di Riccardo Capoferro
[Esce in questi giorni per Il Saggiatore Oceanides, il romanzo di esordio di Riccardo Capoferro, tra i finalisti menzionati dell’edizione 2020 del premio Calvino. La storia si ispira in modo intelligente alla tradizione colta e popolare della narrativa d’avventura, mescolando i resoconti dei viaggi di esplorazione sei e settecenteschi con molti altri generi romanzeschi. Ne pubblichiamo alcuni estratti per gentile concessione di autore e editore.]
Ora però devo rallentare il passo. Nel metter mano a questo resoconto mi sono prefisso di andare per ordine, di seguire gli stessi principi che diedero forma al mio primo libro, Il nuovo viaggio intorno al mondo. Mi accorgo però che gli anni hanno rafforzato alcuni ricordi e ne hanno affievoliti altri. Ho tralasciato dati essenziali, a cominciare dal mio nome: un errore piuttosto strano per chi, come me, disprezza fandonie e inesattezze. È dunque ora che mi presenti e che cerchi di conquistarmi la fiducia di voi che avete deciso di leggere la mia storia, tanto più perché la mia reputazione è stata infangata, e se anche i miei diffamatori sono tutti morti, la loro voce, aggrappatasi alla carta, continua a seminare bugie, ad accusarmi di angherie e negligenza. Ma non fraintendetemi: non è l’orgoglio a muovermi, ed è tardi per il rancore. Il mio fine è un altro. Voglio raccontare la mia avventura, dire di cose che susciteranno l’incredulità di tutti, a cominciare dai filosofi, che troveranno le ragioni per credere proprio in quel che racconterò.
Le troveranno nell’anatomia delle creature che descriverò, nei colori delle loro piume, nel rigoglio in cui spiccano o si nascondono, nell’aria e nell’acqua che attraversano, e nel paese remoto in cui, inseguendole, sono arrivato: questo paesaggio di torri e mastodonti, dove le ali oscurano la terra.
Quanto seguirà, sebbene sia incredibile, non è che la verità. Perché esporsi agli scettici, offrire il fianco ai dubbi, se non è il vero che si vuole raccontare?
Mi chiamo Richard Kenton e sono nato nel 1660 a East Coker, nel Somerset. Mio padre si chiamava Will Kenton, ed era un fittavolo. Non eravamo ricchi, ma avevamo di che vivere. Abitavamo in una casa di pietra sulle terre dello Squire Robert Helyar, ai margini del paese, e a sentire mio padre, che amava gli aneddoti sorprendenti, discendevamo dal ramo cadetto di una famiglia aristocratica: una lontana parentela ci legava nientemeno che allo Earl of Somerset. Ma fin da bambino riponevo poco interesse in quell’improbabile lignaggio, nonostante fosse occasione di storie sgangherate ed erratiche, fitte di duelli tra cavalieri, e i cui fondali si assomigliavano tutti.
Mi interessava piuttosto la macchia di querce che circondava East Coker, un labirinto di sentieri muschiosi che a volte annegavano tra le felci. Lì avrei voluto vagare e fermarmi. Avrei voluto appiattirmi per osservare le talpe, arrampicarmi sugli alberi per guardare il volteggiare dei gheppi, acquattarmi vicino al rosseggiare ispido delle volpi. Dalla loro capacità d’essere ciò che erano, di scavare, volare o fiutare da lontano, ricavavo una meraviglia muta.
Mio padre era un uomo gentile, e incline a vagare con i pensieri, così mi permise di coltivarla. Accompagnava nel bosco me e Jim, il mio fratello minore, e ci lasciava scorrazzare tra i sentieri. Tuttavia, soprassalti di paura lo coglievano all’improvviso, spingendolo a vigilare, a temere l’ombra dei cespugli, così ci richiamava a sé a gran voce per ricondurci a casa. Lo seguivamo attraverso i grandi prati che l’estate era riuscita a rinverdire e lungo stagni irti di giunchiglia. Da lontano, ci indicava il bosco e ci diceva che sarebbe davvero diventato nostro solo dopo che ci avesse insegnato a riconoscere i punti cardinali e a uccidere un cervo.
Non ne ebbe il tempo, perché una mattina, poco lontano dai campi, ebbe un capogiro e cadde. Mentre io e Jim, confusi, gli chiedevamo come stesse, spalancò gli occhi in allarme, come se avesse visto balenare nel sole il profilo di un’armata di demoni e la visione lo avesse atterrito. Poi, però, rivolse le pupille di lato e strinse le palpebre, come a inseguire un altro pensiero: una cosa di poco conto della quale sembrava essersi ricordato solo adesso, con i palmi delle mani arenati sul terriccio. Non sembrava morto, sembrava distratto.
Allora frequentavo la scuola presbiteriana di East Coker, dove mi ero fatto notare per la mia memoria e per la precisione con cui parlavo e ragionavo. Il mio maestro, appassionato di filosofia naturale, mi aveva mostrato un trattato di botanica, un grande libro pieno di steli, foglie ed efflorescenze, e mi aveva permesso di leggerlo. Così le piante avevano gettato i loro semi, suscitando in me la voglia di ridisegnarle. Di molte avevo imparato i nomi e le venature: mi piaceva far sfoggio di ciò che sapevo, mostrarlo al mondo. Ma dopo aver visto mio padre cadere, strabuzzare gli occhi e andarsene con la mente chissà dove, la tristezza mi appesantì la lingua.
Tardavo a parlare e rispondere, e preferivo starmene per conto mio. Specialmente nei mesi caldi, passavo il pomeriggio nel bosco a guardare gli uccelli, sospeso tra l’istinto di immaginare il loro volo e quello di fermarlo con un colpo di fucile per poterli osservare più da vicino. Così anche durante l’inverno, quando il mondo si addormentava. Sedevo per ore ai piedi delle querce. Scrutavo la volta del bosco esaltata dalla luce, mi interrogavo sull’intreccio e la direzione dei rami, e aspettavo che il passaggio d’un falco mi chiamasse verso le nuvole.
[…]
Iniziò così un lungo viaggio intorno al mondo, che mi avrebbe portato in luoghi come Guam, Mindanao, Achin, il Tonchino, Malacca, il Capo di Buona Speranza, poi sulla via di casa. Vidi le Isole delle Spezie, la Cina, l’Africa e sfiorai la Nuova Olanda, con l’intenzione di tornarvi per scoprire se fosse una propaggine della Terra Australis Incognita. Esplorai quei mondi con gli occhi, le orecchie, l’intelletto e, in aggiunta, con le budella, perché un germe dannoso attecchì al loro interno. Per quattordici mesi soffrii di un’affezione che fiaccò le mie capacità digestive – una semplice arancia scatenava tempeste – e il mio corpo. Soffrii anche di febbri, dalle quali guarii facendomi seppellire nella sabbia fino al collo.
Vidi gente di tutti i colori. Ad Achin mi colpì la liberalità delle donne, e riuscii ad approfittarne. Nel Tonchino fui colpito dall’abitudine di fasciare i piedi alle bambine, per azzopparle. E al Capo di Buona Speranza pensai, come molti miei compatrioti, che gli ottentotti fossero simili a scimpanzé.
Vagabondai in foreste fitte di alberi ignoti agli europei, come l’albero di sago. Vidi gli abitanti di Mindanao schiacciarne il midollo bianco e farlo essiccare per ricavarne una pietanza simile al pane. Mi imbattei in centipedi lunghi come una penna d’oca, che si contorcevano sul suolo della foresta, e per l’unica volta nella mia vita vidi una creatura che sembrò persuadermi dell’esistenza dei mostri: rassomigliava a un iguana, ma era quattro volte più grande, aveva la lingua a forma di arpione e due barbe ispide. Non un tacchino, ma un drago.
Esplorai molte città, delle quali a volte, in modi inattesi, ho ritrovato gli odori. Mi addentrai con la sacca in spalla in strade coperte da un fango fetido, nutrito da una pioggia grassa e incessante, e costeggiai casupole dalle pareti di canna. Imparai a districarmi tra i viottoli d’erba e a dileguarmi al rintocco del gong, che annunciava l’arrivo di un elefante. Mi incantai davanti al battere dei martelli dei fabbri e osservai la lavorazione degli oggetti laccati. E mi affacciai nell’ombra di antiche pagode profumate, dove vidi offerte votive moltiplicarsi nell’ombra. Osservai gli idoli del luogo, pieni di occhi e di mani, spesso tese, come a chiedere un corrispettivo.
Un pomeriggio, vidi anche gli idoli europei. Fu nella città di Hean, a est del fiume, e a sessanta miglia dal mare. Ero sfinito dalla dissenteria, e pensavo che mai più avrei posato gli occhi sugli stagni di East Coker. Raggiunsi a fatica una casa bianca, non lontana dalla riva. Aveva alte finestre dalle imposte grigie e massicce ed era protetta da una cinta di muratura. Viveva lì il capo di una missione cattolica. In cerca d’aiuto, chiamai con tutto il fiato che avevo, ma non comparve nessuno. Vicino all’ingresso trovai una campana e suonai. La vibrazione echeggiò lenta nell’aria senza neppure smuovere le mosche, ma dopo un po’ la porta si aprì e la sagoma di un prete si affacciò dall’ombra. Era un francese; mi disse qualcosa che non compresi e mi fece cenno di seguirlo. Mi ritrovai nel salotto di una villa di provincia, circondato da tomi in ottavo e animali impagliati; teste di cervo venute appositamente dall’Europa e condannate a fissare attraverso il vetro un grande prato senz’alberi. I quadri alle pareti rappresentavano uomini in abiti talari, ma anche paesaggi campestri, forse del nord della Francia, che mi diedero una fitta di nostalgia, sebbene raffigurassero luoghi che non avevo mai visto.
Provai a parlare al prete in spagnolo, ma non mi capì. Provai allora in latino; vocaboli appresi anni prima salirono d’un tratto alle mie labbra, come se si trattasse non di una lingua morta, ma di un dialetto d’infanzia risvegliatosi all’improvviso. Il prete mi invitò a sedermi, mi spiegò che il vescovo era ammalato e mi versò del vino. Quindi mi chiese di aiutarlo a ricavare della polvere da sparo; aveva tutto il necessario, ma non sapeva in quali proporzioni combinarlo. Ne ricordavo bene la formula: l’avevo letta nel Giornale del Marinaio prima di partire per la Giamaica. Contento di toccare i piatti di una bilancia, mi misi a pesare zolfo e salnitro, poi li mescolai alla polvere di carbone e passai il tutto al setaccio, mentre il prete gongolava.
Quando la polvere fu pronta la collaudammo. Preparai piccoli cumuli e micce, e mentre lo facevo, tra gli agi di una piccola fucina alchemica, il piacere fu interrotto da un presagio di distruzione, come se stessi tentando un esperimento di magia nera. Le dita mi tremavano come ramoscelli agitati dal vento, e le micce divennero irraggiungibili. Rivissi nelle mani e nel respiro l’ultima volta che avevo usato la polvere da sparo, ma senza ripensare al prima e al dopo, senza ricordare con chiarezza le circostanze che mi avevano spinto e la perdita che avevo subito. Fu per questo che riuscii comunque a dar fuoco alle polveri. Nel cortile davanti alla casa generammo scoppi e vampe, che il prete, ridendo, paragonò alle fiamme dello spirito santo. Fece arrostire un pollo per me, anche se era un giorno di festa e i papisti avrebbero dovuto mangiar pesce.
[…]
Nonostante la febbre e la dissenteria, riuscivo ancora a stupirmi. Anzi: era lo stupore che mi dava forza. Così esplorai l’entroterra, dove assaggiai un frutto chiamato mangosta, che si diceva avesse effetti astringenti, dei quali mi giovai. Camminando senza meta, giunsi di fronte al palazzo reale, in cui pareva che la regina fosse confinata per sua stessa volontà, uscendo solo una volta all’anno a dorso d’elefante, vestita di bianco per un’abluzione rituale. Ero lì proprio in quel giorno e la osservai: una piccola dea grassoccia, la cui aura si spandeva attorno come una fonte d’acqua limpida nella cavità d’un laghetto. Ritrovai la mia ragion d’essere. Enigmi lucenti e odorosi mi solleticavano i sensi come fiori sconosciuti – la regina di Achin era uno di questi – e avrei voluto raccoglierli e annusarli prima di schiudere i loro calici. Ero lì per respirarne l’essenza, e mi riempivano la mente, perché ogni domanda ne suscitava molte altre. Tuttavia, da quel giorno ad Achin, come se la forma di un geroglifico ignoto fosse in realtà la mappa che segna la via di casa, quel proliferare di pensieri prese a evocare figure sempre più familiari.
Nonostante la voglia di vedere, sentire e prender nota fosse sempre incalzante, avvertii spesso il morso della nostalgia; una nostalgia di cui non avevo vergogna. A Malacca – era il 1689, circa otto anni dopo la mia partenza – non s’incarnò nei prati o nella luce della sera, ma nel bisogno di ricongiungermi a chi parlava la mia lingua.