di Alberto Casadei
La parte finale dell’ottima Introduzione di Massimo Gezzi al volume delle Poesie (1975-2025) di Franco Buffoni (Lo Specchio – Mondadori, 2025) è dedicata alla nuova raccolta inclusa, La coda del pavone. La continuità con il precedente volume di poesie ‘scientifiche’, Betelgeuse (2021), è forte, ma va anche sottolineata la consonanza con uno dei libri più notevoli di Buffoni, Guerra (2005), soprattutto riguardo al rapporto fra uomini e animali. Nel nuovo libro, i comportamenti degli animali sono osservati sia da un punto vista scientifico, sia da uno simbolico, con richiami evidenti alle religioni e ai miti teriomorfi. Dall’induismo alle concezioni del cyborg di Donna Haraway, passando attraverso Ennio e Lucrezio (ai quali si deve il titolo e il primo motivo di interesse per il simbolismo del pavone, indagato in tutto il libro), Apuleio e La Fontaine, Disney e la cultura pop, il nuovo libro di Buffoni fa interagire in maniera pervasiva versi e prosa, arrivando a un esame etico del vivere di ascendenza leopardiana.
Essendo già delineati da Gezzi i confini e gli assunti fondamentali del libro, proviamo a seguirne qui la configurazione e a segnalarne i vertici. Il testo di apertura, In basso sta la bestia, è una sorta di apologo che funge pure da indicatore di un procedimento poetico poi ricorrente: si parte da una constatazione (“Due milioni di anni fa la punta estrema / a Nord della Groenlandia / era ricca d’alberi e vegetazione…”, vv. 1-3), si sviluppa un ragionamento ‘scientifico’ (“Da lì proviene / il Dna più antico mai trovato…”, vv. 5-6) che però assorbe valenze morali e filosofiche, da essayst che inserisce una valenza interpretativa all’interno dei dati asettici forniti dalla scienza, e che si interroga su cosa occorre per ottenere la felicità in un ambito evolutivo: “E se commisurati al posto occupato / nella scala evolutiva / sono gli stadi d’accesso / al grande oceano della felicità, / in basso sta la bestia terrorizzata, / destinata a far girare la ruota, / in alto il principe di Biancaneve / che mentre vola sul suo cavallo bianco / non si accorge di affondare gli speroni. / Rossa di sangue infine giunge a meta / la seconda metà del suo animale” (vv. 9-19). In fondo, l’analisi dei modi di agire esibiti dagli esseri umani e dagli altri animali richiede, come qui, una finalizzazione: noi possiamo creare, con i miti o con le fiabe, degli ibridi che sono, per esempio, centauri, ma il problema è che il sistema evolutivo impone che alla felicità di una componente corrisponda la sofferenza dell’altra. Nella navigazione alla ricerca di un approdo nel “grande oceano della felicità” (riscrittura del dantesco “gran mar dell’essere”?), in effetti non c’è posto per la pietà, certo a causa dell’indifferenza della natura ma anche della legge inscritta nei comportamenti cosiddetti razionali: essi, dal lato umano, implicano che in ultima istanza “non resta che far torto, o patirlo”.
Con assunti simili, però, la poesia parrebbe una mera elaborazione in forma di parole del già noto. Dov’è allora che la componente biologico-cognitiva, indubbiamente veicolata da ogni forma d’arte, diventa significativa nella storia attuale proprio attraverso il poetico? Non direi che essa si riattivi solo nel proporre versi che potrebbero benissimo essere disciolti in una trattazione: “E forse perché davvero / la vita esiste e non significa, / lo scopo più alto è non averne” (La sostanza irrelata del globo, vv. 9-11). Viceversa, una prosa come Una bestia d’uomo, fondendo ricordi, reminiscenze di espressioni linguistiche locali, notazioni sulle formelle zoomorfe dell’Antelami a Parma e altro ancora, riesce a suggerire un processo che coinvolge natura e cultura, biologia e arte, i cui caratteri conosciamo molto parzialmente, e che forse può essere indagato meglio attraverso una scrittura associativa e multifocale anziché riesponendo norme già esposte altrove.
La componente che potremmo definire gnoseologica nella poesia attuale non si raggiunge ormai con le mere sperimentazioni, e non ha molto senso attribuire un valore alla ricerca di un presunto nuovo in sé e per sé. Bisognerebbe ripensare piuttosto ai fondamenti di molta scrittura poetica tra Sette e Ottocento, definibile in senso lato ‘romantica’: essa in molti casi, al di là delle autoconvinzioni e delle prove stilistiche personali, puntava a configurare esperienze integrate della realtà, nelle quali la dimensione razionale non veniva quasi mai accantonata (questo sarà tentato solo nel Novecento) bensì assorbita in un amalgama che aspirava a una verità per analogia. Naturalmente si può creare, come sarebbe sempre necessario, una scalarità, per esempio dall’Infinito di Leopardi al Prelude di Wordsworth al Faust di Goethe, ma il tratto in comune a opere così eterogenee è quello di riconoscere alla poesia una capacità di ricombinazione di esperienze eterogenee, in grado di generare oggetti linguistici a esse equipollenti, almeno a livello simbolico.
Nel caso dell’ultima raccolta di Buffoni, il primum resta un bisogno di realizzare una fenomenologia delle violenze: il tema-principe di tutte le sue opere è quello della sopraffazione, comunque e ovunque attuata. Ciò determina un andamento sapienziale, paragonabile certo a Leopardi ma, forse ancora di più, a certi libri biblici, come quello di Giobbe, in cui lo stupore per l’assurdità dei destini umani e creaturali viene bloccato d’imperio solo da Dio stesso, che si dichiara autore di queste assurdità per un suo piano inconoscibile. Sostituito Dio, nel tempo, dalla Forza, dalla Natura, dalla Storia, dalla Scienza, si mantiene intatto il problema di fondo, e non bastano a risolverlo le più autorevoli indagini disponibili – insomma, né Darwin né tutti i suoi interpreti, per fermarci al territorio di questa raccolta.
Ecco allora che la poesia è chiamata a creare un continuum là dove prevalgono le separazioni ancora da ‘due culture’. Un esempio chiaro in questo senso è Kamadhenu in cui l’attacco descrittivo, dove si spiega che la vacca indù del titolo “realizza i desideri”, sfocia in un ricordo dell’Ode on a grecian urn di Keats, poi in uno di Jucci (la protagonista di un altro fra i libri migliori di Buffoni) morente, e prosegue con una meditazione sull’esito ultimo dell’agire umano, mitico o reale, che potrebbe risultare soltanto un “vuoto” inspiegabile. Più ancora dell’esito, conta il modo impiegato per arrivarci, che dà senso, in una costante ricerca, pure agli eventi che diremmo propriocettivi ovvero ‘personali’ in senso tecnico.
Da questa angolatura possono risultare più ricche alcune poesie rispetto ad altre: più monocordi, benché non inadatte all’insieme, Teriantropo o Laika o Poenitentia; più cariche di risonanze Se il tubare dei colombi o soprattutto Che cosa manca agli animali?, nella quale la distinzione animali-esseri umani viene fondata sulla mancanza, fra i primi, del “Cristo deriso” e cioè del “dileggio del carnefice”: a ribadire, in questo modo, che il sopruso del forte-vincitore-dominatore sul debole-sconfitto-impotente è la specializzazione della crudeltà naturale nell’ambito antropocentrico, di quell’uomo in grado di disprezzare persino i suoi dèi.
Se nelle ultime due delle sei parti del libro vengono presentati di nuovo molti exempla sulla possibile percezione del mondo, magari ricordando con Hofmannsthal che gli animali sono geroglifici con cui Dio ha scritto cose inesprimibili (e da qui l’interesse misterico che continuiamo a nutrire verso di loro), decisivo nella compagine appare il dittico quasi centrale costituito dalla prosa Possiamo anche chiamarla etologia e dalla breve poesia Riso e arte. Nella prima viene rivisitato il libero arbitrio umano, che non è certo il dono supremo dato da Dio agli uomini, come voleva Dante, bensì solo il segno della mancanza di “istruzioni genetiche” sufficienti a determinarci: e così il rivolgersi all’altro, che sia un dio o un animale, garantisce la capacità analogica, la possibilità inesauribile di creare simboli, il nostro estenderci persino mediante le intelligenze artificiali. Come ci siamo riusciti? Siamo partiti dal ridere sugli accadimenti, come ha enunciato Georges Bataille, e di simbolo in simbolo siamo arrivati, nelle religioni induiste, a pensare a una “Terra / ben piantata sopra un elefante / in piedi sopra un guscio di tartaruga”, un sorridente iper-simbolo del nostro vivere e della nostra creatività biologico-cognitiva. Ma ora sappiamo, e Buffoni lo ha ben presente in questo libro, che quella combinazione delicata e ironica di divino, animale e umano può essere fatta cadere, così come la coda del pavone può danneggiarlo sino alla morte. Il poeta guarda allora il ridere come il piangere delle cose, ma forse più spesso inquadra, senza distogliersi, la sopraffazione e il gaddiano dolore che essa produce.