a cura di Lorenzo Mari e Gianluca Rizzo
[Tredicesima puntata dell’indagine sulla valenza sociale della poesia contemporanea a cura di Lorenzo Mari e Gianluca Rizzo. Qui tutte le altre uscite].
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Chiara De Caprio
Minime note linguistiche sulla prima persona plurale nelle scritture di ricerca
È forse uno dei lasciti più fecondi della linguistica testuale e della pragmatica l’attenzione alla dimensione enunciativa: chi parla? qual è l’impalcatura dell’evento enunciativo in un testo scritto?
Scelte e movimenti del sistema pronominale, espressioni allocutive, interiezioni ed elementi metadiscorsivi e dialogici, indici spazio-temporali, ostensivi (i dimostrativi), slittamenti di tempi verbali (ad esempio, il passaggio al tempo presente) sono gli elementi attraverso i quali si si sono spesso misurati il grado di animazione enunciativa del testo poetico e l’esplicitezza con cui è manifestata la sua dialogicità primaria[1].
Lo spazio di riflessione e studio sul livello enunciativo del testo poetico potrà, dunque, perimetrare anche impieghi e funzioni della prima persona plurale, partendo dalla considerazione del fatto che il noi non è un io al plurale o un io aumentato o moltiplicato[2]: giacché nello spazio del noi si annidano differenti combinazioni – “io + tu”, “io + voi”, “io + loro”-, cui si aggiungono taluni impieghi pragmatici cosiddetti “pseudo-inclusivi” (in cui il noi vale tu e viene usato per rafforzare o ridurre la relazione empatica con l’interlocutore, soprattutto in contesti comunicativi asimmetrici; ad esempio, la prendiamo questa medicina? detto da un medico a un paziente timoroso) e, ancora, quelle funzioni “travestite” della I persona singolare tradizionalmente designate come plurale maiestatico e di modestia (o editorial-we), documentate – per esempio – nei generi socio-discorsivi a vocazione saggistica e didascalica e con funzioni e obiettivi espositivo-argomentativi.
Nel discorso poetico il noi funziona da campo relazionale complesso non solo per gli effetti che può avere la scelta fra un noi inclusivo (noi = “io + tu/voi”) e un noi non inclusivo (noi = “io+loro”), ma anche per la differenza fra istanze, personae e interlocutori evocati e convocati sulla scena e destinatari/lettori. In effetti, inclusivo o esclusivo che sia, in ogni caso il noi inscrive eventi, stati patico-emotivi e ragionamenti in un’architettura enunciativa plurale: quindi il noi manifesta in superficie la natura collettiva del discorso e disegna un campo di relazioni rispetto al quale il lettore, a sua volta, è sollecitato a verificare e sperimentare il suo posizionamento, ovvero la sua vicinanza o distanza.
Un effetto questo dovuto alla natura semantica del noi e alla sua forte salienza culturale e sociale in quanto forma linguistica attraverso cui è possibile costruire o decostruire i confini fra codici (we-code/they code), confermare o modificare le nozioni e i valori sociali di ingroupness e outgroupness. Per le potenzialità e possibilità del noi nel discorso poetico, in effetti, vanno richiamate anche quelle funzioni retoriche e, per così dire, generative di collettività, ben documentate anche in molti generi socio-discorsivi a vocazione argomentativa e persuasiva, come i saggi o i discorsi politici; altrimenti detto, l’uso del noi in un testo crea linguisticamente una pluralità, che essa esista già o meno, che essa sia stata già percepita o no: l’uso del noi, quindi, può disegnare forme di aggregazione inedite e indicare nuove e future modalità di segmentazione o composizione dei gruppi[3].
A partire da queste considerazioni generali, mi limito a individuare alcuni usi mettendo in cortocircuito forme e semantica: che cosa succede quando appare la prima persona plurale in un testo? E, al contrario, che cosa accade quando la I persona plurale non è impiegata ma la complessiva architettura enunciativa del testo rimanda a una pluralità di istanze che suggeriscono un gioco di voci e una articolazione in entità collettive?
Per il primo caso, ben funziona Noi di Alessandro Broggi (Tic Edizioni 2021), che sin dal titolo esibisce la forma morfologica del pronome personale scelto per la dimensione enunciativa delle prose.[4] In prima battuta, in Noi l’istanza enunciativa alla I persona plurale rende conto del fatto che le prose raccontano le vicende e le esperienze percettivo-sensoriali di quattro figure-«segnaposto» che si muovono in uno spazio boschivo indeterminato e selvaggio[5]. Ma la I persona plurale ha anche altre funzioni: ad esempio, evidenzia il carattere ad un tempo fusivo e fluido delle percezioni delle quattro figure; fa confluire in una dimensione vocale plurima e corale i diversi lacerti testuali, pure attribuibili a distinte e singole identità; ancora, sottolinea il fatto che queste quattro figure sono accomunate dall’appartenenza ad una delle specie viventi del pianeta Terra, quella umana.
C’è poi da domandarsi se la scelta di un’istanza enunciativa alla I persona plurale sia anche una sorta di richiamo-appello per il lettore e punti a sollecitarlo in quanto membro, anch’egli, della specie umana. E qui, mi pare, il gioco del testo di Broggi si fa complesso, perché sia la costruzione sintattico-testuale, sia la gestione delle categorie di tempo e spazio producono un effetto di spaesamento che costringe il lettore a domandarsi che viaggio sia quello dei quattro personaggi-segnaposto e a che cosa si stia assistendo: una fuga dagli spazi urbani e dall’organizzazione sociale che, invece, il lettore ancora frequenta? Il racconto-descrizione del cortocircuito fra esperienza e sapere? In effetti, tutte le prose sono costruite con procedimenti interdiscorsivi e intertestuali, ovvero attraverso il montaggio di «plurime enunciazioni disautorializzate (e riautorializzate)»[6]: la prima persona plurale, dunque, sembra anche rinviare al nesso fra dati dell’esperienza, schemi di percezione e conoscenza ed enciclopedie; o meglio, il noi pare anche alludere a un viaggio attraverso le produzioni enunciative di un’autorialità anonima e plurale – tanto disincarnata, delocalizzata e frammentata, quanto pervasiva – che con la forma delle sue enunciazioni agisce sui modi in cui si organizza la percezione e l’elaborazione del mondo.
Vengo al secondo punto: ovvero se nello spazio delle scritture di ricerca ultra-contemporanea esistano modalità e forme di scrittura che evochino la dimensione collettiva e la questione problematica di che cosa sia oggi un noi attraverso le scelte enunciative, pur senza servirsi delle marche morfologiche di I persona plurale. Una dimensione plurale dell’impalcatura enunciativa è in effetti riconoscibile, pur in assenza della forme della I persona plurale, se si accoglie la prospettiva secondo cui l’enunciazione è un insieme di atti di mediazione con cui sono presi in carico schemi, e regolarità intersoggettive, abitudini e convenzioni adottate all’interno di una società[7]: ovvero, non è solo opera di un’istanza soggettiva localizzabile attraverso un “io, qui, ora”, ma anche un «concatenamento complesso» che tiene insieme diverse dimensioni e istanze enuncianti eterogenee.
A me pare, ad esempio, che in alcuni recenti lavori cosiddetti di scrittura non-assertiva sia possibile individuare una domanda sui valori del noi per effetto di una costruzione del testo che, senza alcun segno grafico di segnalazione e demascheramento di voci e/o dispositivi intertestuali e interdiscorsivi, è costitutivamente plurale, interdiscorsiva e citativa[8]. Può trattarsi, in Totem di Silvia Tripodi (Tic Edizioni 2022), dell’alternanza di pronomi e strategie enunciative impersonali sui cui poggiano gli shift fra sequenze meditative e sequenze descrittivo-narrative, funzionali a marcare i passaggi da una forma di esclusione/inclusione all’altra e le articolazione dello spazio fra vari they/we (chi sta dentro la casa del Grande fratello e chi ne è fuori; chi è uno studente cinese e chi non lo è; chi controlla e chi è controllato; chi ha vissuto la pandemia e lo sa, e chi l’ha vissuta e non lo sa, ecc.); o può trattarsi del falsetto ironico di una voce “sentimentale” che mescola lacerti di criptotraduzioni da Catullo con le forme affettive stereotipate di un parlato-scritto rapido e iper-mediatizzato, come accade in Poesie per giovani adulti di Michele Zaffarano (Scalpendi 2022). In ogni caso, in entrambi i macrotesti le prose adombrano collettività, gruppi, articolazioni we/they: inferibili, per così dire, da architetture enunciative stratificate. Architetture enunciative di questo tipo – mi sembra – spingono, dunque, il lettore a sentire l’assedio di/a gruppi e collettività e lo sollecitano: affinché immagini lo spazio delle voci percepite come un campo di posizioni che, complessivamente, ridiscute il confine fra personale e politico, smuove la superficie del dicibile e fa aggallare il rimosso; insomma, come uno spazio testuale e discorsivo che gira intorno a totem e feticci per nominare tabù e limiti e per ripensare stereotipi e convenzioni linguistiche da cui siamo agiti e di cui siamo, noi lettori e utilizzatori dei testi e della lingua, più o meno inconsapevolmente, vettori. E dunque, arriva la domanda: siamo che cosa, e dove?
Note
[1] In linguistica è detta dialogicità primaria la manifestazione dell’intera dimensione enunciativa e processuale del discorso: sono dunque segnali di dialogicità primaria le espressioni allocutive, gli enunciati non dichiarativi orientati verso un tu (imperativi, domande retoriche, ecc.), le espressioni logodeittiche, ma anche scelte interpuntive e modi dell’organizzazione tematico-informativa (vd. E. Calaresu, La dialogità nei testi scritti. Tracce e segnali dell’interazione tra autore e lettore, Pisa, Pacini, 2022 pp. 78-79). Per dialogicità secondaria si intende, invece, il piano della rappresentazione dei discorsi e le scelte relative alla riproduzione diretta e indiretta dei discorsi.
[2] Una ricognizione della riflessione linguistica sul noi, a partire dai saggi di Benveniste, è in F. Santulli, La prima persona plurale da Benveniste all’analisi del discorso, in po-ro-wi-to-jo. Scritti in onore di Mario Negri, a c. di G. Rocca et al., Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2023, pp. 757-772. Sugli usi pragmatici, vd. anche C. Bazzanella, The significance of context in comprehension: the ‘we case’, in «Foundations of Language», vii/2002, pp. 239-254.
[3] Su questi aspetti si sofferma Santulli, La prima persona cit.
[4][4] Su Noi e la sua organizzazione enunciativa si possono leggere recensioni e contributi apparsi negli ultimi anni a firma di Riccardo Castellana, Andrea Inglese, Lorenzo Mari, Filippo Pennacchio, Gianluca Picconi.
[5] Mutuo il termine segnaposto dalla recensione a Noi di Lorenzo Mari leggibile all’indirizzo https://www.argonline.it/forme-conflitto-noi-alessandro-broggi/.
[6] G. Picconi, rec. a Noi, leggibile su https://formavera.com/2022/02/14/la-prosa-in-prosa-del-mondo-su-noi-di-alessandro-broggi-gian-luca-picconi/comment-page-1/.
[7] Per questa impostazione teorica vd. C. Paolucci, Persona. Soggettività nel linguaggio e semiotica dell’eunciazione, Milano, Bompiani, 2020, p. 89.
[8] Vd. G. Picconi, La cornice e il testo. Pragmatica della non-assertività, Roma, Tic Edizioni, 2020. Ho raccolto, a mia volta, alcune analisi attente alla dimensione enunciativa e intertestuale/interdiscorsiva in C. De Caprio – A. Ferrari, Linguistica del testo e testo letterario. Fatti, prospettive, esempi di analisi, in Linguistica e testi letterari. Modelli, strumenti e analisi, a c. di S. Frigerio, Roma, Carocci, 2022, pp. 37-76.
[Immagine: Foto di Clarissa Bonet].
Per specialisti della materia, mi ci sono addentrata con una certa difficolta,e soprattutto non ne ho capito il senso finale, ma così dottamente e piacevolmente scritto!