di Marcello Fisichella
Consigli di classe. Scuola, democrazia e società,
rubrica a cura di Mimmo Cangiano
Può capitare, in questi mesi, che andando al cinema ci si imbatta in file chilometriche, centinaia di persone scure in volto. Ma non per un film. In sala si radunano centinaia di insegnanti e aspiranti tali per seguire le lezioni del corso abilitante per docenti. Come per un film, degli addetti in uniforme fanno scorrere la fila, si timbra un badge che attesta la presenza e ci si siede su comodissime poltrone. L’utenza – o meglio, la clientela- è vasta e variegata. Ci sono i precari storici, alcuni piuttosto âgé, che sperano nell’abilitazione per passare in “prima fascia di supplenza”, l’ultimo gradino di purgatorio del precariato prima dell’empireo del posto fisso. Ci sono le “nuove leve” appena laureate, ancora in trance agonistica dall’ultimo esame che, quasi per inerzia, continuano a studiare. Con l’abilitazione in tasca avrebbero il requisito per partecipare al prossimo concorso; e, infine, i vincitori di concorso che senza abilitazione perderebbero il posto e dunque si accollano un’ultima corvée. Insegnanti o aspiranti tali spendono una cifra che va dai 1500 ai 2500 euro per seguire questi corsi: l’equivalente di uno stipendio, quasi due (magnanimamente è stata concessa, va detto, la possibilità di rateizzare). Certo, non sono formalmente obbligatori, ma gli iscritti sono migliaia, spinti dalla paura di essere scavalcati da chi si abilita. Altri, semplicemente, non hanno i soldi e non partecipano: una scrematura per censo, netta e silenziosa. Come direbbe Clint Eastwood, noto marxista, “il merito non c’entra niente in questa storia”. I sindacati di categoria, oltre che dissentire non possono, ridotti come sono all’impotenza dal sistematico smantellamento di ogni corpo intermedio: qualcuno concede pure che sono troppo cari, nuove forme di speculazione sui precari, ma che non c’è modo di sottrarsi; altri, invece, con più spiccato senso pratico, dietro percentuale indirizzano gli iscritti presso questa o quella telematica.
Le Università si sono ritrovate in mano una miniera d’oro: una cosa che prima non esisteva diventa improvvisamente necessaria. Gli atenei pubblici, non tutti volentieri, hanno organizzato i propri corsi abilitanti, e a prezzi un po’ più bassi delle telematiche. Molti professori mugugnano, e reputano i corsi un’occasione persa, oltre che esosi, ma in fondo per le Università è un modo per fare cassa: le (tante) quote delle iscrizioni non sono affatto sgradite, dopo decenni di tagli che ne hanno scarnificato le finanze. Ma chi ha vinto davvero la partita sono le università telematiche: con la promessa di percorsi “smart”, “flessibli” (sostanzialmente più facili), hanno registrato un boom di ricavi. Ad esempio Pegaso – dotata di robusti agganci politici e istituzionali[1] – ha guadagnato, dalla mungitura di almeno (e saranno sicuramente di più) 7000 iscritti, non meno di quattordici milioni di euro. E si tratta di una stima molto al ribasso che considera solo una quota media di iscrizione di 2000 euro (tralasciando percorsi da 2500 euro, che pure esistono): dal computo si escludono 150 euro di “tassa per l’esame finale” e 100 euro di “tassa di iscrizione” che consentono al candidato l’accesso a una graduatoria da cui si può essere esclusi se qualcun altro possiede punteggi più alti (dunque per alcuni è una quota a fondo perduto). Il Ministero, per evitare di favorire troppo le università telematiche, ha poi deliberato salomonicamente che solo il 50% delle lezioni si tenesse da remoto: ed ecco che qualche intraprendente telematica si è inventata la trovata delle lezioni al cinema, forse una ardita strategia di edutainment. Tutti felici, dunque, tranne chi i corsi li deve seguire, e pagare.
Il sentimento prevalente di chi li frequenta è una diffusa amarezza, il senso di costrizione e di perdita di tempo. Molti dei partecipanti già lavorano a scuola (infatti i corsi si tengono fra il sabato e la domenica) e pochi hanno voglia di seguire: si lasciano scorrere le ore addosso come tempo morto, rotto. Tutt’al più, la critica più frequente che viene mossa a questi corsi è che “le lezioni sono davvero poco pratiche, del tutto inutili”, “poco applicabili”.
Ed è sintomatico che l’unico criterio per stabilire la validità di una lezione sia quali e quanti risvolti pratici essa possa avere, e i corsi abilitanti, di qualsiasi Università, seguono tale impostazione tecnico-pratica: pedagogia, metodologie didattiche, progettazione didattica, didattica della geografia, della chimica, della letteratura. Nessuna di queste è una disciplina scientifica, nessuna di esse ha uno statuto epistemologico. Se qualcuno resuscitasse Hegel e lo piazzasse a tenere un corso di “didattica della filosofia dialettica” sarebbe sicuramente interessante, ma perché riguarderebbe la filosofia dialettica in sé, e non la sua didattica. Anche il professore più dotato, brillante e preparato, rivela presto il suo bluff, e una lezione di didattica -di qualsiasi materia- si risolve, nei casi più felici, nello snocciolare le più disparate casistiche che si possono verificare in una classe. Valanghe di peer tutoring, flipped classroom, innovative approach, e altre metodologie più o meno sensate ingessano il processo di educazione all’interno di strutture procedurali e normative: si dà per incontrovertibile che la pedagogia sia una scienza autonoma e normativa, capace di stabilire leggi e metodi generali[2] per educare perché, in fondo, si considera la cultura una massa liscia e uniforme, senza striature. Certo, le metodologie didattiche offerte sono “diversificate” e arzigogolate, “customized” sulle esigenze individuali di ogni studente, ma sono tanto malleabili proprio perché il contenuto è considerato sempre uguale, pre-impostato. Lo scopo di tali corsi è “insegnare a insegnare”, impadronirsi di una tecnica che va riprodotta in classe, modelli standardizzati di cultura replicabili in serie. La retorica che si accompagna a questi percorsi è quella di una scuola che “deve rinnovarsi”, stare al passo con i tempi, una scuola, insomma, finalmente efficiente, ibridata con le ICT, le tecnologie nuove nella scuola vecchia. Tutto ciò viene raccontato come inevitabile e necessario, oggettivo. La piattaforma ideologica cui si aderisce è la medesima, trasversalmente: se l’ideazione dei corsi abilitanti risale al Governo Draghi, “il governo più competente della storia”, è indicativo che l’unico partito che non faceva parte di quella compagine governativa, una volta salito al potere (a parole in aperta discontinuità), ha serenamente seguito la via già tracciata, rendendo operativi i percorsi abilitanti. Da più di dieci anni ministri di qualsiasi colore non fanno che proclamare l’urgenza di stringere il nesso fra scuola e lavoro: dall’alternanza scuola/lavoro di Renzi fino a Valditara, che quotidianamente dichiara come “la scuola deve adeguarsi alle esigenze del Mercato del Lavoro”[3], come un dio a cui sacrificare, implacabile e severo.
Ma rendere tutti – gli studenti come i docenti- manovalanza variamente qualificata, ingranaggi di una macchina, di quel Mercato del Lavoro che si pretende funzionante e “giusto” a priori è davvero una buona idea? Si adopera la scuola come sala d’attesa di un centro per l’impiego, riproduzione in miniatura di una società che però è sempre più diseguale, al cui interno i divari economici e sociali crescono e si fanno irreversibili. Qualche dato aiuta a comprendere la situazione: l’Italia occupa il settimo posto nella classifica della povertà europea, con un tasso di povertà (23,1%) superiore alla media; il tasso di povertà dei minori è significativamente più alto (27,1%) rispetto a quello generale (23,1%); giovani e bambini sono la fascia maggiormente esposta alla povertà[4], e a ciò va aggiunta una mobilità sociale pressoché azzerata[5]. Perfino nell’avanzata Lombardia è rimasto poco di economia reale: gli alunni sono figli di immigrati e operai a basso costo, o, all’opposto, di dirigenti di qualche multinazionale: sanno che moriranno dove sono nati, poveri e ricchi, e già alle scuole medie si crea una spaccatura di conoscenze e opportunità che non si rimargina più.
“Prof, ma che studio a fare? Tanto c’è l’intelligenza artificiale che fa le cose al posto mio”, è una domanda che sempre più spesso gli studenti fanno. Si, c’è la goliardia, il meme, ma, in fondo, è una richiesta amareggiata e legittima di senso. La risposta è spesso vaga, retorica, impacciata. Gli insegnanti stessi non sanno come rispondere, ed è forse una domanda che, rovesciata, andrebbe rivolta a loro, perché “la grande trasformazione” è già in atto: non della macchina che rimpiazza l’uomo, ma dell’insegnante che si fa involucro artificializzato, simil-tiktoker, facilitatore, automa.
Evaporata la dimensione critica, nella scuola nuova il pensiero è inteso come mera potenza di calcolo, e l’insegnamento come performance e addestramento[6]. Semplicemente, non c’è niente da trasformare, niente da pensare. È tutto già compiuto, già pensato: There is no alternative.
Tramonta l’idea che la scuola – anche solo in potenza – sia luogo di educazione intesa come il fine più alto, processo potenzialmente infinito cui l’uomo tende: lo studio (dal quale una componente di fatica, di costrizione e insofferenza è ineliminabile) non ha più valore in sé, non è assunto come strumento trasformativo della propria vita e della realtà, meritevole di essere perseguito e sostenuto. I corsi abilitanti sanciscono formalmente il passaggio definitivo a una scuola nuova, adeguata al modello neoliberista, intesa come laboratorio di addestramento per competenze e abilità, non del “sapere per sapere”, ma di un “saper fare” applicabile e funzionale. La scuola non verrà distrutta, e questa è la buona notizia, quella cattiva è che sta facendo la stessa fine della democrazia: “una post-scuola”, priva di senso, svuotata come un guscio dall’interno[7].
Note
[1] Università telematiche: chi sono i politici dietro le lauree facili, in https://www.corriere.it/dataroom-milena-gabanelli/universita-telematiche-chi-sono-i-politici-dietro-le-lauree-facili/df09b81d-43c4-4163-a191-466c21ddbxlk.shtml.
[2] È ormai archeologia il sospetto caparbio che Croce serbava verso le scienze sociali.
[3] https://www.ilsole24ore.com/art/valditara-facciamo-ripartire-dialogo-scuola-e-lavoro-AFHVrBl.
[4] Rapporto Eurostat- Condizioni di vita in Europa, povertà ed esclusione sociale, aprile 2025, in https://www.ilsole24ore.com/art/eurostat-italia-5-milioni-persone-hanno-difficolta-spese-minime-sale-rischio-poverta-gli-anziani-AHdBi2U.
[5] In https://www.repubblica.it/economia/2024/10/28/news/italia_rischio_poverta_eurostat-423581606/.
[6] M. Ferraris, La pelle, che cosa significa pensare nell’epoca dell’intelligenza artificiale, Il Mulino, Bologna, 2025, p. 134.
[7] C. Galli, Democrazia, ultimo atto?, Einaudi, Torino, 2023, pp. 86 e 87.
Caro Marcello ho letto attentamente: la scuola ,era , è ,e sarà sempre governata da una accozzaglia di personaggi burocrati politicizzati e colletti bianchi ,che non hanno mai frequentato seriamente forse tranne le scuole elementari da bambini .Finché la ciurma di insegnanti non raddrizzera la schiena a mio malincuore ripeto tale resterà magari peggio
Divertentissimo
Grazie per il commento lucidissimo. Sappiamo come l’università usa questi soldi e, soprattutto, quanto paga e come recluta gli insegnanti che tengono i corsi abilitanti?
Per Sofia: tutti i corsisti lamentano l’inutilità dei corsi “disciplinari”, che sono affidati a docenti universitari, che non possono insegnare nulla di un lavoro che quasi mai hanno svolto. La didattica di una disciplina non è la disciplina stessa e non è vero che non abbia statuto epistemologico. Semplicemente, è un’area di ricerca che mediamente non praticano e spesso snobbano. Cosicché i futuri insegnanti dovrebbero imparare a insegnare da chi non ha idea di come di insegni e della relativa letteratura scientifica.
L’infernale meccanismo dei corsi abilitanti è funzionale al progressivo e inesorabile declino di una scuola che prova fastidio per le conoscenze, illusoriamente convinta che siano più importanti le famigerate e tanto sbandierate competenze. Le conoscenze fanno paura a tutti coloro ( in primis ai tanti eredi di Draghi ) che hanno come missione quello di controllare il sistema scolastico pubblico.