudica eterna, oggettiva, la sua epistemologia scettica). Detto in altro modo, la stessa idea della non-possibile esistenza della verità oggettiva è un prodotto sociale, un riflesso teorico della prassi. I costruttivisti, in questo davvero nipotini di Nietzsche molto più che di Marx, pensano che sia la loro epistemologia scettica ad avere rivelato la realtà del mondo, ma non si rendono conto che quella stessa epistemologia scettica è un prodotto del reale, della realtà, storica, in cui stiamo vivendo, e in particolare è un prodotto del trionfo di una classe-media intellettuale che si crede autonoma, non soggetta alle spinte sul piano della prassi, e questo perché si sono bevuti, come un po’ tutti gli altri, la favoletta che il mondo sia ormai composto a maggioranza di middle-class. “Il relativismo”, dice Lukacs (non c’è bisogno di arrivare a Jameson, il marxismo volgare è stato demolito cento anni fa) “si muove in un mondo per sua essenza in quiete”, perché non riesce a riconoscersi come legato dialetticamente alla prassi del reale. Questa è una grande mancanza della teoria costruttivista, il rifiutare di essere in rapporto dialettico con quanto accade sul piano della prassi, cioè con quanto accade nell’azione dell’attuale classe dominante. Come vedi non sto difendendo alcun marxismo volgare, sto cercando di spiegare che ciò che il campo che tu difendi si è perso è proprio la relazione fra teoria e prassi. Se noi siamo marxisti volgari, allora devo dire che questi altri sono volgari idealisti, e lo sono e possono esserlo appunto perché, chiusi nel loro ridotto spazio d’azione, ciò che sognano è la rivoluzione di un popolo che non esiste con a capo la middle-class illuminata.
Spiega tutto benissimo, in relazione al femminismo e interpretandolo come uno scontro fra femministe della seconda e della terza generazione, quel mito assoluto che è Gail Dines:
https://www.youtube.com/watch?v=kDcTt0emXhE
Non darmi del “ben altrista”, cerchiamo di non buttarla in caciara che spesso le accuse di “ben altrismo” servono a dire “va bene ci sono i poveri, ma cerchiamo di non perdere di vista il mio piccolo privilegio da difendere”. Non è questione di preferire un approccio di classe contro un illuminato approccio intersezionale. Il problema è che l’approccio intersezionale non è interessato a socializzarsi (in senso gramsciano) e quindi, per tale ragione, può limitarsi a segnalare le disuguaglianze senza doversi porre il problema di relazionarsi alla sfera del consenso (consenso qui vero, non consenso accademico) che è fatta anche di bianchi trumpiani (uomini e donne). E poi, davvero, come possiamo essere a noi a voler dividere il fronte quando i construttivisti radicali sostengono che la resistenza non può essere guidata da Sanders perché maschio/bianco? Ancora: scetticismo radicale + essenzialismo = misticismo dell’Altro. E no, il fatto che una donna nera sia fra gli invitati al matrimonio dei monarchi inglesi non è l’inizio della rivoluzione.
Sì, le diseguaglianze si perpetuano all’intersezione di classe, razza e genere, il problema è capire dove intervenire per eliminarle. L’approccio “vote for me, you piece-of-shit” si è mostrato ampiamente perdente. Partire dalla classe non significa fregarsene di genere e razza, significa individuare lo spazio in cui le alleanze e i conseguenti vantaggi comuni possano diventare chiari. Solo in questo modo si passa dalla mera egemonia accademica (che è semplice conquista di potere nello spazio chiuso e middle class dell’università), a un tentativo di egemonia reale.
Perché (mi si consenta una coda) al di fuori di un sano umanesimo dell’inclusione, e quindi destabilizzante, ogni politica identitaria si rivela appunto per quello che è: una forma di reazione, un’affermazione nevrotica del principio d’identità (A è A, cioè “io sono io”) fondata sulla paura, che esattamente quello che, credo, tutti vogliamo evitare.
Eccezionali i ragazzi americani, siamo al livello (eccelso) della beffa dei Modigliani (ecco qua il riferimento per loro: http://best-hoaxes.blogspot.com/2010/01/modigliani-practical-joke-of-livorno.html ).
Avanti così!
Onestamente mi pare che questi geni siano riusciti a dimostrare che nel mondo accademico paga scrivere su argomenti di moda – tutto qui. Ma complimenti, che grande scoperta! Chiedete agli scienziati quanto aggiungere a titoli e abstract le magiche paroline “machine learning” aiuti a vincere grant e fondi per conferenze. Questo significa forse che l’intero campo sia corrotto o poco degno di nota? No, semplicemente che l’accademia è naturalmente vittima degli stessi meccanismi di persuasione, mercificazione, bias che colpisce il resto del mondo.
Come è chiaro dalle loro biografie intellettuali e “social”, i tre autori sono da tempo impegnati a ridicolizzare e demonizzare al contempo l’intero campo dei gender studies. Il problema è che uno studio finto e mal argomentato sul body shaming non implica che non ce ne possano essere di valore. A meno che, come sospetto, il vero scopo degli autori sia buttare in vacca qualunque studio o disciplina che odori solo vagamente di gender studies. Che si accomodino, ma pretendere di aver dimostrato chissà che cosa con questo loro esperimento rivela una palese fallacia logica.
Un paio di articoli che argomentano in modo abbastanza persuasivo quel che ho sin qui sostenuto sono apparsi su Slate e Vox (ma ci sarà sicuramente di più e di forse meglio in giro); copio e incollo un paio di passaggi dal secondo:
https://slate.com/technology/2018/10/grievance-studies-hoax-not-academic-scandal.html
https://www.vox.com/2018/10/15/17951492/grievance-studies-sokal-squared-hoax
But the hoax doesn’t show that fake papers are more likely to be accepted than real papers, nor does it show that gender studies and journals of poststructural theory are more likely to accept fake papers than those in any other field. Without this kind of comparison, it’s hard to know if gender studies is uniquely corrupt — or if there’s a bigger flaw in the peer review system writ large.
[…]
[T]he Grievance Studies hoax doesn’t discredit the idea of “systemic” racism or sexism; all it’s shown is that work that depends on related ideas can be bad and still get published.
Pluckrose et al. have failed to show that qualitative inquiry informed by poststructural theory is particularly prone to being manipulated, or that the core claims in the various identity studies disciplines are invalid.
“ 17 luglio 1991 – Dice Garboli dell’università: « Un’isola potrebbe essere rappresentata dallo specialismo disciplinare, dalla roccaforte degli alti studi. Ma è una pia illusione. Lo spirito corporativo, il trionfo della mediocrità, la prepotenza delle baronie, lo spirito di corpo vi sono mali ormai comici [sic] contro i quali il solo rimedio possibile è di riderci sopra. » (In refuso veritas) “.
Il ritratto della critica letteraria oggi è quello della Bibbia legata al leggio nel negozio “L’amico del mendicante” all’inizio dell’ Opera da Tre Soldi: il testo serve solo a mungere fondi in qualche maniera. “Appunto, bisogna sempre offrire qualcosa di nuovo, bisogna continuare a spremerlo dalla Bibbia; ma quanto può ancora durare?” Meglio fondare una banca.
Un doveroso follow-up. Poco tempo fa Peter Boghossian si è dimesso dalla Portland University. In seguito a questo articolo è stato accusato di aver fatto esperimenti su soggetti umani senza il loro consenso (ha dovuto anche seguire un corso di etica su questo). Ritenendo la situazione non sostenibile ha preferito dimettersi