di Francesco Pecoraro
[Esce domani per Ponte alle Grazie Solo vera è l’estate, il nuovo romanzo di Francesco Pecoraro. Ne pubblichiamo in anteprima un estratto].
Giacomo, Enzo, Filippo sono romani. Solo la famiglia di Enzo è di Roma-Roma. Gli altri due sono, Giacomo di stirpe veneta e Filippo centro-italiana, ma tutti e tre sono nati e cresciuti qui, in questo che è diventato un qui a causa della città, cioè a causa del bassofondo del Fiume che in questi luoghi, 2500 anni fa, ha consentito la costruzione del Ponte. Fiume separa, Ponte unisce ciò che è separato. Se c’è un ponte, lì ci sarà una città, non viceversa. GEF sono dunque anch’essi figli del Ponte, ma è difficile dire con esattezza in che modo Roma li abbia determinati, ne abbia cioè formato la struttura mentale, la scala valoriale, il comportamento. Solo il linguaggio emerge ad ogni istante ed è a partire dal linguaggio che, osservandoli, ti accorgeresti del loro essere romani, se una quantità di altri segnali somatici, corporei, posturali e di espressione facciale e di abbigliamento non ti dicessero la stessa cosa, se i loro gesti, se certi rallentamenti voluti, non ti permettessero di identificarli facilmente e, per chi appartiene alla stessa città, di dirti a quale sotto-insieme e sotto-sotto-insieme sociale appartengono, rispetto al grande tutto indefinito dell’essere di Roma.
Roma è una sorta di rifugio a fronte della complessità del mondo, di cui hanno già avuto diversi assaggi in loco, poi esperienza diretta nel va e vieni europeo cui la loro generazione si è dedicata con un certo fervore e un sottile disagio, dovuto quest’ultimo all’essere il mondo, e in particolare l’Europa, per niente simili a Roma. Ma neanche un po’, sotto tutti i profili. Non sono provinciali più di quanto lo siano tutti i popoli soggetti all’Impero Americano ormai maturo di fine secolo. Le loro, menti profondamente colonizzate dall’America, mantengono una sacca quasi intonsa di romanismo, sia come già detto nel linguaggio—piuttosto che farsi assimilare, il romanello assimila e trasforma sintagmi anglo-sassoni—, che nell’atteggiarsi a fronte della vita, nell’attitudine acquisita a godersi l’attimo non credendo, o fingendo di non credere, che ci sia molto altro di cui occuparsi. Importante nascondere eventuali passioni, soprattutto agli altri, ma anche a sé stessi: niente mi piace o mi interessa fino al punto di farmi perdere il mio lento, esibito disinteresse. Ma se accade, allora meglio occultare che esibire, meglio mantenere un livello medio di attenzione e assimilazione. Ciò che è o diventa importante non può in ogni caso ufficialmente modificare l’eterna modalità di non-curanza che impregna il loro essere/apparire sociale. Per esempio, il look è importante, anche molto importante, ma non può mai diventare un sistema chiuso e completo di segni. Deve sempre mantenere come uno strappo, un’apertura, un’incongruenza che testimoni la tua non-curanza. Altrimenti saresti un milanese o un coatto, completo in ogni dettaglio come un tempo furono certi hipster di Williamsburg, al loro massimo apice di provincialità, o gli hippies lerci che giravano a piedi nudi per le strade di Amsterdam nei Settanta. Mai aderire pienamente, perché il successivo inevitabile rinnegare, sarebbe troppo imbarazzante. Tenersi al margine, partecipare, almeno una volta, ma poi limitarsi a esserci e a osservare per un po’. Andarci, ma andare via prima della fine. Credere in tutto e in niente, fin da ragazzi.
Amano parlare, non tanto il romanesco perché non esiste più e non saprebbero dirlo, quanto in un coattese attenuato e light, locale, contorto, a suo modo cool, amante della metafora e dell’iperbole, elaborato in periferia negli ultimi decenni e rimbalzato, più che in centro dove non c’è quasi più nessuno, nelle prime fasce urbane che lo circondano, attestandosi nei capisaldi dei centri sociali che frequentano più o meno tutti e dove Giacomo, Enzo, Filippo e i loro amici andavano fino a qualche anno fa e dove ogni tanto vanno ancora, a rinfrescarsi nei gerghi e sotto-gerghi locali, uno dentro l’altro a scatole cinesi, secondo sequenze ordinate dalla scala urbana a quella di zona, a quella di quartiere, a quella di scuola, a quella di gruppo politico, a quella di gruppetto di amici. Sono tutti e tre di estrazione borghesella, hanno letto qualche libro, se vogliono riescono persino a parlare un italiano quasi del tutto ripulito dall’inflessione locale, ma l’uso del gergo fa parte del piacere di stare insieme, la volgarità è quasi sempre citazione, anche se nei momenti d’ira, di pericolo, di estrema felicità ciascuno di loro è travolto dal dialetto. Il mostro millenario che chiamiamo Roma li abita e si riproduce anche attraverso queste giovani vite, lasciandovi le proprie spore che fioriranno in un futuro non-lontano, producendo umani maturi dediti al già detto, al già non-pensato, conformi alla città e pronti a loro volta alla sua riproduzione parassitaria.