di Luigi Trucillo
Ogni costellazione balena tra i chiaroscuri, e se allarghiamo i nostri punti di vista a un orizzonte condiviso ci rendiamo conto che la spinta liquida della cultura avviene attraverso vasi comunicanti. Quando si ha a che fare con delle connessioni poetiche è sempre meglio tuttavia partire da singoli punti focali. Svilupperò quindi il mio discorso sui rapporti profondi tra Pasolini e Eduardo citando due testi rivelatori che gli autori si scambiarono al termine della loro amicizia. Il primo è “Pier Paolo”, la poesia scritta da Eduardo per la morte di Pasolini: “Non li toccate / quei diciotto sassi/che fanno aiuola / con a capo issata / a “spalliera” di Cristo. / I fiori, /sì, /quando saranno secchi, / quelli toglieteli, / ma la “spalliera”, / povera e sovrana, / e quei diciotto irregolari sassi, / messi a difesa / di una voce altissima, / non li toccate più! / Penserà il vento / a levigarli, / per addolcirne / gli angoli pungenti; / penserà il sole / a renderli cocenti, / arroventati / come il suo pensiero; / cadrà la pioggia / e li farà lucenti, / come la luce/delle sue parole; / penserà la “spalliera” / a dargli ancora / la fede e la speranza / in Cristo povero”. Senza volermi addentrare nella commossa bellezza che circola nei versi, vorrei estrapolarne due temi che ci parlano di un’affinità. Il primo, di natura emotiva e ideologica, riguarda il sentimento della carità. Sappiamo tutti quanto questo argomento di matrice paolina stesse a cuore a Pasolini, tanto da fargli suggerire fin da un articolo apparso nel 1968 su “Il Tempo” la necessità di uno scisma all’interno della chiesa cattolica, che avrebbe dovuto lasciare alla fazione legata al potere l’utilizzo della fede e la speranza, mentre avrebbe fatto prevalere nell’operato dell’altra la creaturale carità. Non tutti sanno invece quanto anche Eduardo coltivasse un profondo rispetto per il cristianesimo delle origini. Tanto, da fargli scrivere in una lettera a monsignor De Bonis: “Mi è stato chiesto: cosa faresti se San Francesco bussasse alla tua porta? Da quando ho l’uso della ragione consegnai al poverello d’Assisi la chiave di casa mia. Da quel momento San Francesco non bussa alla mia porta: entra quando vuole”. Così non appare casuale la bipartizione alla fine della poesia tra “la fede e la speranza” e la presenza pervasiva nell’intero testo e quasi panica del “Cristo povero”. Ciò che mi interessa di più rimarcare tuttavia, al di là delle prese di posizione biografiche, é come proprio da questa inclinazione per la naturalezza della carità sgorghi una delle assi portanti dell’opera di Pasolini. Alludo al fondamentale debito dello scrittore nei confronti dell’affermazione contenuta nella seconda lettera ai Corinzi di San Paolo (un pensatore che ammirò sempre per il suo slancio didattico) : “La lettera uccide, ma lo spirito vivifica”. Nella rivelazione immanente contenuta da questa frase il poeta trovò una sponda concreta e allo stesso tempo numinosa alla sua concezione della vita come processo non organizzabile. L’intero decorso estetico di Pasolini, infatti, può essere letto alla luce del valore gratuito e irriducibile della realtà, una realtà permeata dall’alterità del sacro, e quindi profondamente accessibile solo ai puri di cuore come i poeti, gli analfabeti e i mistici, che percependone l’essenza felice e precaria sono lontani mille miglia dalle false grammatiche della razionalizzazione. Una realtà, insomma, per larghi tratti coincidente con la lingua arcaica e misteriosa della vita. Per questo coglie nel segno Raboni quando dice che Pasolini “E’ stato poeta in tutto tranne che nella poesia”, sviluppando “una poesia essenzialmente non polisemica e non metaforica”: egli era alla trasgressiva ricerca di una parola che agisce e sa divenire efficace, proprio come avveniva sulla scena a Eduardo mentre si inventava il suo personalissimo linguaggio. Un tale movimento verso l’adesione non mediata alle cose, che possiamo sulle tracce di San Paolo definire: “spirito”, ci aiuta anche a comprendere il suo progressivo abbandono di una parola ancorata al sistema dei segni simbolici a vantaggio di quella scrittura della lingua naturale che per lui era il cinema. Così la sua poesia in perenne lotta contro la trascendenza trovava nuove forme per amare ciò che é, e non ciò che dovrebbe essere. Se poi estendiamo la medesima griglia interpretativa a Eduardo, ci accorgiamo che l’attrito tra “La lettera” e “Lo spirito” ( letto come l’intenzione di fondo dell’autore) evoca la dialettica tra copione e gesto, drammaturgia e recita, tanto specifica della sua arte. Così come, su un livello più generale, possiamo ipotizzare che proprio dalla già citata frizione tra una “Lettera” ufficiale e il lampo dello spirito scocchi la scintilla tipica della napoletanità, profondamente amata da Pasolini. Non a caso egli definì Eduardo : “La maschera vivente di Napoli”.
Il secondo tema che emerge dalla lettura della poesia di Eduardo é rappresentato dalla conformazione solida e simbolica dei sassi, eletti a metafore della luminosità, dell’intransigenza e della passione del poeta ucciso. La mia tesi è che nei suoi versi Eduardo abbia nominato con un indiretto correlativo oggettivo un tratto, anche fisico, che l’accomunava a Pasolini: il prosciugamento. Parlo, é chiaro, del prosciugamento di chi acquisisce forza attraverso la sottrazione, come i ciottoli scavati dal mare. Nel caso di Eduardo basta pensare all’economia del gesto, sempre in bilico su una pausa o uno strappo capaci di colmare di motivi non detti lo spazio sospeso del silenzio. La sua afasia espressiva( come del resto quella di Troisi) é paragonabile alla condensazione implicita degli Haiku, e a forza di tensioni ed accenni si propone come la maschera cava del rimosso sociale. Su un piano specificamente simbolico la medesima forza ritrosa agisce e struttura anche Pasolini. Tutta la sua esperienza infatti si misura con il risucchio essenziale della maschera, divisa com’é tra una fissità ineluttabile e tragica e il movimento vitale e misterico che riempie di eros e bagliori conoscitivi la realtà. Così per entrambi il percorso obbligato tra le rispettive aporie si esprime attraverso una stoica tenacia scavata dalla resistenza alle tensioni, e sfuggendo al naturalismo mima a un livello più alto il processo infinito che anima il reale.
Procedendo nella ricerca di punti di contatto, il secondo reperto “indiziario” di una risonanza tra i due artisti è la lettera che Pasolini scrisse a Eduardo annunciandogli, poco prima della morte, il progetto di “Porno Teo Kolossal”, il film che non venne mai realizzato. Il poeta parla di: “Due personaggi che fanno un viaggio alla scoperta del mondo, come Don Chisciotte. Il viaggio è guidato da un’escatologia ideologica: lo scopriremo senza volerlo, guidati da un altro scopo. Credendo di raggiungere un fine, si scopre la realtà così com’è, senza alcun fine.” E poi aggiunge, al termine della lettera : “Il servo….prende per mano il re Mago, per portarlo nel paradiso che egli si è comunque meritato. Ma il paradiso non c’è. I due si voltano indietro come la figlia di Lot, e restano di sale (si voltano indietro verso il mondo della realtà, di cui hanno scoperto i valori cercandone altri)”. Ancora una volta dunque appare il tema della pietrificazione a fronte del flusso imprevedibile della realtà, che in una prospettiva Orfica acquista i tratti di ciò che si è perso e non può essere impunemente fissato, visto che, novella Euridice, distrugge tutte le figure e le rappresentazioni acquisite. L’elemento saliente, tuttavia, che risulta utilizzabile per la nostra tesi è il riferimento a Don Chisciotte. Attivando una genealogia morfologica e amaramente idealista possiamo tranquillamente collegare il cavaliere spagnolo ai nostri due autori. Ma ciò che davvero va ricordato è che nel romanzo di Cervantes Don Chisciotte é un personaggio che leggendo continuamente perde il senso del reale per entrare in un diverso tipo di realtà, quella della parola scritta. Così facendo, egli esperisce, proprio come Eduardo e Pasolini, il dislocamento difficile di chi vive e si muove restando ancorato a una perdita di senso. Per il discorso fatto in precedenza sul rapporto tra spirito e lettera, la caparbietà del cavaliere sembra sfociare in una posizione visionaria e ostinata (e quindi ancora fondata su una resistenza!) protesa a incarnare concretamente la forza vitale imprigionata nella scrittura. O, al contrario, evoca l’ambiguo destino di chi si allontana dall’innocenza, giacché, come scriveva Simone Weil, “La perdita di contatto con la realtà è il male, é la tristezza”. Anche per quelli , secondo Pasolini, che come Don Chisciotte prendono il falso paradiso dei testi alla lettera. Siamo alle soglie della difficile distinzione tra verità, illusione e menzogna. E’ fin troppo facile notare l’impegno profuso da Eduardo per una mappatura dei loro confini: buona parte della sua opera, da “Le bugie hanno le gambe corte” a: “La grande magia”, da “Questi fantasmi” a “Le voci di dentro” ronza polemicamente intorno all’argomento. Tanto da far pensare che la sua lotta a favore della verità esclusa dall’ipocrisia del mondo abbia la stessa urgenza della crociata di Pasolini volta a salvaguardare il fresco mistero dell’esistenza dall’avidità dei farisei. Sono campi diversi dello stesso impegno, accomunati dal dover agire attraverso la filigrana del non dicibile (e qui penso ai silenzi e alle sghembe entrate in scena di Eduardo, come al solitario dialogo con le inviolabili fonti dell’alterità che segnò tutta la vita di Pasolini fino alle soglie della dismisura). Alla fine, partendo da una condizione di “sfollati” (come una volta ebbe a definirsi Eduardo) di fronte alla grettezza del mondo, impararono entrambi a esprimersi sull’orlo di una scomparsa, o di una parziale sottrazione. Una tale cifra estetica ci porta diritti alle righe di “Come le lucciole”, il libro di Didi Huberman sui barlumi di una sopravvivenza del presente di Pasoliniana memoria (e a proposito del barlume: alla nostalgia per le lucciole possiamo affiancare a pieno titolo l’attesa di “Adda passà a nottata…). Nel suo testo Didi Huberman riporta una citazione de “L’umanità nei tempi bui” della Arendt, dove viene scritto che Lessing, per poter essere utile al mondo in un’epoca difficile, si ritirò senza ripiegarsi nel proprio sé, attivando quel vincolo segreto tra pensiero e azione che ” Consiste nel fatto che entrambi avvengono nella forma del movimento, e perciò la libertà li sottende entrambi: la libertà di movimento.” Eccoci al punto: l’intermittenza di questo movimento, che sprigiona dal proprio stesso procedere una libertà, evoca proprio il gioco e il passaggio tra volto e maschera che abbiamo attribuito a Pasolini e Eduardo, la loro forza motrice. Così come la combinazione geometrica tra il ritirarsi e il non ripiegarsi che la Arendt definisce una “Forza diagonale” emersa dalla dialettica tra presente e passato, ci fa pensare, nel suo rivolgersi verso un termine illimitato, al rapporto che stabilirono i due autori con la tradizione. Perché anche qui, e definitivamente, convergono Pasolini ed Eduardo: nel valore ciclico e metamorfico attribuito a un’eredità culturale capace di rigenerarsi perpetuamente in forme nuove. Un valore per cui Eduardo definisce la tradizione “La vita che continua”, e che lo porta a dire:” Il punto di arrivo dell’uomo è la sua nascita, mentre il punto di partenza é la morte che, oltre a rappresentare la sua partenza dal mondo, va a costituire un punto di partenza per i giovani”. Alla stessa stregua di Pasolini, che lottando disperatamente contro la mutazione antropologica che azzerava le radici culturali del suo mondo, afferma ne “La ricotta” : ” Più moderno di ogni moderno io sono una forza del passato”. Tutti e due hanno creduto che la vera consapevolezza trasmetta radici dinamiche. Quindi, se adesso ci sporgiamo verso la tenacia di questa loro prospettiva perennemente mobile possiamo forse intendere meglio l’ultima battuta del film che non riuscirono mai a girare insieme per la sopravvenuta morte di Pasolini:” Non esiste la fine, aspettiamo, qualcosa succederà”.