di Filippo Menga

 

Ecologie della trasformazione, rubrica a cura di  
  
Emanuele Leonardi e Giulia Arrighetti

 

In un tempo segnato dalla simultaneità delle crisi – ecologica, democratica, energetica – la figura di Jeremy Rifkin continua a occupare uno spazio centrale nel discorso pubblico. L’economista e divulgatore statunitense ha costruito negli anni una forma di pensiero sistemico capace di intercettare le linee di frattura del presente, sintetizzandole in mega-narrazioni capaci di parlare tanto ai decisori politici quanto al pubblico colto. L’intervista raccolta da Riccardo Luna e recentemente pubblicata sul Corriere della Sera, in occasione della presentazione del nuovo libro Planet Aqua alla ‘Venice Climate Week’ (3-8 giugno 2025), conferma questa impostazione. In una conversazione che intreccia autobiografia, diagnosi ambientale e proposta politica, Rifkin rilancia l’idea che il futuro dell’umanità dipenda da un ripensamento radicale del nostro rapporto con l’acqua, che da semplice risorsa o bene comune viene elevata a matrice ontologica, fondamento materiale ed esistenziale da cui ripartire. Una prospettiva certamente ambiziosa, che tuttavia solleva anche interrogativi teorici e politici non banali – soprattutto se si osserva più da vicino la genealogia idrica proposta e le implicazioni istituzionali che essa omette.

 

Rifkin propone una politica dell’acqua in quanto fondamento, un dislocamento semantico che assume tratti quasi cosmologici: non abitiamo un “pianeta Terra”, ma un “pianeta Acqua”, e chiamarlo in altro modo significherebbe già trasformarlo. Come in altre sue opere, anche qui la posta in gioco è simbolica: cambiare il nome del mondo per cambiare il mondo stesso. In questa tensione tra visione e prescrizione, tra grandiosità teorica e astrazione del conflitto, si concentra l’ambivalenza del suo progetto. Rinominare il pianeta significa operare un rovesciamento dell’immaginario. Se la modernità si è strutturata attorno a una concezione terrestre dello spazio – fondata sulla proprietà fondiaria, sullo Stato-nazione e sulla divisione estrattivista tra superficie e sottosuolo – Rifkin invita a ripensare il mondo partendo dall’idrosfera. L’acqua, afferma, è ciò che ci rende unici nell’universo. Ma è anche ciò che oggi si sta ribellando. L’aumento degli eventi meteorologici estremi, l’erosione delle coste, la scomparsa di ghiacciai e bacini, l’alternanza di siccità e alluvioni: tutto concorre a farne un attore geologico e politico. Rifkin interpreta questa trasformazione come il segnale di una transizione epocale, una “svolta idrica” capace di ridefinire le categorie stesse con cui pensiamo la vita sul pianeta.

 

È su questo punto che la sua proposta acquista forza e, insieme, si espone a un rischio. Parlare di Planet Aqua non è solo un gioco concettuale; è anche un tentativo di riscrivere la relazione tra ecologia e civiltà. Ma nel farlo, Rifkin evita sistematicamente di nominare i nodi strutturali del potere che organizzano la gestione dell’acqua a livello globale: la finanziarizzazione dei servizi idrici, la militarizzazione delle dighe, il boom dell’acqua in bottiglia, la violenza dei processi di estrazione, canalizzazione e accumulazione. Il racconto che propone è lineare: abbiamo tentato per migliaia di anni di adattare l’acqua a noi; ora dobbiamo fare il contrario. Eppure, questo passaggio dall’Antica Roma al Blue Deal europeo salta a piè pari la dimensione materiale del dominio e la pluralità dei conflitti idrici contemporanei.

 

La sua genealogia della civiltà idraulica è senz’altro evocativa, ma risuona come una ricostruzione funzionalista priva di tensione storica. L’acqua appare come un’entità naturale da riconciliare, piuttosto che come un elemento continuamente conteso, reso governabile da dispositivi tecnici e giuridici che spesso operano in modo selettivo e ineguale. Per chi si occupa di acqua, inoltre, il concetto di civiltà idraulica non è particolarmente originale: già Karl Wittfogel, in un’opera tanto influente quanto controversa, ne aveva fatto il perno di una lettura fortemente determinista del potere nelle società idrauliche, mettendone in luce le derive autoritarie. Studi più recenti, come quelli di Matthew Gandy sulla modernità idraulica, ne hanno invece evidenziato le articolazioni urbane e le implicazioni politiche, sottraendosi a visioni evolutive o meccanicistiche.

 

Tuttavia, questo inquadramento teorico non si traduce in una riflessione altrettanto articolata sulle forme istituzionali attraverso cui affrontare le sfide idriche del presente. La proposta di affiancare un Blue Deal al Green Deal europeo potrebbe avere implicazioni significative, ma Rifkin non chiarisce chi debba progettarlo, finanziarlo o implementarlo. Si resta così nel terreno delle grandi visioni prive di una messa a fuoco istituzionale. E mentre si insiste sulla centralità dell’adattamento, si tace sulla necessità di redistribuire potere e risorse, di politicizzare le scelte che verranno fatte in nome della resilienza.

 

L’orizzonte che Rifkin delinea è quello di un mondo sempre più distribuito, fondato su tecnologie intelligenti, energie rinnovabili e reti orizzontali capaci di sostituire le infrastrutture verticali del Novecento. In questa nuova configurazione, gli Stati appaiono come forme anacronistiche, incapaci di governare un ecosistema planetario in rapido mutamento. A sostituirli, secondo Rifkin, saranno le ‘bioregioni’, entità fluide, fondate sulla coesione ecologica piuttosto che sui confini amministrativi. È un passaggio centrale della sua proposta, e anche uno dei più problematici. L’idea che il futuro appartenga a comunità che si riconoscono nei propri bacini idrografici o nei propri microclimi è suggestiva, ma assume una visione quasi organica dell’appartenenza territoriale, che ignora le profonde fratture sociali, politiche ed economiche che attraversano qualunque ecosistema.

 

Non si tratta solo di una visione parziale, ma di una omissione significativa. Rifkin presenta la decentralizzazione come inevitabile, quasi naturale, ma non interroga mai il ruolo che le grandi piattaforme tecnologiche – che egli stesso dichiara in via di estinzione – stanno svolgendo nel disegnare nuove architetture del potere. L’economia digitale, lungi dall’essere distribuita, si è concentrata in nodi monopolistici sempre più difficili da regolare, dove la logica estrattiva si è spostata dalla materia al dato. Anche le infrastrutture della transizione verde si organizzano secondo nuove geometrie imperiali della logistica e della finanza verde ben lontane dalla governance bioregionale che Rifkin auspica.

 

Nella sua proposta, il passaggio al nuovo sistema appare lineare, persino ottimistico: le tecnologie porteranno con sé un nuovo paradigma economico e ambientale, in grado di superare le rigidità del passato. Ma questa narrazione elude la dimensione fondamentale del conflitto. Chi governa la transizione? Chi stabilisce quali tecnologie adottare, dove e a quali condizioni? Quali soggettività politiche avranno voce nei processi di riconfigurazione territoriale e istituzionale? Sono domande che restano sullo sfondo, sostituite da una fiducia post-ideologica nella capacità auto-rigenerativa del sistema. Rifkin insiste inoltre sul fatto che “non è la politica a decidere il nostro destino, ma l’economia”. È una dichiarazione rivelatrice. Dietro l’apparente lucidità sistemica si cela una forma di determinismo tecnocratico, dove la sfera politica viene progressivamente svuotata e ridotta a funzione di adattamento. Anche il riferimento finale all’empatia e ai “neuroni specchio” – che dovrebbero insegnarci a pensare collettivamente – si colloca in questa logica: l’azione politica non emerge da un conflitto di interessi, visioni o desideri, ma da una presunta convergenza neurobiologica verso il bene comune. Il risultato è una depoliticizzazione del futuro dove l’azione collettiva lascia il posto alla gestione tecnocratica dell’adattamento.

 

Il concetto di resilienza occupa un posto centrale nella visione di Rifkin, che contrappone una morente Era di Progresso a una nascente Era di Resilienza, presentando questo passaggio come necessario e non più rinviabile. L’immaginario che ne scaturisce è quello di una civiltà che, riconosciuta la propria vulnerabilità sistemica, si riorganizza per adattarsi a un mondo che non può più essere dominato, ma solo gestito. L’adattamento diventa così la nuova forma di razionalità: un orientamento che privilegia la flessibilità, l’efficienza, la sopravvivenza. Ma proprio qui si annida un altro rischio: che la resilienza non sia un’alternativa al paradigma dominante, bensì la sua prosecuzione con altri mezzi. Nel lessico della resilienza, il conflitto tende a dissolversi. Le asimmetrie di potere vengono sostituite da linguaggi di vulnerabilità condivisa; le responsabilità politiche diventano costi sistemici da distribuire. Rifkin parla dell’acqua come “fonte di vita”, e invita a riconciliarsi con l’idrosfera, ma non nomina mai le lotte per l’accesso all’acqua, le privatizzazioni imposte, le guerre idriche latenti o esplicite. Il cambiamento climatico diventa una ribellione della natura, non il prodotto storico di scelte economiche e modelli di sviluppo. La sua proposta non è priva di forza evocativa, ma tende a produrre un’estetica della transizione che oscura le frizioni che l’attraversano. Lungi dall’essere una semplice correzione dell’Antropocene, l’Era di Resilienza si configura così come un nuovo regime discorsivo. Il rischio è che, sotto la promessa di una riconciliazione ecologica, si consolidi una forma di governance adattiva che sposta il problema senza risolverlo. Non si tratta solo di cambiare paradigma, ma di affrontare i rapporti di forza che lo rendono possibile. E su questo punto, la visione rifkiniana resta sospesa tra diagnosi lucida e rimozione politica.

 

Che Rifkin scelga l’acqua come fulcro simbolico e materiale della propria proposta non è casuale. Da sempre, l’acqua è più di un elemento fisico: è una infrastruttura dell’immaginario, un vettore di potere, un dispositivo di governo che riflette le logiche geopolitiche contemporanee, oscillando tra forza vitale e merce, tra diritto e dominio, tra flusso e controllo. In questo senso, Planet Aqua è un testo che parla al presente non tanto per le risposte che offre, quanto per le domande che consente di formulare. La sua ambizione è chiara: superare l’idea di sviluppo lineare, sostituendo il progresso con la resilienza, l’estrazione con l’adattamento, la centralità della terra con la fluidità dell’acqua. Ma per quanto il cambio di paradigma sia auspicabile, non può prescindere da una politicizzazione radicale delle condizioni materiali in cui avviene. Il futuro non sarà distribuito, bioregionale o idro-centrico per semplice maturazione del sistema: sarà il risultato di scontri, negoziazioni e resistenze. E se vogliamo davvero pensare con l’acqua, dovremo anche imparare a pensare contro le narrazioni che ne fanno un’icona depoliticizzata del cambiamento.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *