a cura di Giuseppe Flora e Alessandro Anil
[È in uscita il volume Movimenti Acque Soliloqui. Poesia moderna bengalese, a cura di Giuseppe Flora e Alessandro Anil, per l’editore Officina Libraria. Presentiamo un estratto dell’introduzione e una selezione degli autori in traduzione.]
Modernismo, islam, rivolta: alcune traiettorie poetiche nel Bengala dopo Tagore
“I have Dutch, nigger, and English in me, and either I’m nobody, or I’m a nation.”
Derek Walcott
“Nel vino ho immerso Dio, e ne ho fatto un corpo.”
Shakti Chattapadhyay
Pensare alla letteratura come una zona di tensione, di frizione e influenze, dove si incontrano – e spesso si scontrano – mondi, epistemi, lingue in disaccordo, vuol dire situarla in un crocevia geopolitico, come luogo del rischio. Più che uno specchio della realtà bisognerebbe parlare, in questo caso, di intersezione, zone of contact, direbbe Mary Louise Pratt, o ancora, con Homi Bhabha, come spazio terzo: non appartiene né a una cultura dominante né a una subordinata, ma è lì dove il senso si disloca, si negozia, si reinventa. In un saggio del 1974, Derek Walcott scriveva: “Il problema del poeta antillano non è tanto la perdita della lingua, quanto l’essere abitato da più lingue che non coincidono.” Se Scrivere da più lingue, che non sono solo grammatiche diverse, ma visioni del mondo che non coincidono, è la condizione sempre più diffusa della poesia contemporanea, anche in Occidente – Derek Walcott scrive in inglese da un altro parte del globo con storie, lingue e immaginario completamente diverse – essa è originaria nel caso della letteratura bengalese moderna.
Lingua antica, tra le più ricche dell’Asia dal punto di vista letterario, il bengalese è anche una lingua postcoloniale, divisa, dislocata, che ha attraversato imperi, spartizioni, esili. La frizione si manifesta a più livelli: nel rapporto con l’inglese, lingua della dominazione ma anche della modernità; nella tensione tra sanscrito e urdu, tra la memoria religiosa e secolarizzazione; nella ferita del 1947, quando il Bengala viene diviso tra India e Pakistan, e la lingua stessa diventa terreno di conflitto politico, sociale, intimo. Chi parla? Da dove? Con quale lingua? Con quale identità? Sono domande che quando emergono rendono la letteratura una negoziazione tra diverse forze in gioco e solo dopo, armonia.
Una delle voci che non possono essere ignorate in questo terreno conteso è Rabindranath Tagore, il primo poeta non occidentale a ricevere il Nobel – persino in Giappone uscirono testate con titoli come “Possiamo competere anche noi” – fu anche il primo a incrinare un’egemonia culturale consolidata portando in Europa una lingua asiatica. Eppure, Tagore è figura di soglia ambivalente. L’immagine che l’occidente ha accolto — spirituale, universale, senza attrito — ha finito per coprire la complessità della sua opera, e per lungo tempo ha oscurato le voci che sono venute dopo. Il Tagore tradotto in inglese, e poi in italiano, è spesso un Tagore “levigato”, modellato sulle attese di un lettore europeo ancora fermo in quell’asse hegeliano secondo cui, più ci si spinge verso est, più si torna a una civiltà primitiva, pura e semplice. Ma il vero Tagore — nella sua lingua originaria — era più inquieto, politico, terrestre.
Dopo l’eco universale e levigata di Tagore, la poesia bengalese si frammenta in una serie di frizioni radicali. Con Jibanananda Das entra in scena un modernismo dissonante, che rompe l’unità del soggetto e trasforma la natura in paesaggio postumo: i suoi versi abitano un tempo frammentato e nello stesso tempo ininterrotto, in cui il bengalese stesso sembra doversi riforgiare. Tanto che lo stesso Tagore, nei suoi ultimi anni, non sapeva come giudicare la poesia del giovane Das. Quasi in parallelo, Kazi Nazrul Islam introduce una voce islamica insorgente, mistica e politica, che spezza l’idea di un Bengala pacificato e induista. La sua poesia, in tensione costante tra estasi e rivolta, fa della lingua un campo di battaglia e di preghiera insieme, ponendo al centro la rottura delle caste, la pluralità religiosa, linguistica come fuoco attivo della modernità bengalese, introducendo un elemento sufi in chiave tantrica e distruttrice.
Negli anni Sessanta, la frizione diventa deflagrazione. La Hungry Generation, movimento poetico nato in quegli anni a Calcutta, influenzata dai beat e dalla Barranquilla group ma priva di spiritualismi consolatori — e qui vale ricordare come Ginsberg cercasse in India una spiritualità riflessa, mentre la Hungry Generation voleva, proprio da quella spiritualità orientalizzata, prendere le distanze — introduce una lingua ibrida, orale, oscena e sacra insieme. Una lingua che rifiuta ogni compostezza e ogni trascendenza, e rompe qualsiasi alleanza tra poesia e funzione civile o religiosa. In questa traiettoria si inserisce Shakti Chattopadhyay, che fonde la deriva lirica con un corpo esposto e desolato. La sua voce è mistica e carnale, rurale e visionaria, sospesa tra eros, perdita e memoria allucinata. Una scrittura tesa tra corpo e visione, tra desiderio e disfatta, condivide con il presente poetico più radicale la coscienza della perdita di centro, dell’opacità della lingua, della sua materia viva e non risolta. Ed è paradossale che proprio un poeta come Shakti Chattopadhyay — che ha voluto affermare con forza l’indipendenza della letteratura indiana, rivendicando una lingua sradicata dai modelli coloniali e ostile a ogni deriva occidentalizzante — finisca, quasi ironicamente, per avvicinarsi proprio a quella sensibilità frammentaria e instabile che abita gran parte della nostra poesia europea contemporanea. Come a ricordarci che la letteratura sfugge sempre agli intenti che la generano, e che anche i nostri gesti più decisi si dispongono spesso lungo traiettorie mosse da una sovradeterminazione che ci oltrepassa.
Jibananda Das
Tornerò un’altra volta
Tornerò un’altra volta sulle rive del Dhansiri – in questa terra
forse non più in forma umana– forse nelle sembianze di un falco,
forse come il corvo della prima luce, attraversando il busto della nebbia
durante il raccolto che segna l’autunno, arriverò all’ombra di questo ciliegio.
O forse un’anatra – tra i piedi decorati dalla cavigliera di una giovane ragazza
passerò l’intera giornata a lasciarmi sospendere dall’acqua con l’odore delle alghe.
Tornerò un’altra volta ad amare i fiumi, i campi e le praterie del Bengala,
in questa verde panoramica bagnata dalle antiche onde del Jalangi.
Forse vedrò gli uccelli volare nel vento della sera.
Forse sentirò il gufo geopardato chiamare fra i rami del Shimul.
Forse un bambino sta spargendo crusca sull’erba di un cortile.
Nelle acque torbide del Rupsar forse un giovane dirige la sua barca
dalla vela squarciata; nuotando attraverso le nuvole rosse, nell’oscurità
un’anatra grigia torna nel suo nido. Circondati di tutto questo e ritroverai anche me.
*
Kaji Nazrul Islam
Il ribelle
[…]
Sono la passione nascosta, l’amore di una ragazza irrequieta,
sono la musica tintinnante dei suoi braccialetti!
Sono l’eterno bambino, l’eterno adolescente,
sono la timidezza della giovinezza in erba di una ragazza del villaggio.
Sono la brezza del nord, la brezza del sud, l’insensibile vento dell’est.
Sono la canzone del menestrello, la musica del suo flauto e della sua lira.
Sono la sete estiva insaziata, i raggi cocenti del sole.
Sono la primavera del deserto che scorre dolcemente e l’oasi verde!
Sono la gioia estatica, sono la follia, sono il crollo, sono il crollo della barriera.
Sono l’ascesa, sono la caduta, sono la coscienza nella mente inconscia.
Sono la bandiera del trionfo al cancello dell’universo.
Sono il trionfo dell’umanità!
[…]
Seduto in mezzo al fuoco dell’inferno, sorrido come un fiore innocente!
Sono fatto di argilla, sono l’incarnazione dell’Anima.
Sono imperituro, l’inesauribile, sono immortale.
Sono colui che intimidisce gli umani, i demoni e gli dei.
Sono invincibile, sono il Dio degli dei, sono l’umanità suprema,
danzo, gioco d’azzardo attraverso il paradiso, l’inferno e la terra!
Sono folle, sono folle!
Mi sono reso conto di me stesso, tutte le barriere sono crollate!
Sono l’ascia spietata di Parashuram.
Libererò il mondo da tutti i guerrafondai e porterò la pace.
Sono l’aratro sulle spalle di Balaram.
Sradicherò questo mondo soggiogato nella gioia di ricrearlo.
Stanco delle battaglie, io, il grande ribelle, riposerò in pace solo quando
il grido angosciato degli oppressi non risuonerà più nel cielo e nell’aria,
e la spada insanguinata del tiranno non risuonerà più sui campi di battaglia.
Solo allora io, il Ribelle, stanco della guerra,
riposerò in pace solo allora.
Sono il ribelle Bhrigu, sul petto di Dio imprimerò le orme dei miei piedi.
Sbranerò il Creatore, farò a pezzi il suo indifferente, stravagante petto insensibile.
Sono l’eterno ribelle eroe,
sono salito oltre questo mondo, da solo, con mia la testa sempre alta!
*
Shakti Chattapadhyay
Non è un momento di gloria, non è un momento felice
Dalla testa ai piedi si dondola, nella cornice una cornice, nel muro un altro muro,
i vicoli si scambiano a mezzanotte
è tempo di tornare a casa, dentro un piede un altro piede, dentro la casa un’altra casa,
dentro il petto un altro petto
e poi niente – (molto altro?) – e prima,
dalla testa ai piedi si dondola nella cornice una cornice, nel muro un altro muro,
i vicoli si scambiano a mezzanotte
è tempo di tornare a casa, dentro un piede un altro piede, dentro la casa una casa,
dentro il petto un altro petto,
e poi niente.
“Hands up” – mani in alto – fin quando qualcuno
verrà a prenderti, a portarti
dentro la macchina nera di nuovo una macchina nera, dentro quella
un’altra macchina nera
allineate tutte le finestre, le porte, i cimiteri – sottosopra gli scheletri
dentro gli scheletri le termiti bianche, dentro le termiti la vita, dentro la vita
la morte – quindi
dentro la morte sempre la morte
e poi niente.
“Hands up” – mani in alto – fin quando qualcuno verrà a prenderti, a portarti
a buttarti di sicuro fuori dalla macchina, dentro un’altra macchina
dove c’è sempre qualcuno che aspetta – afferra l’intonaco
dalla melma
qualcuno di sicuro, che non conosci
aspetta dietro una foglia come un bocciolo indurito
il cappio dorato dei ragni nelle mani, l’anello
che ti infilerà – ti sposerai a mezzanotte, quando i vicoli si scambiano
dalla testa ai piedi si dondola
nella cornice una cornice, nel muro un altro muro.
Immagina, hai lasciato la macchina e ora corri verso la stazione, accanto alle lampadine esauste
ci sono le stelle
immagina, le scarpe che camminano, i piedi sono fermi – la terra il cielo, presto o tardi
immagina, sulle spalle di un bambino corre una bara verso il cimitero – più in là
i vecchietti in fila ballano vestiti da sposi –
Non è un momento di gloria, non è un momento felice
proprio allora
dalla testa ai piedi si dondola, nella cornice una cornice, nel muro un altro muro,
i vicoli si scambiano a mezzanotte
è tempo di tornare a casa, dentro un piede un altro piede, dentro la casa una casa,
dentro il petto un altro petto
e poi, niente.
*
Se solo una volta
Se solo una volta provassi ad amare –
potresti osservare, dentro il fiume, i sassi precipitare dal petto dei pesci
rocce, rocce, rocce e acqua del mare-fiume
la pietra blu è rossa, la pietra rossa è blu
se solo una volta provassi ad amare.
È meglio avere delle pietre dentro al petto: se emettessi un suono, potresti sentirne l’eco
quando tutti i sentieri percorribili dall’uomo sono scivolosi, allora si spiegano le vele delle pietre
una ad una come se fossero i gesti minimi della poesia, come le onde e l’icona di Kumartuli
intrecciata da fili medievali, d’oro e di bronzo, così in lontananza potrei pure tornare
dopo aver osservato le porte un po’ sbiadite della stella autunnale.
È meglio avere delle pietre dentro il petto
per quel che si intende «cassetta delle poste» non se ne trovano qui – potresti comunque lasciarle
negli spazi-interstizi delle pietre e hai risolto il problema
molte volte la mente vuole costruire una casa.
Gradualmente le pietre nel petto dei pesci stanno occupando il nostro petto
noi abbiamo bisogno sempre di tutto. Costruiremo case – alzeremo pilastri permanenti della civiltà.
Quando il pesce d’argento se ne sarà andato facendo cadere ad una ad una le pietre
se solo allora provassi ad amare.
*
Sankha Ghosh
La preghiera di Babar
Ecco, mi inginocchio, Occidente,
oggi la primavera ha mani vuote —
distruggimi, se lo vuoi,
ma che i miei figli restino nei sogni.
.
Dov’è finita la sua limpida giovinezza,
dov’è che la corrode una segreta rovina?
Nella coda dell’occhio, queste sono sconfitte
nel caso delle vene arteriose polmonari!
.
Svegliati nel deserto ai margini della città
la canzone di cenere e vuoto del Muezzin,
rendimi pietra, immobile,
ma che i miei figli restino nei sogni.
.
O non c’è sollievo nei germi del peccato
di questo corpo in futuro?
Nella frenesia della mia vittoria barbarica
chiamo la morte nella mia stessa casa?
.
O la luce accecante di questo palazzo
che brucia tutti i cuori e le ossa
e le centinaia di migliaia di stupidi insetti
che hanno costruito nidi all’interno del corpo?
.
Mi hai dato così tanto, nelle mie mani,
eppure, sfaldato, dove lo porterai?
Distruggimi, Dio, se vuoi,
ma che i miei figli restino nei sogni.
*
Il vecchio
Finita la cremazione ognuno è tornato a modo suo
il quartiere dorme
il lamento di uno sciacallo è accanto alla porta
Un vecchio che puliva le macchie di sangue dalla sua stanza
mormora alla sua solitudine –
Restare sveglio
restare svegli è un atto di fede.
*
Joy Goswami
Noi viandanti
Il nome di un albero è albero
il nome della polvere è polvere
il nome del fiume te lo diranno gli abitanti del paese
il nome della casa è casa, cortile quello del cortile
vicino al cortile c’è una donna, quale è il nome di quella donna?
Se proprio vuoi saperlo devi prima saper portare una barca
tirare le redini delle tue qualità
andare a tagliare la legna
cadere nelle mani dei banditi
saltare lo steccato, arrivare fino al cortile
saltando il cortile di nuovo nella stanza
nella stanza quando lei ti si getterà addosso
nel suo vortice sprofonderà il tempo
gli alberi si spaccheranno sopra altri alberi
dall’interno della polvere si alzerà una colonna di polvere
il fiume si infrangerà sopra il paese
non ti ricorderai più allora che il tuo nome è stato viandante…
[Immagine: Il fiume Dhanshiri].