di Gabriele Frasca
[E’ da poco uscito per Nino Aragno Editore, nella collana double face “pietre d’angolo” diretta da Andrea Cortellessa, Un colpo d’occhio all’ascolto del mondo di Gabriele Frasca, accompagnato da L’amore per l’uomo vivo di Dziga Vertov. Pubblichiamo un estratto del saggio di Frasca, ringraziando l’autore e l’editore].
Stephen Dedalus si aggira sulla spiaggia di Sandymount, rimuginando su tutto ciò che gli è capitato quel giorno, e non sono che le 11, e siamo solo al terzo capitolo dello Ulysses: è stato difatti sbattuto con un sotterfugio fuori di casa dal solito sedicente amico pronto a divenire uno dei tanti funzionari dell’ovvio, e ha perso finanche il lavoro. Eppure la maggior parte dei suoi pensieri ruota sul senso di una presunta vocazione all’arte, che è una chiamata alla quale al momento, malgrado le ali di cera intraviste nel famigerato finale del Portrait of the Artist as a Young Man, non sembrerebbe aver dato risposta, se ancora non può vantare un’opera intestata al “nome assurdo” (U 4), posticcio, che comunque gli segna il destino. Perché, a dirla tutta, se un verdetto sarà emanato alla fine dello Ulysses, quando lo vedremo sparire come risucchiato dalle stelle (657), sarà la sua condanna a rimanere quello che in fondo è sempre stato e tornerà a essere una volta per tutte, anche malgrado il misterioso lembo di carta che gli vedremo vergare su quella stessa spiaggia: nient’altro che un personaggio. Ma non uno dei soliti; perché proprio da questo capitolo e fino alla sua stessa dissoluzione Stephen s’impossessa invero delle pagine del romanzo, non cessando letteralmente mai di adombrarvi una funzione. Un personaggio ripreso all’opera non diventerà mai un autore, ma metterà di sicuro a giorno con l’ombra che vi detta il congegno che, se funziona, non potrà che proiettarlo oltre l’opera stessa. Le stelle che lo aspettano all’uscita di casa Bloom brillano ben oltre la pagina che le allucina.
L’artista che voglia essere artefice, e artificiere, ne desumiamo comunque come primo corollario, e di quelli fondanti, perché fu il rovello di James Joyce (classe 1882), deve innanzi tutto imparare a fare a meno del suo stesso ritratto; perché l’arte, potrà pure giocarvi, persino dargli vita, ma non si fonda sull’immaginario, e meno che meno su un suo riflesso che dia da pensare. L’artista che voglia rimanere tale, e non il funzionario dell’ovvio o l’amministratore della propria carriera, può se vuole provare soltanto a riflettere sul suo saper fare, con quel po’ di fiuto che lo mette in caccia della verità, che non è altro che una domanda puntualmente inevasa su quello che fa mestiere al suo mestiere. Come scriveva Dziga Vertov (classe 1896) in Noi, manifesto sostanzialmente redatto nel 1919 ma apparso con qualche variante sulla rivista dei costruttivisti “Kino-fot” nello stesso 1922 in cui avrebbe visto la luce il capolavoro joyciano: ”chiunque ami la propria arte deve ricercarne l’essenza tecnica” (VO 30). Non è in gioco l’adeguarsi a un insieme di regole, perché queste faranno sì la tecnica, ma non ne costituiscono l’essenza; che è al contrario un punto cieco, inqualificabile se non come l’avvenire di una consegna. L’essenza tecnica dell’arte, del resto, che è per davvero un atto d’amore, è stata sempre la sua riproducibilità, anche prima che nascessero i mezzi che resero la questione all’ordine del giorno. Come ricordava Walter Benjamin (classe 1892) nelle pagine iniziali, non solo di quella che sarebbe diventata la definitiva, ma già della prima stesura dell’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, quella che risale al 1935 e mette in luce non pochi punti di convergenza con la coeva ricerca antropologica di Marcel Jousse, la prima forma di riproducibilità, quella sulla quale si sarebbero poi innestate tutte le successive tecniche, altro non è che il rapporto fra allievo e maestro (R35 69, R39 20). Che poi è per l’appunto la questione delle questioni nel magistero di Jousse (classe 1886), che Benjamin non a caso citava nei Problemi di sociologia del linguaggio scritti in quello stesso anno (SL 38), e Joyce aveva assimilato per tempo sin dal suo arrivo a Parigi. Come si trasmette il vivente?
Ignaro però al momento di che cosa gli riservi il suo autore, che pure tanto in lui si era voluto identificare, Stephen, il personaggio-funzione, il personaggio-operatore, ha ai piedi come Mikhail Kaufman nell’Uomo con la macchina da presa un bel paio di stivali, di un certo pregio rispetto all’abbigliamento trasandato e costantemente a lutto che indossa. Li calzerà per tutta l’opera, trascinando a beneficio di questa da un capitolo all’altro, neanche fosse l’humus che le abbisogna, la melma salmastra del bagnasciuga che vi è rimasta appiccicata. Intorno a lui nient’altro che sabbia e sassi, e un letto di alghe e conchiglie, tutto ciò che il mare ritirandosi ha lasciato di sé, e che giungerà presto a volo di marea a reclamare. Il giovane Dedalus soltanto un’ora prima ne aveva viste tante, di conchiglie, tutte ripulite e in bell’ordine (U 30), durante l’accesa discussione che aveva sostenuto col direttore della scuola presso cui insegnava. Il signor Deasy, gretto propugnatore della teleologia della storia e convinto antisemita, ne faceva difatti collezione, e aveva anche arredato le pareti del suo ufficio coi ritratti di cavalli da corsa morti da un pezzo (32). Un vero montaggio alternato di elementi apparentemente incongrui, a pensarci, che costituiscono però tutt’insieme il quadro più o meno allegorico non tanto dell’incubo della storia, da cui Stephen dichiarerà in quell’occasione di provare vanamente a risvegliarsi (34), quanto dell’allucinazione a freddo di ogni storiografia, che preserva la memoria di un evento solo a patto di raschiarne il guscio, o ridurla piuttosto al fermo-immagine di una corsa arrestata una volta per tutte, e sempre pur di dilavarne ogni traccia di vita. Non anima lo sappiamo la ricerca storiografica, drogata di testimonianze che sono sin da sùbito certificati di morte, “l’amore per l’uomo vivo” (VO 207).
Ma perché amarlo? E poi: chi sarebbe costui, se lo stesso Stephen, lo abbiamo visto, non lo è, a meno di non voler considerare in vita l’intera meccanismo che mette in funzione l’opera? Non certo l’uomo tipo o l’uomo medio che, quando non è un’ombra dileguante in una statistica, è roba da imbalsamatori realisti: diciamo più semplicemente (e con Leopold Bloom di già nel mirino) che l’amabile “uomo vivo” è l’uomo comune, ma solo a patto che la macchina che lo accomuna a ciascuno di noi sia perfettamente in funzione, e sappia riprendere quel poco di mondo che afferra nel momento esatto in cui si fa riprendere. Si è sempre in due insomma, ma al di qua e al di là del congegno, senza alcuna promiscuità sessuale, per fare, non un uomo vivo, che tempo al tempo nessuno avrebbe mai le credenziali per esserlo, ma un uomo che viva al di là della morte. E non certo perché sia destinato a risorgere, per disperdere da sùbito ogni similitudine cristica; che sarebbe del resto andata stretta persino a un gesuita come Marcel Jousse, per cui il Rabbi Ieshua di Nazareth era stato innanzi tutto un “insegnante di genio” (AG 250), e dunque un “mimo-catechista” (301), una “vita formulaicamente vivente” (134) pronta a farsi ingerire dai suoi allievi (471, 500). Deriviamone allora piuttosto un secondo corollario che valga per Joyce quanto per Vertov, e magari finanche per Walter Benjamin, che con un giro d’immagini non lontano da quelle messe in voga dal padre gesuita contrapponeva il raccoglimento che ispira al borghese l’opera d’arte alla massa distratta che se la fa al contrario “sprofondare nel […] grembo” (R39 44): non c’è amore per l’uomo che non sia il tentativo di riportarlo in vita con l’ausilio di una macchina. A costo, come avrebbe detto il regista sovietico in un intervento pubblicato il 3 febbraio del 1925 su “Kino”, di respingere l’arte per la vita stessa (VO 84). Lo snodo è di quelli decisivi, per Vertov per esempio, che nemmeno avrebbe sospettato di rimanervi impigliato con tanti suoi compagni (di sventura) per tutto il resto dalla vita, e per Joyce che v’irretì spavaldamente l’opera successiva. E lo è ancora di più se si considera che l’arte, come modalità di sopravvivenza, processo mimetico o manovra elusiva che sia, altro non è che la stessa essenza tecnica della vita.
Stephen, che avanza senza fretta sulla spiaggia di Sandymount, è proprio su questo che s’interroga, su come cioè da artista possa rendere percepibile niente meno che il reale, senza ricorrere alla successione stratificata di quei documenti da allegare che non restituiranno mai il mollusco alla sua conchiglia, né libereranno ancora sulla pista il corsiere che un lampo fulminò una volta per tutte sulla lastra. La questione stessa della testimonianza fededegna, divenuta cruciale con la prima guerra mondiale, negli anni stessi della stesura della cosiddetta “Telemachia” dello Ulysses, e del primo apprendistato di un arruolato al cinema come Dziga Vertov, si manifesta qui con tutta la sfiducia nella storiografia, anzi nella narrazione stessa, che a conflitto concluso ne sarebbe poi conseguita. Come districarsi dalla colata di fango ideologico, a partire da quella tracimata dalla sciagurata Seconda Internazionale, che aveva sin da sùbito ricoperto i morti nelle trincee, così da trasformarli nel loro calco riproducibile? E nella fattispecie, e lasciando pure quella mattanza all’ineffabilità che ne rese possibile la replica, dove reperirlo al dunque il reale, non la semplice realtà costeggiata a malapena da una ricostruzione storiografica, che vi frapporrà sempre quel di più discorsivo in grado di disperderlo una volta per tutte, se questo come se non bastasse la sua già palese impalpabilità non può che essere soggetto alla marea senza sosta dello spazio e del tempo?
La passione per il reale, ha giustamente notato al tramonto del secolo Alain Badiou, è la chiave per comprendere il Novecento sin dai suoi primi decenni (S 54). Ma ricordando con quanta convinzione Vertov avesse proprio nel fatidico 1922 aderito al Lef (Levyi front iskusstv, Fronte di sinistra delle arti) di Osip Brik e Majakovskij, e che cosa abbia poi significato per le avanguardie sovietiche il dissolversi sei anni dopo di quest’ultimo avamposto futurista nella Rapp (Associazione russa degli scrittori proletari), non sarà difficile comprendere la glossa diciamo così suicidaria che lo stesso filosofo francese aggiunge a un certo punto alla questione: che, cioè, nel nome del reale, come ci ha già testimoniato del resto lo stesso regista sovietico, l’arte del secolo sarebbe stata in ogni occasione disposta a sacrificare se stessa (185). Come avrebbe scritto Benjamin a chiusa dell’ultima stesura dell’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, quella del 1939 che sarebbe poi diventata la vulgata, delle due l’una: o si sceglie l’arte che mette a morte il mondo perché non è all’altezza dei suoi desideri (che poi è l’immaginario, più o meno incuneato nella carne dal tasso di totalitarismo presente nei vari regimi), o quella politicizzata che prima o poi uccide se stessa (R39 48). Ma, attenzione, la questione è finanche più sottile: perché si sarebbe immolata invero per il reale, l’arte, non certo per la realtà che se ne fa discorso, e meno che meno per il realismo che, quando pure non esplicitamente monopolio di Stato, da sempre al più lo ideologizza, e ogni volta alla portata della classe sociale (quale sia supposta essere) che pretende o ritiene di disporne. Per Dziga Vertov, con quel suo nome assurdo, posticcio, da trottola con tanto di manovella in uno onomatopeica e antonomastica (dziga-dziga-dziga…), la questione era fin troppo chiara. Non stupisce allora che, accennando nel manifesto Noi alla tecnica cinematografica che i cosiddetti Kinoki (all’epoca nessun altri che i suoi stretti congiunti: la moglie e il fratello) si proponevano al tempo ancora soltanto di fare (la serie Kinopravda sarebbe partita da lì a poco, e di sicuro con molta più cautela formale di quanto non dichiarassero spavalde le intenzioni), il nostro ancora giovanissimo regista finisse con l’evocare niente meno che una “teoria della relatività sullo schermo” (VO 32). Majakovskij, del resto, a detta di un suo grande amico, e con l’intento di ricongiungere l’arte d’avanguardia alle punte avanzate del pensiero scientifico, avrebbe volentieri mandato un telegramma a Einstein (GDP 22).
Certo Stephen Dedalus sulla spiaggia di Sandymount può fingere di ignorarlo, confinato com’è nel suo eterno 16 giugno del 1904, non il suo autore, che ha a quell’altezza oltre un decennio di vantaggio di esperienze, e ne ha viste e sentite tante: col proseguire degli studi sull’elettricità, e il profilarsi delle regole probabilistiche del mondo subatomico, la bella realtà della fisica molare, fondale di ogni precedente narrazione, se ne stava invero andando in pezzi, e per ironia della sorte giusto a ridosso degli stessi anni in cui vecchi e allora nuovissimi media connettevano per la prima volta il mondo in quella guerra senza fine per le risorse da cui avrebbe tratto sostanza, a suo modo imperituro nel reincarnarsi da un medium all’altro, il primo immaginario di massa. Il quale immaginario, come avrebbe notato Benjamin in una nota ancora una volta della stesura definitiva del suo saggio, basandosi all’epoca essenzialmente sul cinema, non poteva non tornare a ripercorrere il trauma, cioè quel pericolo di perdere la vita con cui a partire giusto dalla prima guerra mondiale un’intera generazione aveva dovuto imparare a fare i conti (R39 55). Percepire la scena fenomenica, realizza pertanto Stephen limitandosi al momento a un paio di semplici esperimenti sensoriali, e senza nemmeno issarsi sulla tolda della nave einsteiniana, o sull’auto decapottabile da cui avrebbe girato la sua manovella Mikhail Kaufman, è innanzi tutto modificarla (U 37-38), a meno per l’appunto di non tenerla a bella posta stretta in una camiciola ideologica che la disperda e uccida: e non c’è già più niente di superomistico in questo sconsolato solipsismo che ha dimesso una volta per tutte la sua vestaglietta decadente.
Dedalus, o meglio Joyce, sta dando in realtà voce a una sorta di risentimento collettivo diffuso già alla fine del XIX secolo e letteralmente esploso con la guerra mondiale, e al quale in quel giro d’anni, come notò per primo nei suoi iniziali studi letterari Marshall McLuhan, e ha documentato poi ampiamente in un saggio del 1983 Stephen Kern, non è certo l’unico a rispondere. Dall’evoluzione dei trasporti, con la conseguente nascita di un tempo unificato continentale, poi addirittura mondiale, e le nuove altrimenti impensabili visioni dromoscopiche dal finestrino, al diffondersi delle radiocomunicazioni; dalla telefonia, primo esempio di scissione degli spazi percettivi, e simbolo ubiquitario quanti altri mai, al cinema, che con il montaggio separava una volta per tutte le angolazioni e le distanze del percetto dal movimento volontario del suo percipiente; tutto aveva contribuito in quegli anni a un’autentica rimappatura globale dello stesso sensorio della specie, alla quale non furono pochi (a partire dagli stessi militanti delle avanguardie storiche, e non solo) gli artisti in grado di rispondere. Del resto ogni essere umano (innanzi tutto occidentale) veniva virtualmente chiamato a sperimentare non solo una serie di stimoli sensoriali in qualche modo nuovi (cui doveva reagire con altrettanto inedite modalità di percezione) ma anche, con la diffusione del cinema e poi della radio, fenomeni di totale immersione, simultanea e risonante, nella riproducibilità tecnica dell’arte, con un grado di compartecipazione che sia pure con le debite differenze non poteva non richiamare quello delle tecniche coercitive ed etimologicamente entusiasmanti della trasmissione del sapere nelle culture orali. Grazie alle quali, per l’appunto, e proprio come a detta di Benjamin nella prima stesura dell’Opera d’arte sarebbe tornato ad avvenire solo con la riproducibilità tecnica, non esisteva opera che non nascesse per l’acquisizione collettiva, non già per l’acquisto privato proprio delle fasi classiste della storia della civiltà (R35 78). L’epos e il cinema, avrebbe di conseguenza aggiunto lo studioso tedesco qualche pagina più in là (101), condividono questo con l’arte più ecumenica e primigenia, che resta non a caso l’architettura: la ricezione comunitaria.
Le questioni restano dunque due, anche se appaiono fortemente interconnesse: quella insomma che Alain Badiou ha sintetizzato con la bella immagine di un’epoca votata a estrarre dalla miniera della realtà (grazie, beninteso, a tutte le gallerie che vi aveva con solerzia scavato il realismo del XIX secolo) un diamante puro e tagliente come il reale (S 185), e quella della controversa comunicabilità, se non addirittura replicabilità, di quest’ultimo. E, del resto, come potrebbe mai essere condiviso questo presunto reale che nemmeno si fa raggiungere come suol dirsi in proprio? Esiste per davvero un medium che possa assicurare, echeggiata in tanto vuoto, quella comunicazione fra cervelli che una tarda notazione diaristica di Vertov (VK 260) attribuiva allo schermo, e proprio in quel 1944 in cui, dalla stanza di un burocrate di partito all’altra, per lui s’era fatto così lontano? È inutile continuare a tenere coperte le carte: se quel medium per davvero esistesse, e garantisse una comunicazione reciproca, avremmo trovato, magari non il reale, ma in uno l’amore e l’uomo vivo di tutte le vite in grado di connettersi con la macchina che ne fa comunione. Sempre che sia per davvero un medium, e uno soltanto, quello che dobbiamo cercare, magari con un occhio al nostro qui e ora, come c’invita giustamente a fare Piero Montani (I 23), e dunque a quella rete digitale che Vertov sembrerebbe prefigurare in tante occasioni, fantasticando su migliaia di Kinoki sparsi per tutta l’Unione Sovietica, e magari per il mondo intero, a riprendere e rilanciare la “vita colta in flagrante” (VO 75), e che Joyce connettendo per secoli e secoli d’interpretazioni i suoi lettori parrebbe per primo, con decenni d’anticipo sugl’ingegneri cibernetici al soldo dalle forze armate americane, avere osato mettere in funzione col Finnegans Wake.
E dunque sarà un medium, uno soltanto, quello che dovremmo imparare a interrogare perché vi risuoni un po’ di reale? E quale: quello tipografico con cui Joyce rovesciò la vecchia arma ideologica borghese della letteratura come un guanto, oppure quello cinematografico con cui Vertov provò scientemente a contrapporvi l’antidoto bolscevico che avrebbe dato vita, non alla cultura proletaria trasognata dal Proletkul’t di Bogdanov, ma a quella senza più classi prevista da Lev Trockij già nel 1923 (LR 7) con quella lungimiranza (per l’evolversi delle forme sociali, ma ahilui non di quelle politiche) che lo contraddistingueva? O non sarà piuttosto la famigerata “essenza tecnica”, dell’una e dell’altro, che per tanti non potrebbe che convergere sul presupposto privilegio ottico che la cultura tipografica condividerebbe giusto col cinema, quella che dovremmo interrogare se vogliamo trovare l’amore necessario a tenere l’uomo in vita? Benjamin nel suo ancora imprescindibile saggio sulla riproducibilità tecnica, che sia detto una volta per tutte difficilmente avrebbe raggiunto tanta acutezza senza il magistero di Vertov, non aveva dubbi. E in questo continuo rimbalzo fra il cineasta sovietico e lo scrittore irlandese non li avremo nemmeno in questa sede: il cómpito di qualsivoglia arte è quello di generare esigenze che solo una forma d’arte ulteriore potrà soddisfare (R39 42). All’esegeta non resta che adeguarsi.
Le sigle che appaiono in questo lavoro corrispondono alle seguenti opere:
AG = Marcel Jousse, L’Anthropologie du Geste. L’Anthropologie du Geste – La Manducation de la Parole – Le Parlant, la Parole et le Souffle, Gallimard, Paris 2008.
GDM = Roman Jakobson, Una generazione che ha dissipato i suoi poeti. Il problema Majakovskij, traduzione italiana e cura di Vittorio Strada, Einaudi, Torino 1975.
I = Pietro Montani, Introduzione, in Dziga Vertov, L’occhio della rivoluzione, cit., pp. 9-23.
LR = Lev Trockij, Letteratura e rivoluzione, trad. italiana e cura di Vittorio Strada, Einaudi, Torino 1973.
R35 = Walter Benjamin, L’Œuvre d’art à l’époque de sa reproductibilité technique (Première version, 1935), trad. francese di Rainer Rochlitz, in Walter Benjamin, Œuvres III, Gallimard, Paris 2000.
R39 = Walter Benjamin, L’opera d’arte all’epoca della sua riproducibilità tecnica, trad. italiana di Enrico Filippini, Einaudi, Torino 1991.
S = Alain Badiou, Le Siècle, Seuil, Paris 2005.
SL = SL = Walter Benjamin, Problèmes de sociologie du langage. Un compte rendu collectif, trad. francese di Maurice de Gandillac rivista da Pierre Rusch, in Walter Benjamin, Écrits français, Gallimard, Paris 2003.
U = James Joyce, Ulysses. The 1922 text, a cura di Jeri Johnson, Oxford University Press, Oxford 1998.
VK = Dziga Vertov, Kino-Eye. The writings of Dziga Vertov, a cura di Annette Michelson, trad. inglese di Kevin O’Brien, University of California Press, Berkeley – Los Angeles – London 1984.
VO = Dziga Vertov, L’occhio della rivoluzione, a cura di Pietro Montani, trad. italiana di Maria Fabris e Mirella Meringolo, Mimesis, Milano 2011.
[Immagine: Manifesto di Entusiasmo. Sinfonia del Dombass di Dziga Vertov].
Ah che bello, Frasca ancora creativamente vivo ed in spinta! Per il resto, ormai a livello telematico resiste nella forma del caffe’ letterario militante solo L’Ombra delle Parole di Giorgio Linguaglossa e sodali, con la loro Nuova Ontologia Estetica fondata su basi surrealiste, mitteleuropee e soprattutto slave. Se le elezioni europee del prossimo anno faranno spazio al gruppone sovranista, ne vedremo delle belle.