di Adelelmo Ruggieri
La logica del sistema dei flussi disarticola, in senso sociale prima ancora
che spaziale, ogni struttura locale. Ma allo stesso tempo i valori locali
restano indispensabili, proprio perché è su di essi che l’economia
informazionale si regge. [Franco Farinelli: Geografia; 93. La città
informazionale]
1964, o un anno dopo. Le condizioni materiali di vita erano cambiate di non poco per molti; ci si stava emancipando da ristrettezze e superstizioni, ma il modo di concepire le cose restava quello di chi aveva conosciuto solo penuria, quando non era stata povertà in senso stretto, e svantaggio e i nomi dei non tanti paesi sulle colline che coincidevano con il suo sguardo; e la quindicina di ragazzetti schivi che fra poco prenderanno a scalare il monte appartenevano a quel contesto sociale. Andammo in gita sulle montagne. Sessanta chilometri, non di più. Ma da moltiplicare per quanto si è detto all’inizio. Visitammo il santuario; poi iniziammo a scalare un monte accanto. C’era molta luce. Era la fine di giugno. Piccoli escursionisti di provincia remota salgono. Un sentiero ampio; fasci di luce sfavillavano tra gli alberi. Salivamo accostati e silenziosi; battevamo piano i bastoni, e con lo sguardo attento a non pestare pietre. Fate così, ci avevano detto. Facevamo così. Arrivammo da qualche parte in alto. Si vedevano le vette? Non ricordo. So che nel ricordo era una radura, so che stavamo accostati. Una superficie intatta con nostri giovani respiri in cerchio a perimetrarla. Mangiammo qualcosa, due fette di pane più due ancora farcite in mezzo, bevemmo acqua e succhi di frutta fatti in casa. Finito che fu di pranzare, dopo un poco, iniziammo a scendere, di nuovo attenti, ma meno di quando salimmo. Tornai all’Ambro quattro decenni dopo. Dovevo scrivere un testo. Arrivai che saranno state le nove. Mi fermai un poco al torrente; poi entrai. La lapide della leggenda fondativa stava in una stanza sul retro con attorno le foto piccole di moltissimi pellegrini; a centinaia e centinaia, una accanto all’altra; una folla compatta di volti e la lapide della leggenda. Ma non era questa la ragione del mio essere lì. Avevo letto dei versi in lingua locale che mi avevano colpito. Erano di quegli anni lontani. Dicevano di una persona come noi di allora, classe sociale medesima, la quale giunta nella verde forra non riesce a capacitarsi dell’emozione che prova.
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Maggio, un anno fa. Perimetro della serie.
A un certo punto la provinciale prese a incunearsi fra le ultime colline alte; appena dopo, e sporgevano da esse, c’erano le montagne di qui. E ora era come stare fra due spalti ravvicinati sempre più fitti di boscaglia; non di rado giungeva fino agli spiazzi retrostanti le case, tutte costruite a ridosso o non distante dalla strada. Molte in abbandono, e lì non c’era margine del domestico all’espandersi della selva – fragilità del punto, fermezza della superficie. La radio commerciale a volume basso non soffocava la conversazione nell’abitacolo; una sorta di rumorio di fondo, ma decifrabile: le news dell’ultimissima ora, canzoni, facezie, spot ammiccanti o grevi, in una sorta di neolingua razionale e emotiva insieme spiana tutto piglia tutto per l’anno in corso, l’anno venturo si vedrà. Intanto quel verde cresceva per superficie e compattezza. Stavo dietro, guardavo dal finestrino, di lato. Avvertivo e doleva non poco la differenza a suo modo estrema che corre fra una solitaria camminata tra le montagne, magari per scriverne, e quella panoramica veloce. Non poteva che essere così, certo, implicito, ma quel verde così denso e inaspettato faceva più manifeste, esplicite, quelle opposizioni. Poi si arrivò dove si doveva arrivare, per un festeggiamento conviviale. Un casale del primo Novecento messo a nuovo e personalizzato in stile Piccolo Nevada, Appennino orientale esterno – il punto incongruo ma per niente scollegato. Panorami su colline alte e montagne; antipasto locale in piedi a mitigare in più i piatti al tavolo, nuova cucina minimalista; composizione sociale: sulla retta inclinata media. Tre megatv. A tornare indietro si scese da un’altra parte e si arrivò con la superstrada fino al grande svincolo, e di lì a casa. Intanto era insorta una grande stanchezza nella vettura, specie nei due quasi anziani in fondo, fra i quali il sottoscritto. Si era fatto per intero il periplo della metà inferiore delle Marche meridionali; il primo lato, in alto, verso l’interno; poi le ultime colline alla dorsale montana; il terzo, adiacente l’Abruzzo, verso mare, a quattro corsie; il quarto, a salire, autostradale, parallelo alle spiagge, ricoperte per l’intero di cemento.
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Aprile, quest’anno. Indice della serie.
C’è voluto il suo tempo per capire come stanno messe tra loro, nel loro articolarsi di rapporti spaziali, e i nomi precisi che hanno. La consuetudine dei decenni le aveva inglobate – le montagne all’orizzonte – in una sorta di dato visivo scontato, ancestrale. E invece niente di acquisito né scontato, ma ancestrale sì: ci hanno preceduto. Si trattava di studiare l’Appennino Centrale. In questi mesi non poche volte mi è capitato di chiedere a non poche persone di qui che conosco se riconoscevano quella tale montagna, che si vedeva da dove si stava in quel momento. La risposta, due volte su tre, è stata: No, che montagna è? Lo stesso sarebbe accaduto a me cinque mesi fa. Sul Vettore, capofila a sud dei Sibillini, nessuna esitazione, quello è. Ma già più avanti, verso nord, ritorna non poca vaghezza, e la Sibilla da alcuni la si confonde con la Priora, e sono non poco differenti, e avanti ancora c’è un monte facile da riconoscere, Monte San Vicino; ma anche in questo caso un perfetto sconosciuto quasi sempre. Eppure è un monte notevole e lo si vede da ogni dove. Così notevole da dare il suo nome alla Dorsale esterna orientale dell’Appennino Umbro-Marchigiano. Altre volte perfino il Gran Sasso, ultimo a vedersi da qui e inconfondibile, suscitava dubbio: Quello è il Gran Sasso. Quello è il Gran Sasso? Sì. E quelli davanti sono i Monti Gemelli e davanti ancora c’è la valle del Tronto, che nasce sui Monti della Laga, quelli, in comune di Amatrice. Da qui si vede Amatrice? Non si vede, ma è appena dietro quei monti. Il Monte dell’Ascensione in mezzo, riconosciuto non sempre; il Conero sul mare sempre, nemmeno si domanda. C’è voluto il suo tempo. Ma le montagne sono sempre lì, a conferma, limite occidentale alla superficie, quadridimensionali a metterci il tempo o il biologico nel susseguirsi delle stagioni che non sono più quelle di una volta, certo, ma rimangono stagioni. Delle volte coperte, le montagne, ma il giorno dopo nitide, con i loro nomi e quelli sono. E capirle un poco di più è stato come quando si afferra un nuovo concetto, di quelli essenziali, perché a monte ci sono loro.
[Immagine: montagne appenniniche]
Gentile Adelelmo,
“C’è voluto il suo tempo per capire come – (le montagne) – stanno messe tra loro, nel loro articolarsi di rapporti spaziali, e i nomi precisi che hanno”…. “1964, o un anno dopo”… “Aprile, quest’anno”… E’ vero le montagne possono donare a chi ha sensibilità di riceverli insegnamenti inesauribili e si può impiegare più di mezzo secolo ma non per “capirle” ma solo per imparare ad amarle… Complimenti vivissimi. Un “amante” dei Sibillini
Gentile Paolo, grazie del suo commento.
A mio giudizio capire, e conoscere e comprendere, e amare – in questo caso le montagne e i paesi che vi sorgono –, stanno insieme.
Un po’ di giorni fa sono stato ad Amatrice. La strada principale di accesso era chiusa, mi hanno spiegato come arrivare; dovevo fare tutte le frazioni e di lì a una decina di chilometri, forse di più, l’avrei raggiunta. E così è stato. Arrivato in paese volevo prendere qualche appunto, ma non avevo una parola che sia una dentro di me a vedere quanto è successo.
Era circa l’ora di pranzo. Ho cercato un posto dove mangiare qualcosa. Ho trovato un bar che hanno riaperto da poco. I tavoli erano tutti occupati, ma alcune sedie erano libere. E allora ho chiesto se potevo sedere. “Certo, si sieda”.
Sul bancone c’era la Torre Civica in miniatura, con le lancette dell’orologio sulle 3:36 del 24 agosto di un anno fa. Ho chiesto se l’avevano fatta dopo il terremoto. “Era di prima, abbiamo spostato solo le lancette”. “Speriamo che l’orologio riparta da qui a breve”, ho detto. “Stiamo ripartendo, non è semplice, ma stiamo ripartendo”, mi hanno risposto. E tutto ciò è stato, come scrive lei, inesauribile per insegnamento.
Un cordiale saluto
D’accordo, gentile Adelelmo, capire ed amare possono stare insieme ma solo se il “capire” diventa anch’esso un atto “inesauribile” come l’amare. Cosa che era bene precisare, allontanando così definitivamente l’idea – che poteva legittimamente nascere leggendo il suo articolo – di poter afferrare “un nuovo concetto” una volta per tutte.
Con i miei più cordiali, partecipi saluti.