di Alessandro Luca Pozzolo
Spesso, per allacciarsi ai grandi meccanismi che danno origine alla Storia, il punto di partenza ottimale non sono le grandi narrazioni, consunte e slabbrate da secoli di trasmissione, ma proprio quelle narrazioni marginali, le connessioni nascoste che ci offrono un accenno vivido degli ingranaggi, come le fibre di muscolo sotto la coltre di carne di un grande animale. È qui che ci porta l’ultimo colossale libro dello scrittore romeno Mircea Cărtărescu, più volte favorito per il Nobel e tra i più noti postmodernisti del panorama mondiale contemporaneo. Seguiamo le sorti di Theodoros, dalle sue origini umili nell’antica regione della Valacchia, nell’odierna Romania, alla corte di un boiaro, per infinite peripezie, tra intrighi spietati e spargimenti di sangue, brigantaggio tra monti innevati e pirateria nel Peloponneso, a sud, ai “lussureggianti cieli d’Africa”, dove Theodoros diventerà Tewdros II, spietato e pazzo imperatore d’Etiopia.
Come affermato dalla Nota finale, l’esistenza di un uomo chiamato Theodoros nato in Valacchia è di indubbio fondamento storico. La sua scalata fino all’apice di quel lontano regno è invece ipotizzata in una lettera alla Regina Vittoria conservata negli archivi britannici. Il romanzo si riallaccia dunque alla realtà – ma senza lasciarsene afferrare totalmente. Cărtărescu pensa meno a ricreare una presunta oggettività del mondo reale, e più a mettere in discussione la sua stessa esistenza, proponendola come parte inseparabile di un mondo concreto quanto onirico.
L’incipit merita una comparazione con un altro grande romanzo postmoderno, Horcynus Orca. Come affermato da Walter Pedullà riguardo all’opera darrighiana, “il mito del ritorno dell’eroe dalla guerra mescola le proprie acque con quelle apocalittiche della Bibbia.” Il protagonista di Horcynus Orca, ‘Ndrja Cambria, muore perché cerca “la strettoia da cui si accede al gesto originario, forse la fessura da cui si è nati […] Ulisse si salva perché, diversamente da ‘Ndrja, è un bugiardo”[1]. Vediamo dunque come la morte offra un punto di fuga rispetto alla mendacità dell’arte, della narrazione, e un punto di accesso verso il segreto della Creazione. Theodoros segue Horcynus Orca in questa ribellione rispetto all’epica di Omero, solo che qui avviene all’inizio, nelle prime pagine, in un’inversione che prefigura il fallimento dell’ambizione dell’uomo a essere Dio. Come vedremo, Theodoros è pronto a tutto pur di raggiungere il potere sugli uomini, e metalinguisticamente questo si riallaccia al tentativo della letteratura di inglobare la realtà – ma con già dentro il presagio di sconfitta.
Per aggrapparsi al reale, Cărtărescu ci offre una prosa performativa, da effetti speciali, con quello che il suo traduttore italiano Bruno Mazzoni definisce un “vocabolario onnivoro”[2]. Le descrizioni sono evocative, con parole sconosciute, unite a una cadenza cullante, e una specificità forensica, al meglio nelle rappresentazioni degli eserciti schierati prima di una battaglia, con “elmi fatti con crani di mucca” e “corde fatte col membro maschile dei cammelli”. Vengono in mente i selvaggi in abiti sgargianti che appaiono nel deserto di Blood Meridian di Cormac McCarthy. L’autore americano è noto per aver portato una sensibilità cinematica alla sua prosa, e anche per Cărtărescu la contaminazione di questo genere non è da sottovalutare. Gli schieramenti di soldati minuziosamente descritti ricordano gli Uruk Hai assemblati davanti al Fosso di Helm nel secondo film della saga Tolkieniana. E come McCarthy, anche Cărtărescu è interessato alla natura umana, alla fragilità interiore unita a una manifestazione esteriore di forza.
Rispetto ai postmodernisti statunitensi DeLillo e Pynchon, emerge dalla prosa più scorrevole di Cărtărescu il piacere di raccontare. Le sezioni che raccontano i passaggi a mare per il Peloponneso, i personaggi della ciurma di un veliero, o l’immersione in un paese selvaggio ricordano lo stile avventuriero alla Conrad. A questo si riallaccia però una missione epistemologica elusiva tutta postmoderna. Come Oedipa ne L’incanto del lotto 49, Theodoros cerca nelle isole greche dei simboli, delle sorte di Horcrux che insieme compongono una sigla divina e li possono indirizzare verso la biblica Arca dell’Alleanza. Nel corso del romanzo, Cărtărescu si abbandona a giochi di prestigio riguardo alla presenza della “vera Arca”. Theodoros la apre in sogno e ci trova dentro la sua amata perduta Stamatina, con addosso la corona d’oro di lui imperatore, implicando che l’Arca non è altro che una concrezione delle brame umane. Più tardi la apre e ci trova uno specchio, oppure vede sé stesso in miniatura che guarda dentro un’arca più piccola, con alle spalle una versione più grande di sé stesso che apre il coperchio e vede un altro Theodoros, in un infinito effetto matriosca. Questi elementi di realismo magico ricreano l’impianto della filastrocca per bambini “c’era una volta un Re, seduto sul sofà…”. Rendono il rapporto ciclico e imprescindibile tra la realtà e le sue rappresentazioni.
L’impianto formale del romanzo sono i sette arcangeli che raccontano la storia di Theodoros. Essi vedono il mondo come “un blocco di ghiaccio immobile nell’eternità”, quindi al di fuori dell’asse temporale. Nel corso della narrazione, si rivolgono sempre a Theodoros nella seconda persona, rendendo il refrain biblico per cui la sua storia è già stata scritta. Nel passato sono già contenuti i semi del futuro, dando luogo a un dilemma ontologico. I narratori si raccontano che c’è ancora tempo perché Theodoros si converta alla virtù, evitandogli una brutta fine, ma in realtà non possono ingannarsi, perché vedono ciò che verrà. Ma in questa fallibilità tutta umana degli arcangeli si può individuare una crepa nel meccanismo top-down del divino – e è forse questo lo spazio dato agli umani, quelli giù sulla terra, di libero arbitrio, di invertire il corso della Storia? Come prefigurato dall’inizio apocalittico del romanzo, per incapacità insita o scelta, Theodoros non si aggrapperà a questo spiraglio di salvezza. E così la sorte degli umani.
Ma se c’è un cuore pessimista in Theodoros, non manca però l’ironia, volta a rendere la fragilità psicologica degli uomini e la futilità delle loro ambizioni di onniscienza. Vediamo dunque eserciti armati fino ai denti che si allineano minacciosi e poi si danno alla fuga appena prima di scontrarsi, o pazzi con vaneggiamenti di grandezza che si autoproclamano imperatori degli Stati Uniti. In Valacchia, alla corte del boiaro dove cresce Theodoros, seguiamo una mosca che si posa sul letame e poi sul cibo nella totale ignoranza dei commensali. L’umanità, implica Cărtărescu, brancola nel buio, rendendo vuota l’affermazione del primo ministro Disraeli alla regina Vittoria, che solo i selvaggi “non distinguono i fatti dalle narrazioni”. In questo caso, la distinzione è solo un meccanismo di controllo di alcuni uomini – o donne – sugli altri. Brigante e imperatore sono due lati della stessa medaglia, e ogni illusione di dominio concreto o morale è proprio questo, un’illusione. Raccontare ha dunque valenza politica, perché rivela e occulta, segnando una gerarchia tra ciò che merita e non merita di essere ricordato.
In questo contesto di scivolosità della realtà oggettiva, un posto di rilievo è riservato alla dimensione onirica. Come affermava già il protagonista senza nome di Solenoide, “sapevo benissimo che il delirio non è una scoria della realtà, ma è parte di essa, a volte la parte più preziosa”. E poi ancora: da un lato c’è “il mondo omologato, piatto e tangibile su un lato della monetina e il mondo segreto, intimo, irreale […] sull’altro”. Solo il dito impassibile della divinità che mette in moto la moneta rende visibili entrambe le parti allo stesso tempo, superando l’umanità e la sua gabbia di percezione. Il sogno offre quindi una chiave aggiuntiva, va intessuto nella fibra organica della realtà di cui Dio conosce ogni angolo e sfaccettatura. Può essere positivo, un laboratorio che prepara alla realtà, come quando Theodoros combatte suoi amici banditi per finta da bargello, e questa esperienza ricreata nella sua mente lo prepara a battaglie concrete più avanti; o può essere fonte di vulnerabilità, un farmaco potente che diventa incontrollabile, come nel caso dell’amata di Theodoros, Stamatina, visitata periodicamente da un demone che le succhia la linfa vitale, lasciandola “con gli occhi vuoti”. La regina Vittoria, in contrasto, non si ricorda neanche un sogno, ed è questa la precondizione per governare l’impero più esteso di sempre. Come Dio e gli arcangeli, non ha bisogno di sognare.
Ma quali sono i punti di accesso al mondo onirico? Nel romanzo è spesso crepuscolo – il periodo di transizione tra giorno e notte, veglia e sonno. In Solenoide leggiamo: “ho cominciato a chiedermi se per caso la luce del crepuscolo non creasse semplicemente dal nulla l’ingresso.” È quindi l’ora della giornata con più potenziale, capace di far apparire ciò che è rimasto occultato nella luce piatta del giorno; un’ora di grande bellezza, ma anche rossa come il sangue.
Affiancata alla dimensione onirica come meccanismo di decodificazione del reale vi è l’arte. Sin da piccolo, Theodoros è ispirato dalle immagini di Dio e degli angeli affrescate nella chiesa dove vive, e si immagina un rapporto quasi alla pari con il Gesù che lo osserva dalla volta con gli occhi azzurri. Più tardi leggiamo riguardo alla ciurma di pirati che “ognuno del gruppo sentiva che la sua testa, che portava sulle spalle, era come la cupola di una chiesa dipinta all’interno con icone terrifiche”. Nella narrazione, descrizioni ecfrastiche si fondono con quelle del mondo esteriore, suggerendo che la realtà come la vediamo non è altro che un dipinto, e quindi l’arte può essere il punto di accesso tra materiale e divino. Il pittore Sisoe associa dipingere un corpo di donna a venerarlo – una dichiarazione di amore verso il mondo concreto. Ed è proprio l’arte che ci consente di uscire da noi stessi ed esprimere gli altri, sacrificandoci in un atto di amore che replica quello di Cristo.
Questo da un punto di vista visivo – da quello letterario c’è invece il narratore, che ha il dono di albergare dentro di sé una traccia di tutte le storie del mondo. Un esempio tangibile di questo lo offrono i monaci di San Gregorio, che possono parlare solo utilizzando formule che provengono dal Kebra Nagast, il sacro testo della Chiesa etiope Tewahedo. Allargando il raggio, l’intera mole della letteratura viene vista come una sfaccettatura di una rete universale di storie. C’è però una chiara distinzione tra chi narra da mortale, e chi su in cielo. Verso la fine del romanzo, in un’isola remota del Peloponneso, incontriamo Ingannamorte in persona – colui che ha scritto l’Ur testo, e che poi lo tira al vento pagina per pagina perché gli altri lo copino nella speranza di ottenere la salvezza divina. Vi è qui una satira delle ambizioni di grandezza degli scrittori, i quali sperano di ottenere l’immortalità attraverso i loro testi quando sono necessariamente riciclati da quelli di altri, perché l’unico testo da cui ne derivano tutti è quello scritto da Colui che non può morire.
La scrittura degli umani è destinata ad essere non solo riciclata, ma spesso mendace. Theodoros ne è consapevole e lo rivela apertamente riguardo alle lettere che invia alla madre da lontano. Si autodichiara Dio Comandante Perpetuo dei Principati Uniti di Anticitera e di Citera d’Oriente, quando in realtà è un semplice pirata. Ma forse quello che importa di più è la sua volontà di stabilire un legame con Sofiana – è questo che lo redime più di ciò che scrive. La madre pare rendersene conto, dato che gli invia fogli vuoti, una testimonianza del suo amore non traducibile in parole. E forse in questa assenza del testo scritto vediamo la presenza divina. Anche sulle tavole di Mosè, la Legge è scritta a un palmo dalla pietra, così come i tatuaggi della pirata Zephyr aleggiano sopra la sua pelle, rendendola intoccabile. Ogni parola marchiata su una superficie diventa falsa.
Se il fulcro di Theodoros è l’ambizione di un uomo di aggrapparsi al divino, questo ideale viene comunque relativizzato. Sono gli arcangeli stessi che dichiarano di voler essere umani, specie quando il mondo si mostra affascinante nella sua transitorietà. Gli arcangeli vorrebbero comprendere l’animo umano, come possa oscillare così liberamente tra bene e male, e vivere nella totale inconsapevolezza della propria ignoranza: “nonostante tu abbia calpestato tutti i comandamenti di Mosè a dismisura, ancora c’è infantilità e meraviglia nei tuoi occhi”. È interessante come, nel fargli ambire a essere uomini, Cărtărescu paradossalmente umanizza gli arcangeli, perché implica che ci sia un limite alla loro capacità di comprensione, data appunto dalla sua illimitatezza.
La fine del romanzo corrisponde al Giorno del Giudizio. A Dio è dato da leggere il libro della vita di ciascun mortale, incluso Theodoros, e la sua salvezza o dannazione dipende da quanto Dio si diverta a leggere il suo libro. Come gli arcangeli, Dio viene quindi umanizzato. Cărtărescu implica l’assenza di una morale universale, e che i concetti di bene o male dipendono da come la storia è trasmessa. Tuttavia, rimane offuscato se questa visione speculare di cielo e terra, con Dio e angeli fin troppo umani, non sia altro che ciò che gli umani possono processare di Dio, e forse niente più che un piccolo granello di una realtà molto più grande.
In questo lavoro di ampissimo respiro, dove poesia e visione incontrano un flavour distintamente postmoderno, Cărtărescu si dichiara meno interessato alla realtà oggettiva, e più in come i sogni, le storie e le nostre rielaborazioni di esse impattano il nostro concetto di realtà. Non a caso definisce il racconto “pseudo-storico” – il testo a cui si ispira è una storia che probabilmente è falsa.
Note
[1] Introduzione di Walter Pedullà a Stefano d’Arrigo, Horcynus Orca, BUR Rizzoli, Milano, 2017.
[2] Cinque domande a Bruno Mazzoni, la voce italiana di Mircea Cărtărescu (https://www.leparoleelecose.it/?p=43464).