Recensione a Non saremo confusi per sempre di Marco Mancassola

di Clotilde Bertoni

Tra le tante storie di ordinaria ingiustizia che la cronaca ci propina, restano impresse, fatalmente, soprattutto quelle che annoverano tra i colpevoli lo Stato e le istituzioni, e che ricadono su vittime innocenti e giovanissime. Storie come i cinque casi allineati nel libro di Marco Mancassola, Non saremo confusi per sempre (Einaudi, pp. 147, E 16,00), appartenenti a epoche diverse, ma per motivi disparati tutti ancora sotto i riflettori: i colpi di fucile sparati da Vittorio Emanuele di Savoia che costano la vita allo studente Dirk Hamer e una pena irrisoria all’omicida; l’agonia di Alfredino Rampi in fondo a un pozzo di Vermicino attorniato da tentativi di soccorso sempre più inutili e da un circo mediatico sempre più frenetico, quella di Eluana Englaro nel limbo di una non vita protratta all’assurdo dalla rigidità delle leggi e dalle ipocrisie di medici e politici, quella di Giuseppe Di Matteo nei covi di una mafia non abbastanza combattuta che lo usa come ostaggio; infine, la morte, diversamente dalle precedenti immediata e come le precedenti atroce, di un altro studente, Federico Aldrovandi, ucciso da un pestaggio gratuito, per poco non insabbiato, della polizia.

Drammi oggetto non di ricostruzioni ma di racconti, mediati da un ricorso elastico alla non fiction che prende pieghe differenti – le vicende realistiche che incorniciano i casi di Hamer e di Eluana, le trame fantastiche che dilatano quelli di Alfredino e di Aldrovandi –  e alimentati da un’energica denuncia dei torti dell’apparato, affidata a soluzioni più prevedibili o più peculiari. La percezione nel macabro reality show di Vermicino di una «perdita dell’innocenza», di un «rito di passaggio senza ritorno», segue un’ormai radicata narrazione egemonica (la cui propaggine più recente è l’ultimo libro di Veltroni, L’inizio del buio), che considera svolta capitale del costume quella che fu, piuttosto, sua ulteriore sterzata, sviluppo (potenziato ma non promosso dal mezzo televisivo) di un interesse morboso per i crimini e le sciagure insaporiti dalla suspense, da sempre caratteristico della società di massa e da sempre spremuto allo spasimo dai media, come possono dimostrare infiniti esempi (dai teatrali processi otto-novecenteschi, al delirio collettivo sorto intorno al caso Montesi, ai feuilleton su rapimenti e delitti degli anni sessanta-settanta). Invece, il racconto dell’assassinio di Aldrovandi rimette in gioco la tirannia di quello che Debord chiama «spettacolare integrato», con un surreale colpo di scena: la metamorfosi del protagonista in spettro, il suo ingresso, insieme agli spettri di coetanei morti in circostanze analoghe, nella casa del Grande Fratello, e il conseguente emblematico contatto tra le vittime di forme diverse di repressione, quella diretta e brutale delle forze dell’ordine e quella felpata e subdola dell’industria mediatica.

Ma la delicatezza della materia scelta si fa sentire. Mettere in scena contrasti netti, e lasciati alla loro scottante autenticità, tra colpa e innocenza, è sempre impervio: specie quando la colpa è così tremendamente ramificata da richiedere una perlustrazione vasta, e l’innocenza così tremendamente semplice da incoraggiare un’esposizione semplicistica. Accesa, avvincente, efficacemente cadenzata, la narrazione di Mancassola non si fa mai però troppo penetrante: se i racconti si concludono con un invito a scavare «verso il centro della propria difficile umanità», in effetti tendono, più che a inoltrarsi nello scavo, a scivolare sulla lubrificata superficie di solide certezze morali e di altrettanto solide tecniche compositive; e l’intento di dare voce adeguata al pathos degli argomenti inciampa talvolta proprio nel patetismo facile e nel linguaggio fiorito tipici di quel medio giornalismo di colore (definito da Arrigo Benedetti «giornalismo infronzolato di letteratura») a cui il libro visibilmente si contrappone. Il lieto fine mancato della storia di Alfredino è compensato da un lieto fine citazionistico-simbolico, l’incontro del bambino con i personaggi del Viaggio al centro della terra di Verne, e il suo sbalzo in uno sbrigliato e gioioso mondo di finzione assai migliore del mondo vero; la vicenda di Eluana ha uno scioglimento catartico non solo nella fine della sua non vita e nelle lacrime liberatorie di suo padre, ma anche nell’inizio di una vita nuova, la nascita del bambino di una sedicenne apparentemente rude e sotterraneamente dolcissima, un po’ simile a quella del film Juno; il piccolo Di Matteo risorge sia nei rimorsi che, «come i tentacoli di un mostro di un abisso marino», tormentano uno dei sequestratori, sia nei sogni di una compagna di scuola che lo trasforma in un protettivo supereroe; lo spunto più originale, la coesistenza nella casa del Grande Fratello della gioventù massacrata dalla violenza poliziesca e di quella inebetita dal trash televisivo, si risolve in una scena a effetto, l’addio telepatico che attraverso gli schermi i fantasmi dei ragazzi rivolgono ai familiari («Ogni madre pianse. Ognuna ricevette l’ultimo saluto del figlio e ognuna apprese di avere in sé una forza inaspettata»).

Se i titoli (Un principe azzurro, Un bambino al centro della terra, Una bella addormentata, Un cavaliere bianco, Un ragazzo fantasma), evocando vistosamente la fiaba e il romanzo d’avventura, mettono certo in risalto per contrasto l’asprezza irredimibile degli eventi, l’orchestrazione dei testi finisce per offrire a quei vecchi generi un’implicita rivincita: perché si stringe ai baluardi dei valori tradizionali e di altrettanto tradizionali sogni a occhi aperti, controbilancia il trionfo materiale del male con la forza ideale del bene, e, più che affrontare a fondo il contesto raffigurato, lo fronteggia con le apoteosi degli affetti o le mitologie dell’eroismo individuale che stanno tornando a proliferare nella nostra narrativa. La carica dell’indignazione, così convinta e vibrante, plana troppo spesso nel recinto protettivo dei principi edificanti e delle fantasie consolatorie; le illusioni riecheggiate dal paratesto riaffermano i loro diritti, perché, se sono smentite dall’amara realtà rappresentata, costituiscono il puntello che ne sostiene l’urto, e che finisce anche per inibirne l’approfondimento.

Le opere che strappano la cronaca ai vincoli dell’informazione di routine, senza però alterarne i contenuti, sono ormai innumerevoli. Ma le più riuscite risultano finora o quelle intensamente circoscritte nei limiti di un solo campo (come Il sovversivo di Corrado Stajano – dedicato al caso, precedente e in parte analogo a quello di Aldrovandi, di Franco Serantini – che rifiuta «ogni tentazione romanzesca» per una ricognizione dei fatti così serrata e acuta da renderli spiraglio sulle magagne di un’intera società); oppure quelle che intrecciano campi diversi in modo insieme inedito e calibrato (come A sangue freddo di Truman Capote –  archetipo del nonfiction novel tanto sempre invocato quanto difficilmente imitabile – che, senza inventare niente, imbastisce su un fait divers, scrupolosamente indagato e documentato, una trama di rimandi simbolici e prospettive dissonanti così sofisticata da trasformarlo in un’affilata demistificazione del sogno americano). Le navigazioni più incontrollate tra il reportage e la creazione restano una sfida possibile e appassionante; ma anche più esposta alle derive che più minacciano i due settori, da un lato l’enfasi della stampa sensazionalistica, dall’altro la convenzionalità della narrativa d’evasione.

[Questo articolo è uscito su “Alias”]

2 thoughts on “Narrativa e infotainment

  1. Grazie a Tilli Bertoni per questa recensione. Anzitutto dal punto di vista delle forme, perché mi sembra un piccolo esempio di quello che, nella discussione sul giudizio di valore attivata dagli “Assiomi” di Casadei, chiamavo deontologia della critica: onesta descrizione, ipotesi d’interpretazione, confronto con le tensioni del contesto. Rispetto al campo degli artifici della non fiction, (un campo che credo vitale, da Saviano a Affinati) mi sto chiedendo quale relazione intrattenga quella testualità (come anche e di più l’autofinzione) con l’ “extratesto” determinato dalla “liquidazione dell’inconscio”, come si delinea in Recalcati…

  2. Mi sembra peraltro che il colore fiabesco che i paratesti aggiungono produca uno straniamento profondo che tutto è tranne che un ‘bell’effetto’. Il cortocircuito fa tornare alla mente un’evidenza: le grandi fiabe che abbiamo amato da piccoli sono fiabe d’orrore, che neppure mascherano più di tanto contenuti efferati. E questo è auto-evidente. Concordo con Zinato: la recensione è talmente ben fatta che non sono incuriosisce (fa venire voglia di avere il libro fra le mani), ma fa rimpiangere le recensioni dei maestri. Adesso tutti recensiscono tutto, ma la recensione è un’arte difficile. Descrivere è la premessa per poter vagliare, giudicare, analizzare. Nelle recensioni di TB, del resto, non manca mai una visione d’insieme. Il che si deve alla straordinaria capacità di controllo di interi generi, di interi filoni. E finché si tratta di classici, ancora ancora… la cosa può non sorprendere; per fortuna in Italia ci sono critici, storici e teorici della lett. che i classici se li sono letti e li conoscono bene. Ma è bello imbattersi in critici militanti che si muovono con disinvoltura all’interno di una produzione vastissima, com’è quella dell’iper-presente, per ricavarne panoramiche, contesti ampi, mappe (scegliete la metafora che preferite), grandi quadri all’interno dei quali situare la singola narrazione. E’ un’operazione difficile. Vedo che su questo sito le cose vanno in questa direzione. La parola data è stata mantenuta; LE PAROLE & LE COSE. Ricordo la baraonda che venne fuori qualche anno fa quando i critici militanti ripresero in mano la nozione di realismo. Volarono botte da orbi, ma qualcosa di interessante fu detto e scritto. Chiudo il mio intervento rapido e che purtroppo entra poco nel merito (dovrei aver letto di più per poter dire di più)… dicevo: chiudo il mio intervento chiedendo: rispetto a quella stagione che cosa è cambiato nel dibattito sulla Realtà, sul ritorno al reale, al Reale, sul ritorno della Realtà nella Letteratura? Non sembrerebbe, eppure molta acqua è passata sotto i ponti. Ho formulato male la domanda, spero di aver dato perlomeno uno spunto… a presto ggg

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