di Carmen Gallo, Vincenzo Frungillo e Ivan Schiavone
[Da qualche giorno sono disponibili tre nuovi titoli della collana di poesia italiana e straniera Adamàs, per l’editore La Vita Felice: Stanze per una fuga (Poesie 2014-2024) di Carmen Gallo, Didascalie venatorie di Ivan Schiavone e La luce dell’eclissi di Vincenzo Frungillo. Pubblichiamo un estratto dai volumi.]
Da Stanze per una fuga (Poesie 2014-2024) di Carmen Gallo
Ricostruire l’animale
dalle promesse che è stato
capace di fare. E dimenticare.
Non dalle ossa abbandonate,
ma dalle impronte che si allontanano.
Dalla corsa. Forma semplice.
La storia interna e la storia esterna.
Chi corre ha perso. Chi corre scompare
ma si porta dietro tutto. Chi resta
impara a nascondersi. A non essere niente.
Fingere le ipotesi. Le cose non accadono
a quelli che spariscono.
*
Tornare in superficie
come bocche di colpo spalancate
animali finalmente anfibi.
Dimostrare di avere imparato
il doppio respiro, a stare e restare
nello spazio indiviso dove le cose
accadono e basta. In questo gioco
chi si cerca e chi si nasconde
hanno la stessa faccia.
La paura costringe a forme di vita
innaturali, costringe a stare
nella durata di un altro.
Impossibile prendere aria.
Restituire la paura, lasciarla
sulla soglia di casa e dire
puoi tenerla o nasconderla in giardino
prima che il tempo e lo spazio
propaghino la sua forza.
È novembre. Ho trentasei anni.
Mi porto dietro tutti i miei luoghi.
Faccio attenzione a non dimenticarne nessuno.
*
gli altri stanno in piedi a guardare
finché resto qui a parlare
nulla o poco può succedere
le pareti più delle voci mi costringono
in questa stanza dove niente
mi somiglia e niente mi riguarda
le donne spingono e spingono
gli uomini stanno in piedi a guardare
io e te dove andiamo
dall’altra parte dicono non c’è niente
aggrapparsi ai corpi, sopravvivere
anche gli animali si spostano
migrano dove si gela meno
la mano preme forte contro lo sterno
fa uscire l’aria, fa
allargare il petto sull’asfalto
la strada sterrata, la fine del selciato
ancora la caduta più del salto
*
Quanto basta a specchiarsi e a riaversi
senza più attendere il nome delle cose
legare al letto ciò che non ci sopravvive
con la bocca sulla bocca difendere
ciò che non detto pure esiste
ma poi arriva
l’elenco necessario delle cose che hai
e non t’importa più di perdere
ciò che muto non ti somiglia
*
E mai più cercare ragione del torto
perché il torto lo portiamo al collo
come una pietra levigata nella stretta
un silenzio da osservare da vicino
allentare la presa non è ancora
respirare ma entra l’aria lo senti
nelle spalle che accolgono il colpo
nelle braccia liberate in dispersione
come se gli occhi fossero finalmente
da un’altra parte come se la fronte
non stesse lì a dividere il soffitto dalla gola
e la caduta è rivendicazione silenziosa
di ogni cosa al di qua della visione
una domanda che scende dagli occhi
e non si riempie e non si svuota
*
Da La luce dell’eclissi, Vincenzo Frungillo
Prima Scena
Cade verso un letto, cade di nuovo,
non smette di cadere, cade verso un letto,
si rialza, cade di nuovo, s’addormenta,
si sveglia, la prima immagine che vede
è ciò che spera, affila l’idea, ci lavora,
approssima la forma, l’avvicina all’orizzonte
-deve sopravvivere agli eventi-
gioca di fino, assottiglia il simulacro,
ora è un riparo, un recinto, mette a fuoco,
la prima immagine che vede è un cerchio,
con dentro un altro cerchio,
una macchia scura che diventa figura,
poi scena, habitat naturale, maniera.
Ci pensa, e ci ripensa, tra sé e il nulla.
*
Si ripara in una piega che non è sua,
si abitua ad un’idea fino a darle forma,
si difende dall’incedere delle ombre,
dall’estraneo che bussa alla porta.
S’addormenta al fuoco della legge,
la confonde con l’arma più dolce,
dimentica la forza, la nasconde
nella fibra delicata della voce.
“Il nemico è sulla porta”,
gli sussurra chi ha memoria
“questo spazio è la tua dimora”.
La parola è inizio di ogni cosa,
in sua assenza è tutta pianura
che la mente non sopporta.
*
A.
“Se dovessi indicare un inizio,
direi che è questo, lo spettro,
un fantasma che arriva,
e sai che arriva quando è già dentro,
uno spazio mai chiuso
che delimita lo scontro,
un costume mai dismesso
che ti disegni addosso,
mentre stai per dire la tua,
sei lì che balbetti la battuta,
con lo straniero sul volto,
un barbaro al centro del mondo,
mentre impari il come, il segno,
e il suono, del suo nome.”
*
A.
“È sempre un ripetere negando
il buco nero che ci sta accanto,
non certo lo spazio profondo,
ma il dentro, il mostro quotidiano
che dice: esisto, ti vedo.
Così veniamo al mondo,
distruggiamo il mondo,
con un solo gesto, lo stesso,
il passo che crea lo spazio,
la pagina che riporta a casa;
è un incedere spezzando
la voce che si piega a chiasmo,
un nastro di Mӧbius, che inizia
lì dove finisce la vita.”
*
A.
“L’allineamento dei corpi
poi la luce filtra dopo l’eclisse,
crea uno spazio che non finisce,
muove lo spasimo della scrittura.
La mano oscilla, s’interrompe,
pone il limite alla buona sorte,
segna il confine, apre le porte
al sortilegio degli uccelli sulla collina.
Come Lavinio sul Tevere
attendo che arrivino dall’oriente
per fondare la città terrestre.
Sono il sigillo e la dolce rovina.
Questa è la prima scena,
lo spazio da cui tutto inizia.”
*
da Didascalie venatorie, Ivan Schiavone
DIII.1
Murmure d’acque che inerti il notturno riverbera, un rumore di fondo il paesaggio, increspato da un vibrato sommesso, come da un canto di donna sospeso, indistinte parole o frammenti di una lingua remota confusa con lo sciabordio, i primi albori e poi nette, le forme del mondo che l’aurora ha portato alla luce. Lungo la superficie eterea il transito di un’imbarcazione.
*
DII.12
S’innalza la mezzaluna dal capo allo zenit ottenebrando catasterismi e predazioni o circonfusa si libra, tra nembi ed aloni, ancorata a canicola da cavo apparente, lungo la volta stellata disparsa. Tra i flutti dei capelli le navi, i corpi dei naufraghi in balia delle onde o rigonfi natanti sotto il pelo delle acque trascinati al fondale, traverso un gelo viscido d’alghe e meduse i cadaveri, mucillagini e filamenti nel plancton, scarnificati dal gambero e dalla corrente. Con strappo leggero disimpiglia le dita riversandogli contro un immane frangente: «racconta ora, se puoi raccontarlo, d’avermi vista nuda».
*
SI.r
Ottiche ittiche, chele, cheloidi, lungo le eclittiche delle dee ellittiche, aptiche, settiche, landre e ginoidi.
*
DI.15
Come l’onda che all’onda si accavalla e segue andando a frangersi sull’arenile. Senza moto a un tratto la battigia e ferma, una quiete in cui collimano volta celeste e oceano. Da millenni ad osservare i due bambini stanno o edificano con quanto il ritmo vario dei marosi ivi deposita: frammenti fittili e conchiglie, legni di mare e plastica, strame; sterminati i giorni su di loro si distendono riflettendo il moto d’astri o al lume anelano la perturbazione protraendosi. Sull’acqua una piroga governata con lunghi remi, l’idrovolante ammara, vele latine e vele quadre, una rompighiaccio nucleare all’orizzonte.