di Sergio Benvenuto

 

Seguo in analisi delle persone che vivono in Ucraina: una miniera di informazioni su come si reagisce a una guerra come quella in corso colà da più di tre anni.

Non ho mai vissuto direttamente una guerra moderna, anche se i miei ascendenti, che ci sono passati tra 1940 e 1945, sin da bambino mi hanno fatto dei reportage così vividi e palpitanti delle loro traversie che quasi credo di aver vissuto la guerra. E devo dire che gli ucraini, i quali stanno vivendo un’esperienza alquanto simile, confermano in gran parte quel che i miei mi raccontavano. Ovvero, che anche le incertezze della guerra diventano routine.

Il punto essenziale è questo: continuare a vivere come se nulla fosse.

Una mia analizzante abita a Kiev. Qualche giorno fa c’è stata un’incursione di droni russi intercettati in volo dalla contraerea, ma un pezzo del drone è caduto sulla città e ha sventrato un palazzo a 200 metri dove lei vive, facendo una vittima. Me ne parla en passant. Le angosce che l’hanno portata in analisi, prima che la guerra scoppiasse, sono ben altre. Soprattutto la paura dei ragni. L’altro giorno ne ha sorpreso uno in cucina, ha avuto una crisi di panico… Quando invece di notte suonano le sirene – cosa che avviene molto spesso – continua tranquillamente a dormire anziché scendere nel ricovero.

 

Un’altra mia analizzante ha una figlia di dieci anni e un amante in Grecia, col quale vorrebbe ricongiungersi al più presto. Ma lei è convinta che nell’incantevole isola greca non ci sia una buona scuola per la figlia, mentre a Kiev studia bene e ha compagni cari. Da qui la sua incertezza. Ne parla con parenti e amici, e nessuno – nemmeno il padre della bimba – le dice qualcosa del tipo “con la guerra in corso, tua figlia sta meglio in Grecia”. Quasi tutti le consigliano di pensare prima di tutto al bene della bambina, e quindi di restare sine die a Kiev! Del resto, mi dice, la bambina non sembra affatto turbata dalla guerra. Di notte, mentre suonano le sirene continua tranquillamente a dormire. Quel che preoccupa la bimba sono invece le lezioni di tedesco a scuola: l’altro giorno non era preparata e rischiava di prendere un brutto voto.

Grazie all’analisi, la mia analizzante comincia ad aver paura. Tempo fa vide un palazzo del suo quartiere a qualche centinaio di metri da casa sua bruciare, ma si disse, come tutti, “sono cose che capitano!” Comunque, aveva cominciato ad accennare al rischio dei raid russi con i suoi vicini e amici – costoro però la guardavano in modo severo e incredulo. Le dicevano: “Non è patriottico avere paura!” In effetti la propaganda ripete continuamente che non bisogna farsi prendere dal panico, che la paura fa il gioco del nemico, che bisogna continuare a vivere come se niente fosse. E difatti tanta gente va al cinema, all’opera, nei dancing, si fanno feste di matrimonio. Tutti vanno regolarmente a lavorare, i ragazzi vanno a scuola. Anche se risuonano le sirene, come allarme. Il principio di mantenere il sangue freddo, in effetti, è sacrosanto in caso di guerra, dato che una funzione importante dei raid è proprio quella di terrorizzare la popolazione e spingere così l’onda pacifista nella nazione. La mia analizzante si sentiva in colpa insomma nel rivelare le proprie angosce.

 

Col tempo però, finalmente sta cominciando ad avere paura. Ma si chiede: “Sono io a paventare disastri improbabili, oppure vedo meglio degli altri in faccia la realtà?” E qui si pone una questione fondamentale anche per gli analisti.

Il diniego di una realtà minacciosa raggiunge cime ragguardevoli. Verso il 15 febbraio del 2022 incontrai una collega ucraina a Parigi, una capo-scuola, la quale mi propose di venire a fine mese a Kiev per tenere un grande seminario di tre giorni. Io leggevo i giornali e sapevo, come chiunque volesse saperlo, che l’invasione dell’Ucraina da parte di Putin era alle porte. Che insomma, anche se fossi andato a Kiev, poi sarebbe stato difficile tornare in Italia. Accennai così timidamente alla situazione politica, ma lei mi disse “Non ti preoccupare, sono tutte sciocchezze quello che scrivono i giornali! Non ci sarà alcuna guerra!” Devo ricordarvi quel che accadde solo sette giorni dopo?

 

C’è una scena rimarchevole nel film The Day after del 1983. Qui si mostra come gli Stati Uniti subiscano incursioni a base di bombe atomiche che devastano completamente il paese. Vediamo le cose dal punto di vista di una banale famiglia del Middle West americano, padre, madre casalinga, figlia e figlio. Scatta l’allarme, tutti sanno che devono raggiungere i ricoveri perché stanno arrivando i missili carichi di esplosivo nucleare. Il padre cerca di mantenere il sangue freddo e dice con calma ai familiari che bisogna scendere nel ricovero. Ma la madre si rifiuta. Stava rassettando la casa e vuol continuare a farlo come faceva ogni giorno, dell’incursione nucleare non gliene importa nulla. Tutte balle! Il marito deve trascinarla a forza nel ricovero mentre lei resiste urlando e scalciando.

Delirio di negazione? Ma non c’è in ciascuno di noi una sorta di delirio di riserva, di rigetto sanitario dell’orrore reale, che in certe occasioni ci salva dal panico e dalla morte?

 

L’eminente psicoanalista lacaniano Serge Leclaire ci parlò una volta di un suo zio. Questi, prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, dalla Francia seguiva con angoscia l’evoluzione della politica razziale del regime nazista. Lui ne era sconvolto. Sempre più sconvolto. I suoi parenti – tutte persone correttamente anti-fasciste – cercavano di fargli capire che la sua reazione era eccessiva, inappropriata, oggi diremmo “poco adattativa”. Ma lo zio di Leclaire ripeteva, “si preparano anni terribili per gli ebrei e per tutti noi!”. Allora i suoi cari pensarono bene di mandarlo a “riposarsi” in una clinica psichiatrica.

Oggi sappiamo che le esorbitanti paure dello zio di Leclaire erano molto al di sotto di quelle che la realtà successiva avrebbe dovuto suscitare sin da allora. Lo zio esibiva un trauma inopportuno. Siamo sempre noi non-traumatizzati a decidere quale sia il trauma giusto, quando la reazione eccede la realtà stessa o quando è inadeguato alla realtà stessa. Come se il trauma fosse un dato oggettivo, e non una nostra risposta agli eventi, una vibrazione molto soggettiva rispetto al bailamme del mondo. Questo bisogna spiegarlo ai tanti psichiatri che oggi insistono sull’origine traumatica dei disturbi mentali.

E in ogni caso constato, in Ucraina e altrove, la grande capacità degli umani di adattarsi a tutto. Gli umani si lamentano di tutto o quasi, eppure alla fin fine si adattano a tutto. Anche all’inferno. E mi chiedo sempre se di questo sia il caso di rallegrarsi.

8 thoughts on “Rifiuto del trauma

  1. Bruno Bettelheim nel suo Il prezzo della vita esamina appunto la capacità umana di poter adattarsi a tutto, fenomeno che a Dachau e a Buchenwald egli sperimentò sia di persona che come testimone diretto

  2. “Gli umani si lamentano di tutto o quasi, eppure alla fin fine si adattano a tutto.”
    (Benvenuto)
    +
    Perché le loro autorità di riferimento dispongono di potenti mezzi per indurli ad adattarsi, (Non “a tutto” ma a quello che decidono per conservare il loro predominio. Vedi ReArm Europe Plan). E altre autorità di riferimento, capaci di opporsi e guidare la parte degli “umani” disposti ad opporsi, stentano a nascere.

  3. Sarebbe corretto dire che questo è lo stesso meccanismo che spinge molte persone a non prendere sul serio la crisi climatica? meccanismo a cui si aggiunge in questo caso la consapevolezza che prenderla sul serio vorrebbe spesso dire introdurre cambiamenti radicali nel proprio stile di vita.

  4. L’intelligenza sembra una facoltà da cui l’essere umano cerca di difendersi. La stessa qualifica di “genio” serve ad allontanare alcune persone, a sollevarle nel cielo dei sacrificabili. Penso oggi all’Intelligenza Artificiale: l’abbiamo appena inventata ed ecco che compiamo due operazioni: sostituirla alla nostra e tentare di difendercene. D’altronde, il pensiero magico – da cui è impossibile affrancarsi – ci dice che chi intravede disastri li sta evocando, li sta chiamando su di sé e sugli altri. Avere paura della guerra significa renderla necessaria. Ma non c’è soluzione a ciò, se non lo stoicismo, il non volere dell’inorganico, e oggi del robotico. Chi resta umano sogna la guerra, che un tempo percepiva in un ghigno accennato, in una flessione muscolare dell’avversario di fronte.

  5. “Avere paura della guerra significa renderla necessaria.” (Febbraro)

    E quindi Putin o Zelensky o Netanyahu o non so chi farebbero la guerra perché ne avrebbero “paura”?

  6. Commerciare, visitare i monumenti, fare matrimoni misti è immensamente meglio che combattere. Ma può essere vissuto come una guerra alla propria identità. La Russia, ad esempio, ha paura che le si faccia la guerra. Così la rende necessaria (sta schierando truppe anche al confine con la Finlandia). Infatti l’Europa si sta riarmando e rispondendo alla guerra. E’ un automatismo fatale.

  7. “Commerciare, visitare i monumenti, fare matrimoni misti è immensamente meglio che combattere.”

    Certo, fin quando i dominatori – e non capisco perché nominare soltanto Putin – te lo permettono. L’ “automatismo fatale” perché dovrebbe essere imputato esclusivamente alla Russia? Il ragionamento che chi ha paura della guerra la rende necessaria perché dovrebbe valere solo per la Russia e non per l’Europa?

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