di Mimmo Cangiano

 

È necessario, questo il punto di partenza del nuovo libro di Arturo Mazzarella (La Shoah oggi. Nel conflitto delle immagini, Bompiani, Milano 2022), comprendere l’inconscio estetico che ha accompagnato e accompagna le rappresentazioni della Shoah. Se la storiografia ne ha sapientemente indagato motivi e documentazioni, restano però da indagare e comprendere le ragioni del suo farsi materia di rappresentazione artistica; magazzino tematico connesso sì alle sacrosante ragioni delle testimonianze e degli exempla (la Shoah, cioè, come simbolo di qualcos’altro, della realtà stessa in cui ci muoviamo), ma anche esposto alle secche del suo stesso farsi spettacolo, debourdiana merce da sacrificare al contemporaneo tritacarne del consumo-come-intrattenimento.

 

Portando in gioco un’impressionante bibliografia, La Shoah oggi si struttura allora su due scommesse e una certezza. Punta innanzitutto sull’idea che la produzione di «immagini» (degli internati così come di coloro che hanno interpretato l’Olocausto) sia stata e sia parte di un’attitudine resistenziale ai discorsi monologici, ‘univocizzanti’, del Potere (di cui il nazismo è inevitabile paradigma). Da qui Mazzarella costruisce il suo discorso strutturandolo metonimicamente, passando cioè da un autore all’altro sulla base della contiguità delle immagini stesse. Crea in questo modo associazioni e linee di lettura certo soggettive, ma allo stesso tempo fa così del libro la figura estrema proprio di quella attitudine resistenziale che punta sull’interpretazione, destabilizzante, per mettere in crisi ciò che vuole presentarsi univocamente (sia questo univoco anche il passato, e non a caso Benjamin è uno degli eroi in incognito del volume). La pluralità dei significati (ed ecco perché il sottotitolo del volume è Nel conflitto delle immagini), quella stessa pluralità che poteva essere solo latente nei ricordi dei testimoni oculari, si fa così a sua volta ‘metafora’ dell’inconscio estetico-politico connesso alla reazione testimoniale e artistica dinnanzi alla Shoah.

 

La certezza è invece, e qui le prove addotte dall’autore mi paiono incontrovertibili, che al centro di questo scontro fra chi, chiudendo in una singola identità (quella della vittima non-umana), aveva voluto negare sino il diritto a un’interpretazione, e chi ha continuato e continua a produrre «immagini» come rivendicazione dell’identità negata (e qui identità significa proprio diritto all’interpretazione), vi sia la questione dello «sguardo», seguita cronologicamente come testimonianza (chi ha visto il Lager), come riflessione (chi sa del Lager), e infine appunto come esegesi (chi interpreta il Lager riconoscendovi qualcosa di centrale, capiremo meglio dopo, per se stesso).

 

Dal Semprún di La scrittura o la vita a La specie umana di Antelme, la dialettica fra sguardo-negato e sguardo-liberato si fa infatti itinerario stesso della vita nel campo, proprio perché innanzitutto reazione istintiva di sopravvivenza (guardare i carnefici per capirne le intenzioni, non-guardare le altre vittime per non scorgere in esse la propria stessa “demolizione”). Il potere nazista può però far abbassare lo sguardo ma non può cancellarlo. La sua strategia è dunque più sottile (e la ritroviamo ben articolata nelle opere di Primo Levi così come in Essere senza destino di Imre Kertész). Si tratta di strumentalizzare la vista, di rendere cioè lo sguardo appunto mero strumento finalizzato alla sopravvivenza, al calcolo del decorso delle occasioni e dei rischi. Ma – e qui fa il suo ingresso il concetto canettiano di “metamorofosi” che è uno dei fil rouge teorici sottesi all’intero libro – lo sguardo continuamente rielabora le immagini che provengono dall’esterno e dall’interno. Riacquistando la natura di soggetti e non di oggetti, i prigionieri rispondono alla pervasività del potere, alla sua capillare invasività, mediante produzioni continue di immagini che formano e ri-formano indefessamente l’esperienza vissuta. Sottraendole l’aspetto univoco connesso alla strumentalità che non interpreta, la produzione di immagini (dall’attività onirica del Lazzaro tra noi di Jean Cayrol alla lettura simbolica di quanto sta accadendo) metamorfizza l’esperienza, permette di “essere altrove”, in quanto fuga, certo, ma anche in quanto negazione dialettica di un’interpretazione del dato che il potere vuole strutturata una volta e per sempre. L’immagine cioè, ed è un tema che era al centro di un altro libro di Mazzarella (Poetiche dell’irrealtà), trascende il materiale – ed è in tal senso “atto poetico” per eccellenza – riattiva tutto ciò che il potere vuole escluso dal quadro interpretativo di quanto sta accadendo. Lo sguardo ‘vaga’ e attiva punti di vista. Può arrivare, ad esempio, a vedere gli ufficiali nazisti oltre lo schermo mitico (nel senso sia di Sorel che di Rosenberg) che produce la loro uniforme, oppure può spingersi (come in Antelme) a notare la persistenza di un paesaggio naturale che si oppone al presupposto di una strumentalità che si vuole veicolata senza limiti, e pone infine il potere monologico dinnanzi a un’alterità (anzitutto di interpretazioni) che questo non può concepire senza avvertirsi vacillare. E di conseguenza, come ancora Antelme già comprendeva, l’idea di una Shoah “inesplicabile”, di una Shoah come evento “inimmaginabile”, rischia proprio di essere parte di quell’interruzione del meccanismo dialettico-interpretativo che ci permette non solo di comprenderne (di interpretarne) le manifestazioni che ancora si sporgono fino a noi, ma anche – ‘metaforicamente’ – di contrare quell’immagine di sé che si voleva sottesa al progetto dei carnefici. Lo «sguardo» che produce significato (cioè lo sguardo che crea, con nuove immagini, nuovi significati) coincide infatti con la messa in crisi di un potere che riesce a concepirsi solo mediante l’annullamento (e in tal senso è un potere nichilista pervaso dalla «pulsione di morte») di tutto ciò che non rientra nelle modalità della propria presenza. In tal senso, e mi pare che Mazzarella implichi proprio questo, quell’assenza che permette la proliferazione dei punti di vista (vale a dire quel modello di resistenza che non oppone identità a identità, ma interpretazione a identità) già ospita in nuce la protesta della vita contro la sclerosi del potere.

 

Uscendo dal Lager e passando alla memoria degli ‘eredi’, a coloro ciò che si trovarono a dover relazionarsi con la messe di testimonianze, lo «sguardo», sostiene Mazzarella, si trova a dover confrontarsi con una filigrana di interpretazioni che tendono a vanificare l’oggettività dell’evento, costringendo l’attitudine cognitiva a prendere costantemente la via di un’interpretazione del passato destinata però a vanificarsi di continuo, e trovando spesso proprio in tale vanificazione un’alternativa ai modi di funzionamento ideologico del potere. Celan si situa qui al centro di questo cortocircuito fra la coscienza di quelli “venuti dopo” e la sedimentazione collettiva delle “immagini” dell’Olocausto. Non è interessato, infatti, a dire la parola ultima sulla Shoah, ma non può smettere di guardarvi, riconoscendola parte integrante di un «patrimonio mnemonico collettivo» che si riverbera continuamente nella sua coscienza individuale. Si tratterà allora di un contrasto agonistico fra le «immagini» e la morte, dove la riemersione di ciò che la cenere ha ricoperto è salvezza di un passato che continua oscuramente a operare dentro di noi. È dunque memoria, ma solo a patto di intendere il concetto come estraneo a un procedimento di significazione univoca (e dunque implicitamente ‘strumentale’) di ciò che viene ricordato. L’assenza che tramite la memoria, come vuole Anne Carson, viene riportata nel presente non può (e non deve) ‘definire’ il passato (ed era questa del resto la funzione della memoria che si era espressa, pre-Olocausto, in tanto cultura di estrema destra, si pensi a Otto Weininger), ma deve sottolinearne appunto il suo intrecciarsi al presente in modi che non possono realmente essere precisati. Perché, come sa Marguerite Duras (Il dolore) che si interroga sull’imminente ritorno del marito (ancora Antelme) dal campo, il presente rivendica anche diritti spaventosi; nega fino la sopravvivenza delle tracce del passato, cioè di quelle stesse «immagini» che nel Lager e dal Lager erano state prodotte come testimonianza.

 

Stiamo entrando in un mondo abitato da personaggi il cui contatto con la Shoah comincia a essere indiretto, magari ancora mediato da motivi familiari (è il caso del Perec di W o il ricordo d’infanzia), ma sono motivi che, pur operando nella psiche dei contemporanei, non possono più sperare di legarsi a una ricostruzione oggettiva dell’accaduto. Ora lo «sguardo» che non ha potuto vedere, voglio dire, deve continuare a vedere. Non può farlo neanche tramite il registro della memoria, e dunque (è proprio il caso di Perec) deve identificare, come nell’ars classica, la memoria con l’immaginazione. Come fa per tutto il libro, Mazzarella anche qui fa seguire il suo stile ai temi che sta trattando: la scrittura si fa dunque più ipotetica, si apre a una sequela di domande che sottolineano appunto del mancato rapporto oggettivo col passato degli autori che sta trattando. La scrittura, negandosi alla consistenza oggettiva di ciò che vuole rappresentare, sa ora ab origine che nessuna attendibilità è possibile. Dalle «fotografie ingiallite» che emergono da vecchi bauli, il trauma si abbarbica all’individuale e inventiva libertà del postero che sa di star manipolando ciò che riporta alla luce. Interrotto il legame con la memoria, il ricordo si fa appunto – tornando a quanto dicevo all’inizio – interpretazione, ma l’interpretazione è proprio ciò che sfida la definizione monologica che era connessa allo sterminio, legandosi ancora a filo doppio all’idea di “metamorfosi” per come trattata da Canetti.

 

L’ultimo capitolo del volume si apre infatti con questa citazione da Semprún: «Soltanto coloro che sapranno fare della loro testimonianza un oggetto artistico, uno spazio di creazione, o di ricreazione, riusciranno a raggiungere questa sostanza». Su tale linea interpretativa, Mazzarella presenta efficacemente le Historie(s) di Godard alla luce di una teoria del montaggio, di marca ejzenstejniana, che si caratterizza appunto per il suo essere principio interpretativo che, anche fondato a partire dal presupposto di una sua arbitrarietà, pone in crisi il modello narrativo e banalmente esplicativo (e ancora, vorrei dire, ‘strumentale’) della narrativa classica di matrice hollywoodiana. La concatenazione delle immagini diventa infatti qui moltiplicazione dell’effetto interpretativo, forma(e) di accostamento (dialettico) che accrescono esponenzialmente la riflessione sull’evento (le immagini dei cadaveri nei campi ‘legate’ al sorriso di Elizabeth Taylor in un Posto al sole), non attualizzando il passato nel presente, ma cogliendo il processo storico che lega la Shoah al mondo che la segue. La storia, che all’inizio del volume era presentata in opposizione all’intervento dell’arte, riguadagna così una nuova funzione proprio attraverso l’opzione estetica. Non si tratta infatti di una provocazione, dice giustamente Mazzarella riferendosi ancora a Godard, si tratta invece di comprendere come la storia stessa si sia riarticolata dopo l’evento. La priorità prospettica del presente diventa così coscienza dell’intreccio di passato e presente. Come in Images of the World and the Inscription of War di Harun Farocki, il senso dell’evento passa ora in un rapporto di dipendenza con le condizioni di «visibilità» che il presente stesso detta di volta in volta. E dunque non è un caso che il protagonista dello scorcio finale del volume sia Sebald, o, per meglio dire, Austerlitz. L’uomo senza passato, senza interesse alla memoria e protetto dal suo stesso ‘presentismo’, incontra la Shoah modernisticamente, mediante una di quelle epifanie (o «intermittenze») che gettano nuova luce non tanto sulla realtà, ma sull’inconscio di chi la attraversa. Riconosciutosi parte di una collettività che si è tentato di eliminare, Austerlitz «vede» e «interpreta». Gli oggetti museali che lo travolgono aprono all’infinito storie (virtuali e non per questo meno reali) che Austerlitz finisce col riconoscere come parte integrante della propria identità, ma appunto di un’identità che si forma come tale solo attraverso l’interpretazione (è in fondo ancora il contrasto fra mito e interpretazione). La possibile moltiplicazione infinita dei punti di vista – l’interpretazione, dal presente, della Shoah – è quindi ancora rifiuto di quella univocità interpretativa (e dunque in quanto univoca anti-interpretativa) che aveva caratterizzato il potere nazista. Il disordine interpretativo («metamorfosi») si caratterizza infine come ciò che si oppone a quella «velleità di pianificazione» di cui la stabilizzazione del passato è per Mazzarella parte integrante. Perché se quella pianificazione, quella lettura strumentale del reale, avrà la meglio, questo mi pare l’inconscio politico ed estetico di La Shoah oggi, “neanche i morti saranno al sicuro”.

 

[Immagine: Images of the World and the Inscription of War di Harun Farocki].

1 thought on “Su “La Shoah oggi” di Arturo Mazzarella

  1. L’istituzione della morte come volonta’ estrapolata di morire, si applica non certo a persone, e nemmeno ad umanita’; ma a stucke, a pezzi di una macchina produttrice di vita destinata a morire, oltre la macchina che la produce. Abbiamo Azovstahl come esempio di questa alienante produzione di “nuove” vite. Abbiamo anche la fine di Azovstahl come risultato di una dicitura che sarebbe meglio fosse stata messa a perenne dimenticanza di cio’ che fu, e cioe’ ‘era meglio per te che non fossi mai nato”. Dunque re Mida era uno di quegli stucke e il pan che disse quella frase l’imbestiamento di un uomo “dormiente”. Teniamo per fermo che le produzioni di morte sono finite e ricordiamoci quanto inutile ricordarle…

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