di Aude Seigne
Traduzione di Enrico Monti
In collaborazione con Lorenza Antinori, Eva Campana, Fiona Dietemann, Ylenia Galeota, Lorenza Gambetti, Federica Melillo, Anna Nardi, Margherita Rigolli, Carla Spinali
[La casa editrice fiorentina SEF ha da poco inaugurato la collana Littera Helvetica, che accoglie opere letterarie e studi critici provenienti dalla Svizzera. La prima pubblicazione della collana, diretta da Tania Collani e Martina Della Casa, è il romanzo Una rete larga come il mondo (Toile large comme le monde), tradotto collaborativamente in italiano con il coordinamento di Enrico Monti. Ne pubblichiamo un estratto dalla prima parte, intitolata Gennaio].
È steso sul fondo dell’oceano. È immobile, longilineo e tubolare, grigio o forse nero, al buio non si capisce bene. Assomiglia a quello che abbiamo nei nostri salotti, dietro i nostri battiscopa, tra il muro e la lampada, tra la presa e il computer: un volgare cavo.
Chiamiamolo FLIN.
In fondo all’oceano, sembra che nevichi, come nelle interferenze dei vecchi televisori analogici. È poetico, e organico: cadaveri di pesci sbriciolati, detriti polverizzati del mondo intero che cadono dalla superficie. Nel buio assoluto del fondo dell’oceano, sono fiocchi graziosi che impiegano sei mesi per raggiungere il cavo, ma non lo coprono, non creano una coltre, l’analogia con la neve finisce qui.
Tutto è iniziato con un batiscafo. Questo sottomarino specializzato nelle grandi profondità doveva attraversare l’Atlantico, trovare una rotta ideale per flin, in modo che il suo lungo corpo – pur sempre 7000 km – potesse snodarsi dalle spiagge bretoni alle coste americane, senza che gli si parasse davanti nessun ostacolo, nessun canyon abissale o vulcano sottomarino. La dorsale oceanica, una sorta di spina dorsale che attraversa l’Atlantico da nord a sud e che segna la congiunzione di due placche continentali, doveva essere attraversata per forza, era una necessità logica. FLIN sarebbe stato discreto, così profondo, così sottile, così calmo, ma avrebbe finito per unire ciò che era diviso: due continenti separati da un oceano.
Intorno a FLIN si aggirano creature che si vedono solo nei documentari. La neve marina nutre degli artropodi, disgustose zampette filiformi che rasentano granchi ragno lunghi un metro e pulci di mare giganti, alle prese con il cadavere di un capodoglio. La carcassa di un capodoglio quasi non esiste, tanto è difficile immaginare la morte di un animale così imponente. Impiega mesi per decomporsi, fa parte ancora per molto di quell’ecosistema di ombre, costringendo le rane pescatrici e le anguille a girargli intorno. Grazie a un calamaro vampiro – una piovra rossa così diabolica da sembrare un cattivo della Disney – la scena è illuminata, rischiarata alle estremità dei suoi tentacoli da batteri bioluminescenti, aloni di luce bianca nell’acqua nera a 3000 metri di profondità.
Per decenni, i capodogli sono stati vittime degli antenati di FLIN, i primi cavi transatlantici che collegavano l’Europa all’America. Era colpa dei cavi dell’epoca, meno resistenti e meno ben fissati al fondo dell’oceano, se i capodogli pensavano che fossero alghe o giocattoli? Fatto sta che finivano per strangolarsi intorno a quei cavi, mettendo così fine alla loro favolosa aspettativa di vita, ed ecco smentito il detto secondo cui gli animali piccoli non mangiano quelli grandi.
La missione del batiscafo era di delimitare un’area larga 100 metri priva di ostacoli, da un’estremità all’altra dell’Atlantico. Un corridoio di 100 metri di larghezza che occorreva poi percorrere con una nave posacavi che doveva attraversare l’oceano a passo di lumaca, srotolando FLIN dietro di sé. FLIN era gettato a mare, calato come un’ancora o una matassa da sbrogliare. Sì, FLIN doveva ancorarsi al fondo dell’oceano, portando con sé tutta l’umanità. Ci volevano diverse ore perché un segmento di cavo raggiungesse il fondo, affondava lentamente, molto lentamente attraverso quei 3000 metri di acqua, correnti e animali marini. Deve averne viste di cose, FLIN.
Mi piacerebbe dirvi che FLIN non lo sa come vanno le cose e che non c’entra niente con tutta la storia che sta per iniziare. Ma non è vero. Perché se prendessimo una sezione di FLIN, se tagliassimo i pochi centimetri del suo diametro, vedreste che ha tutte le informazioni al suo interno, che è fatto di diversi strati destinati a proteggere il suo prezioso centro. Dall’esterno all’interno troveremmo polietilene, PET, acciaio, alluminio, plastica resistente agli urti e alle temperature, rame. Infine, al centro, delle fibre ottiche, impulsi di luce invisibili all’occhio umano che permettono di trasportare ogni secondo sotto l’oceano 145 milioni di e-mail.
Gli squali sono attratti da quel flusso di dati, da quell’effervescenza cieca che si sprigiona lontano dai suoi responsabili. Ecco un giovane squalo coccodrillo che si avvicina a flin. Il suo corpo affusolato serpeggia sul fondale come se cercasse di imitarne la forma, lo annusa, intuisce che la bestia non è autoctona. Il suo naso appuntito rimbalza contro lo strato esterno, ci prova con i denti, stringe le fauci intorno al cavo che rimane impassibile. Sorpreso dalla rigidità dell’oggetto, lo squalo strabuzza gli occhi neri per un attimo, tenta un timido morso per controllare. Si allontana sfiorando la sabbia. FLIN è perfettamente intatto.
Tra poche ore, il sole tramonterà su questa parte dell’Atlantico. Il plancton si dirigerà verso la superficie, rifuggendo l’oscurità. Le creature degli abissi lo seguiranno, perché vanno dove va il cibo, incrociando il pericoloso pesce-vela e il bizzarro pesce-luna, il solido nautilo e il gelatinoso pesce blob. FLIN, dal canto suo, rimarrà immobile, e continuerà a trasportare lontano dagli sguardi file, e-mail, immagini, video e qualsiasi altra cosa che utilizza in un modo o in un altro il world wide web.
[…]